The only way to fight for yourself is not to be silent.
Per scelta, a Casa di Ringhiera non prendiamo mai posizione nè caldeggiamo movimenti di protesta particolari, ma da sempre siamo contro ogni forma di persecuzione e violazione della libertà’ personale. Tied Up, il progetto di Anna Bednenko e Dmitry Elagin, nasce e si sviluppa in Russia dove vige un clima di terrore e repressione verso chi, semplicemente ama un persona dello stesso sesso o nasce in un corpo con una sessualità che non sente sua e decide di cambiarlo ( rif. Washington Post ). Tied Up è un sogno che abbraccia un po’ tutti, che riguarda le libertà’ di ciascuno di poter vivere il proprio quotidiano con spontaneità, senza il timore di essere additati, aggrediti, arrestati.
Per questo il progetto proposto per la open call #Dreaming ci ha molto toccati e abbiamo deciso di pubblicarlo qui, così.
Summer 2019 in Moscow was a summer of protests.
Despite the government’s prohibition people went to the streets. Peaceful demonstrations were violently dispersed by police, innocents went to jail. Art is a kind of a voice using which you can tell what irritates, disappoints or bothers you, that’s how “Tied Up” was born. To show how we felt.
In 2020 queers in Russia still feel everyday pressure not to say even more of it. Government said “There should be only one union legalized: between a man and a woman” (suggested amendments for Article 72 pt.1 of the Constitution) and leaves the status of Secular State by mentioning church in the Constitution (suggested amendments for the Article 67 point 2 of the Constitution) which means giving more power to the homophobic beliefs and actions.
Starting July 4, a new constitution will be in force in Russia, which states that marriage is only between a man and a woman.
So you are TIED UP every now and then: among your family, friends, co-workers and even beloved ones.
You are inconvenient.
1. Corner.
Leaving the closet is inconvenient for both sides.
2. Propaganda.
One of the oldest night clubs in Moscow and the first one to support LGBTQ+ community with so-called “men’s days”. Security yelled at us, promised to break model’s leg and to erase the incident from all the camera records
3. Yama Moscow.
One of the most significant places for opposition youth. When we arrived and Dima lied down two guys stood above him saying “Aren’t you a man? Stand up!”
4. Nordstar.
Office buildings are places where everyone hides their identity behind strict suits. While you are hiding your inner self trying to control every word, gesture and activity in social life to prevent any rumours. Security told us to leave and called the police.
5. White House.
“Sometimes the rib cage starts to ache in need of some air both literally and metaphorically. That’s human nature: you need to breathe not only to live but even just to exist. In case you don’t want to be accidentally strangled, you’ll need to be seen properly.”
The only way to fight for yourself is not to be silent.
Il mio è un sogno liquido, fatto di acqua ricordi e desideri. Forse anche di paure.
Ovviamente ho sognato luoghi aperti, dopo giorni chiusa in casa.
Luoghi altri, perché qui ormai ho imparato a muovermi perfino con gli occhi chiusi. Ho vissuto ogni centimetro di questa casa, ogni minuto, ogni ora, fino a contare i giorni che sono diventati mesi.
E qualche notte sono scappata a Venezia, in fuga onirica (in assenza di viaggi reali).
Perché è la città dell’Osmosi: solo lì i miei pensieri riescono a scivolare sul selciato umido, mentre respiro la sua anima decadente, antica, malinconica. E dolce.
Divento acqua e pietra anche io, in uno scambio continuo e reciproco.
Sempre mi sono persa nelle spirali delle calle, in questa città non si procede mai guardando avanti.
Devi decidere di andare oltre, girare intorno alle case, trovare il ponte che ti faccia scavalcare i canali. È come vivere, in perenne movimento verso ciò che non si conosce, attraversando la Bellezza; in bilico nel dubbio, nella speranza, amando ogni cosa e rinunciando a ogni certezza.
Venezia è una Metafora.
Ricordo bene la prima volta che ho dormito lì. Nel cuore della notte, ho aperto gli occhi e ho semplicemente pensato “Sto dormendo sull’acqua”. Per un istante ho provato quasi paura. Poi quasi ebbrezza. Una vertigine sull’acqua nera, come guardarsi improvvisamente dentro, nel silenzio ovattato, e vacillare.
