«Aveva dei pensieri ma non li pensava.
[…] Domani, pensò. Meglio non dire niente di notte. Di notte le parole sono belve feroci.»
L’OSPITE D’ONORE è una voluminosa raccolta di racconti della scrittrice americana Joy Williams pubblicati per la prima volta in Italia dalle Edizioni Black Coffee, traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti. La giovane e coraggiosa casa editrice fiorentina si dedica esclusivamente alla narrativa nordamericana contemporanea con autori tutti da scoprire. Joy Williams, classe 1944, già apprezzata da Raymond Carver, Don Delillo e Bret Easton Ellis, è stata consacrata da alcuni critici come l’erede letteraria di Anton Čechov e Flannery O’Connor. Con queste premesse, e con l’entusiasmo di molti lettori italiani, era una scoperta da non perdere, e io non l’ho persa.
I racconti della Williams sono dirompenti, lo stile è lapidario e la narrazione scorre senza nessun abbellimento. La parola si fa storia e le storie, spesso crudeli, sono un’arma tra le mani dalla scrittrice. Chi entra in queste pagine scoprirà un’umanità alla deriva consapevole che non esiste salvezza o resurrezione. Nessun personaggio si ribella al suo destino perché la vita dura quel che deve durare, è inganno, è lo scontro costante tra principio di piacere e principio di realtà.
La realtà è così com’è e Joy Williams non teme di trascinare il lettore nelle intime galere dei suoi personaggi dominati dall’angoscia più profonda.
Alcuni racconti lasciano perplessi e si vorrebbe chiudere il libro per non sentire, per non vedere. Ma il dolore, terribile e straziante, lascia ferite che non possono e non devono richiudersi. L’urlo narrativo della scrittrice non cerca consolazione, né per sé né per le sue creature, e lo spettatore pagante resta fuori a osservare quello che accade dentro. E dentro alcuni racconti la percezione delle cose viene stravolta così assurdamente che, agli occhi di una bambina divenuta precocemente adulta e incredibilmente cinica, gli uccelli sono rettili con le ali.
Bisogna essere lettori disposti a calarsi in una claustrofobica discarica spirituale per riuscire a superare il turbamento iniziale e apprezzare la singolare originalità dei racconti della Williams. Basta ascoltare il riverbero di questo pensiero autentico che è raro, così raro che una volta scoperto vuoi farne parte anche se è un pensiero che disorienta, come disorientante è la lettura de L’OSPITE D’ONORE. La storia che dà il titolo alla raccolta si incrocia al breve racconto di un antico sacrificio giapponese: gli Ainu, una misteriosa popolazione asiatica, ogni inverno catturava un cucciolo d’orso, lo allevavano e lo nutrivano proprio come un ospite d’onore fino al giorno in cui veniva torturato e infine ucciso in un modo orribile.
Nei racconti degli anni più maturi della Williams si intravede un piccolo cambiamento, non una speranza ma una possibilità, perché alla fine la vita marcisce se non la si usa e a tutti noi tocca usarla finché c’è, finché non gira le spalle e svanisce per sempre.
«Una famiglia di esseri umani […] Ecco cosa siamo. E dobbiamo ricordarcelo. Gli altri siamo noi. Quando parliamo di qualcuno dovremmo rammentarci quanto in essenza sia simile a noi» […]
Certo, il suo era solo un modo per farsi coraggio, eppure talvolta concludeva dicendo che, a dispetto del loro dolore sgraziato e di tutti gli anni di smarrimento e confusione che ancora le aspettavano, la Terra era un bel posto. *
* J. Williams, La cellula madre, in L’ospite d’onore, Edizioni Black Coffee, Firenze 2017, p. 637