Ho camminato tanto, tutte le volte. Ho fatto fatica a respirare, immersa nel vocio disordinato della gente, dei turisti, tanti troppi – come sarà adesso?
Eppure, nonostante la ressa, non so quante volte sono riuscita a ritrovarmi sola, in certi angoli nascosti. Io e l’ombra veloce di un paio di ali. Il tempo necessario per riprendere fiato.
A Venezia il Tempo fluttua, forse corre veloce o forse si ferma. Non me lo chiedo più, perché ho capito che non ci sono risposte in questa città. Io che ho sempre la mania del controllo, ho rinunciato alle domande.
Le prime volte che ci sono stata giravo/girovagavo con le mappe, con il gps del cellulare, credendo di ingannare il labirinto di strade impossibili. Poi ho capito che dovevo avere il coraggio di perdermi. Che solo così mi sarei ritrovata.
Venezia è un Ossimoro.
Le verità nascoste suggeriscono soltanto, lievi. Sono un sussurro.
E lieve deve essere il cammino. Come nei sogni, dove non senti la terra, dove lasci il tuo corpo per sentire solo dentro, direttamente coi sensi.
Venezia è un Sogno.
E tornerò a perdermi, dopo essermi persa nel confinamento fisico, per vivere di nuovo.
E sentire e desiderare.
È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.
«Ti farò un indovinello. Stai aspettando un treno, un treno che ti porterà molto lontano. Sai dove speri che questo treno ti porti, ma non puoi averne la certezza. E non ha importanza. Come può non avere importanza dove ti porterà quel treno?»
Christopher Nolan, regista e sceneggiatore britannico, è conosciuto globalmente grazie ai suoi film intricati e mai banali, che obbligano il pubblico a seguire attivamente una complessa rete di vicende.
Attraverso trame non lineari, diversi livelli di racconto e con l’ausilio di effetti speciali mozzafiato, riesce a creare nuovi universi dove ogni legge fisica o temporale viene distrutta, dilatata e compressa, e dove l’anima e la psicologia vengono messe a nudo e analizzate.
Che si trovino sull’orlo di un buco nero o intrappolati in uno spazio onirico alimentato solamente dal subconscio, i personaggi plasmati da Nolan mantengono sempre un tratto estremamente umano: a prescindere dalla complessità della loro situazione, ciò che resta indispensabile è l’amore, che sfonda le barriere imposte dal tempo, dallo spazio e dalla stessa mente umana.
Uno dei lungometraggi di maggior successo del regista inglese è Inception, uscito nelle sale nel 2010. Un film di spionaggio onirico, a cavallo tra il sogno e la realtà. Leonardo DiCaprio interpreta il protagonista, Dom Cobb, un abile ladro di idee e segreti: questi vengono estratti dal profondo del subconscio delle sue “vittime” proprio durante i sogni, quando esso è più vulnerabile.
Sotto richiesta di un potente uomo d’affari, Cobb e il suo team devono riuscire a impiantare un’idea nel subconscio di un suo concorrente nel mondo dell’economia, attraverso tre livelli di sogni e un piano d’azione dettato da severe regole. La ricompensa, per Cobb, è un permesso per poter superare il confine americano e rivedere i suoi figli, da cui era stato allontanato poiché accusato dell’omicidio della moglie.
Il paradosso del sogno di Inception è la sua malleabilitá, che si scontra con l’incontrollabilitá del subconscio e degli scheletri che ognuno nasconde negli antri più bui della propria mente. Durante i sogni siamo padroni e schiavi; possiamo costruire città, trasformarci e infrangere ogni legge, ma allo stesso tempo tutto ciò che tentiamo di reprimere viene alla luce, rendendoci sconosciuto il nostro stesso campo di battaglia e distruggendo tutto ciò che di stabile abbiamo creato.
Il fascino dell’ignoto e dell’incomprensibile, peró, è forte, e per questo motivo Nolan ha ideato uno spazio onirico grezzo che prende il nome di Limbo: un mondo dentro al subconscio, uno spazio in cui chi si avventura troppo a fondo nei meandri della mente, resta bloccato.
Gente che ha smesso di credere nella realtà e che si rifugia in un universo ostile e immaginario, dove l’unico modo per tornare in sé è uccidersi: un atto audace, folle per qualcuno che ha reso la sua vita un sogno da cui non si vuole svegliare. Tutto ciò che rimane è la speranza di svegliarsi mista all’impossibilità di lasciarsi andare.
«Ti farò un indovinello. Stai aspettando un treno, un treno che ti porterà molto lontano. Sai dove speri che questo treno ti porti, ma non puoi averne la certezza. E non ha importanza. Come può non avere importanza dove ti porterà quel treno? Perché saremo insieme».
Inception è un film volutamente ambiguo e difficile da leggere; nonostante ci siano varie teorie per decifrarlo, nessuna di queste è esaustiva: c’è sempre un tassello mancante. Ma cosa vuole dirci, Nolan, attraverso questo labirinto di sogni?
Vuole dirci di sognare, ma soprattutto di vivere e di non perderci in realtà fittizie. Ciò che cercheremmo lì sarebbe ciò che abbiamo amato nella nostra quotidianità, cioè la nostra realtà.
Il finale del film è molto discusso. Al pubblico non è dato sapere se Cobb riesce a tornare a casa dai suoi figli o se resta intrappolato nel Limbo. La clip della trottola, che indicherebbe lo stato di realtà o di sogno, viene interrotta prima che ci venga consegnato il verdetto finale. Ma come mai?
Cobb ha ritrovato la sua realtà, e davanti all’amore, il sogno e la realtà si dissolvono per lui. Mentre noi spettatori restiamo sulle spine, il suo viaggio attraverso lo spazio onirico si è concluso grazie al suo forte desiderio di tornare alla quotidianità. Il treno di Cobb è arrivato a destinazione; non ci è dato sapere dove, ma non importa, poiché sarà insieme ai suoi figli.
Nolan si spiega:
“In generale, in questi discorsi, si dice sempre «Inseguite i vostri sogni». Io non ve lo dirò, perché non ci credo. Inseguite, piuttosto, la vostra realtà. Nel tempo si è deciso che la realtà sia il parente povero dei nostri sogni. E io invece voglio dire che i sogni, le nostre realtà virtuali, le astrazioni di cui ci si innamora e in cui ci si crogiola, sono dei sottogruppi della realtà. Alla fine del film, Cobb, cioè Di Caprio, si ritrova con i suoi figli – almeno nella sua realtà soggettiva. Ma non si riesce a sapere se si tratta della realtà oggettiva o meno. E tutti quelli che incontro me lo chiedono, ed è significativo: tutti vogliono sapere se è nella realtà perché, alla fine, è la realtà che conta. È quella che importa davvero”.
*** attenzione, può contenere discrete tracce di spoiler ***
Tales from the Loop è una produzione originale Amazon disponibile su Prime Video. Ispirata alle illustrazioni futuristiche dell’artista svedese Simon Stålenhag, attraverso storie (anche) fantastiche, la serie tv indaga i sentimenti, le fragilità umane in modo pittorico, ne sfuma i contorni, esalta colori, giocando con la luce che si infrange sulla tela rivelando dettagli in modo morbido e drammatico al contempo. Una serie antologica che sovverte gli schemi narrativi a cui siamo da tempo abituati (e dipendenti, binge watchers che non siamo altro!) fatta di racconti romantici, malinconici e – soprattutto – autoconclusivi, che piombano sullo schermo di casa i primi giorni della fase due, quando la vita qui sembra ripartire. Uno in particolare, Stasi.
That moment
Quell’istante. Quella meravigliosa sensazione di eccitazione. Perché fugge sempre via? Anche quando sai che è un momento speciale, finisce comunque. Perché non possiamo vivere sempre quel momento? Quella sensazione? Perché non può durare per sempre come vorremmo?
Sulle note di “The dark end of the streets” di James Carr, le parole di May, protagonista del terzo episodio della serie, ci conducono nel cuore della questione. Esile e leggera come un soffio di vento che fa increspare appena la pelle quando t’accarezza. Un fruscio delicato ma insistente. Ti sfiora. Ti fa voltare. Guarda: May è una ragazza romantica, riflessiva ma anche estremamente pragmatica e concreta – lei che vuole capire il funzionamento delle cose, le apre, le smonta, le rimonta) si chiede perché non possa durare per sempre?
Quel momento. Unico. Felice. Quello soltanto, per sempre. È così che si può vivere l’amore? Con un qualcosa che rappresenti il segno, che permetta di delimitare e comprendere il confine tra sogno e realtà, come la trottola di Inception. Ed è quel oggetto indefinito, che May scorge mentre è a pesca con il padre e recupera in acqua, una bizzarra lanterna con un pulsante di accensione. Semplice e inequivocabile. ON/OFF. Quello è il segno. l’oggetto. Corruttibile, finito, che mostra fin dall’inizio inceppamenti. Piccole crepe nel funzionamento. Metaforico anticipo di quello che verrà.
Così May studia e armeggia e ripara e scopre che il tempo si ferma grazie a quel misterioso oggetto. Grazie ai due anelli di metallo da allacciare al polso, suggello di una promessa d’amore che è destinata a durare per un tempo indefinito. Che forzatamente non muta ma poi reclama e arriva a riscuotere ciò che le spetta.
E così seguiamo e scopriamo May e Ethan – giovani e innamorati – attraverso gli sguardi, i movimenti di camera che indugiano, lenti, sulle dita, le ciocche di capelli che scivolano sulla pelle, le labbra che si mordono, gli sguardi che si cercano.
Frammenti visivi che si muovono armoniosi attraverso la narrazione musicale di Philip Glass, minimalista e ripetivitiva. Così noi assistiamo a un flusso sonoro che percepiamo come fisico, rimbomba nei nostri occhi come fosse un altro luogo, uno spazio ancor più ampio dove collocare questa storia e tutte le sue intenzioni suggestive.
Pur con una narrazione molto poetica e immaginifica, Stasi sembra voler penetrare nell’essenza stessa di una sensazione, quasi fosse l’intensità, la durata – eterna, nell’idea di May – la fissità in movimento di un momento specifico, il fulcro di tutto.
E il resto del mondo, nel frattempo?
Potremo davvero vivere soli, camminare per le strade di un luogo in fermo immagine? Per quanto tempo potremo sostenere un’esistenza aggirandoci per le strade di un mondo che si fa solo sfondo immutabile?
In un solo preciso momento della giorno. Vivere alla luce del sole una giornata che si allunga all’infinito, senza più riferimenti, senza più confronto, senza più scontro? Fino a che punto si può essere felici rincorrendo quell’istante all’infinito? L’euforia dei primi istanti, sentirsi potenti e invincibili nel guardare la vita intorno che ora ci appartiene. Sentirsi dannatamente liberi di vivere le proprie emozioni, l’amore senza il timore del giudizio. Senza doversi nascondere. Sotto gli occhi di tutti. Lì, in mezzo al traffico immobile, si fondono i protagonisti, unico movimento concesso alla scena, una danza d’amore impaziente e proibita che si esibisce senza clamore su quel palcoscenico del quotidiano circondato da ignari spettatori. Un momento nel momento – eterno splendore – unico e irripetibile, che si frammenta e si fa altro ancora, ricordo e consolazione per un futuro che, si sa, tornerà presto a reclamare il suo pegno.
I due trascorrono un mese in quella bolla sensoriale, forse anche di più. Il paradosso di avvertire lo scorrere del tempo proprio quando il tempo sembra non esistere più. Il bisogno di Ethan di lasciarlo fluire di nuovo, viverlo accettando il suo corso. Lo smarrimento di May che, invece, ha paura e vorrebbe rimanere lì così, magari per sempre.
Eppure la vita vera chiama, impone delle scelte, il ritorno alla realtà si fa necessario. Ed ecco che la bizzarra lanterna magica si inceppa e di nuovo May si prodiga per aggiustarla, farla funzionare, affinché li liberi da una condizione che si fa quasi insopportabile.
La scoperta della vita, di quella imprescindibile imperfezione che la caratterizza, che fa parte di ognuno di noi. La resistenza di May che perde il controllo anche in quel sogno che vive con Ethan, e tenta disperatamente di far durare più a lungo possibile. Ma sfugge. S’infrange. Come la promessa iniziale che li ha uniti. I due litigano, si perdono confondendosi in un tempo che torna a scorrere e li porta altrove.
La stessa protagonista percorre un’evoluzione che non sarebbe possibile nella fissità di un momento, e di uno soltanto, per quanto intenso e incantevole. Che la cruda meraviglia della vita sta proprio nella rivelazione, nella crescita, nell’evoluzione, nel cambiamento. Nell’inizio così come nella fine. May deve accettarlo, suo malgrado.
L’inquadratura che si sofferma su quel pulsante e ci lascia immersi per qualche istante davanti a quella scelta. On/off. Il respiro che manca, la pressione del pollice. Il silenzio che si infrange. Come la promessa. Davanti a all’orizzonte infinito. Il rumore del mare, del vento, dei gabbiani. L’anello che si richiude intorno alla lanterna. I silenzi sovraccarichi. I respiri. La vita che riprende, fragile. Ma senza spezzarsi. Anche quando passa oltre e sembra fuggire via.
That moment. Il loop narrativo – emozionale e poetico – riconduce al principio, mentre il giorno volge al termine, il cielo cambia colore e i neon per le strade iniziano la loro danza luminosa. E quella domanda che ritorna, che per sua stessa natura non può avere risposta, per lo meno non quella che la protagonista ha disperatamente cercato di forzare.
Ogni volta che passerai di qui, ti ricorderai di quello che abbiamo fatto. Questo momento.
Ed è proprio lì, in quella strada, che le loro vite si incrociano di nuovo. Per un breve instante. Al calar della sera. Gli sguardi e i silenzi, di nuovo. L’incapacità di andare oltre, e rompere quella stasi. Perfetta.
A volte le cose sono speciali perchè non durano per sempre.
Stasi è una lirica lenta. Sospesa. Onirica. piena di delicatezza e malinconia che s’invola nell’aria, volteggia, affascina e poi si evolve sfiora sentimenti, solleva dubbi, pone interrogativi e impone delle scelte. Attraverso l’apparente staticità prolungata lo spettatore percepisce una sorta di movimento, un flusso onirico che ha durata e senso. Un inizio e una fine. A volte le cose sono speciali perchè non durano per sempre. A volte basta il tempo di una puntata, di una poesia vissuta una sera qualunque – che inizia e finisce – lasciando un profumo malinconico ma buono.
L’esplorazione di fugaci momenti di felicità, giocati in questo scenario what if del congelamento del tempo, dimostra che non è sufficiente fermare tutto. Che è proprio questo flusso inarrestabile e fuori controllo a rendere speciale quel momento. Che per continuare a sognare, è anche necessario aprire gli occhi e passare oltre.
“La conoscenza offerta da una donna fa di quella donna un mostro”.
È questo uno dei fulcri riassuntivi di ogni protagonista dei podcast di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, rispettivamente autrice e coordinatrice editoriale di Storielibere.fm. Podcast e successivamente libro che si intitolano “Morgana”.
Il fil rouge di tutte queste “storie di ragazze che tua madre non approverebbe”, come chiarisce il sottotitolo stesso dei podcast, è il ruolo e l’evoluzione che la figura della donna ha avuto nel corso dei tempi, abbracciando ogni ambito storico-culturale e mitologico della storia dell’umanità.
Sarebbe banale partire da Eva? Forse sì, eppure la conoscenza offerta dalla prima donna ad Adamo, sotto forma di mela del peccato, allunga i tentacoli della colpa fino ai nostri giorni.
Conoscenza che prende, a seconda della storia raccontata, le forme più disparate e demonizzate: la voce incantata delle sirene, l’intelligenza delle erudite degli anni ellenici, la modernità delle “streghe” medievali, la bellezza che diventa crimine, la voglia di riscatto tacciata come follia, il sesso come strumento di emancipazione.
Mezzi questi, rivendicati dalle donne come arma e scudo contro chi le ha volute cieche, mute e sorde.
Ma davvero queste sono storie che le nostre madri non approverebbero? I podcast, e di conseguenza il libro, prendono in esame figure femminili che hanno fatto la differenza, consapevolmente o meno, nella lotta alla misoginia nei confronti di “quelle che uscivano fuori dagli schemi”. Si nominano Ipazia, Margaret Atwood, le sorelle Brontë, Tonya Harding, Marina Abramović, Vivienne Westwood, Morgana, Moana Pozzi, Cher e molte altre. Tutte donne con un nocciolo duro in comune: la capacità rivendicata di raccontarsi e di raccontare.
Menzionavamo la conoscenza offerta da una donna, quella forza, quell’unicità che dipinge Eva come peccatrice, Morgana come prostituta, Ipazia come blasfema, Marina come pazza e tutte le altre streghe antiche e odierne, il cui unico trono possibile è un rogo di pensiero e di fatto. Ed ecco che queste donne diventano mostri da additare, da elevare a capro espiatorio, come monito per tutte le altre. Murgia e Tagliaferri raccolgono le vite di alcune di queste donne straordinarie come esempio sì, ma positivo, in una sorta di rivendicazione allo specchio che restituisce loro dignità e risonanza.
Uno su tutti: Ipazia di Alessandria, filosofa, scienziata e studiosa d’eccellenza, in un’epoca in cui le donne non avevano la possibilità di distinguersi. Fu assassinata, fatta a pezzi e bruciata da un gruppo di fanatici cristiani a causa della sua indipendenza e influenza. Per questo, divenne una martire pagana, la martire del libero pensiero.
La sua morte è certamente il simbolo di ciò che può succedere a quelle donne che, sfuggendo dai confini e dai limiti che la società e l’ignoranza impongono loro, osano ribellarsi. La cosa peggiore è la morte ma tra questa e la fama c’è un limbo nebbioso in cui vanno a finire tutte le altre.
Basti pensare a quanti di noi ricordano la prima donna ad aver preso un Nobel. O alla prima donna ad aver messo piede sulla luna. La prima ad aver vinto un Oscar per la regia? Risale solamente a dieci anni fa, assegnato a Kathryn Bigelow grazie al suo “The Hurt Locker”.
Alcune di loro hanno fatto la storia, in sordina ma anche a gran voce. Come non menzionare Anna Bolena? Checché se ne dica, grazie a lei abbiamo avuto Elisabetta I e tutto ciò che ne è derivato. Lo stesso potremmo dire di Elena di Troia, Artemisia Gentileschi, Giovanna D’Arco, Cleopatra, Mary Shelley, Frida Khalo, Eva Peron. Donne legate al destino dei loro uomini che però non ne sono state mai succubi, che hanno lasciato il loro marchio a fuoco sull’umanità essendo semplicemente loro stesse. Fedeli alla propria natura. Perché non si tratta di uomini e donne, di quello che uno o l’altra sono in grado di ottenere, ma di quello che gli viene riconosciuto.
Di loro ci ricordiamo. Ricordiamo la conoscenza che è filtrata attraverso i secoli, quella conoscenza che alcuni usano come arma per dipingerle in modo distorto. La domanda che nasce spontanea allora, grazie a Morgana, è: quando la conoscenza di cui siamo portatrici smetterà di diventare un’arma a doppio taglio?
I podcast e il libro ci aiutano forse a chiarirci le idee. La risposta, personalissima, non potrà mai essere univoca, come univoche non sono state le donne straordinarie della nostra storia.
Leila Bahlouri è nata a Roma ma ha origini persiane. Il padre è di Mashhad, città del nord al confine con l’Afghanistan, dove di tanto in tanto va a trascorrere il tempo in famiglia, o si muove in esplorazione per il paese. Dice di conservare poco di quella cultura nel quotidiano, sebbene la sua anima sia poco italiana e la poesia iraniana influenzi la sua scrittura. Vive un senso di alienazione costante.
Ho scavalcato per perdermi
Oltre il giardino,
Ma non c’è niente da prendere
Solo un respiro.
Ciao Leila, è un piacere intervistarti. Quando è iniziato il tuo percorso?
Ciao Ilaria, innanzitutto grazie. Il mio percorso è iniziato nel 2016, quando con Federico Leo ho iniziato a scrivere e suonare brani in italiano. Li abbiamo poi pubblicati, messo su una band e partiti per un tour di due anni.
Parlaci del nuovo singolo Blu: com’è nato? Come lo descriveresti in tre parole?
Blu è il primo di una raccolta di brani dedicati alla natura: i suoni del bosco, la lentezza nel fare le cose, i ritmi naturali del sonno. E’ nato in una cascina in aperta campagna dove è stato anche prodotto in una sessione a dir poco mistica a sei mani con Federico e Dario Tatoli (Makai). Era in un cassetto dal 2017 ma abbiamo deciso di farlo uscire durante la quarantena perché ci sembrava il momento perfetto per evidenziare l’importanza di un contatto con se stessi e con il pianeta che stiamo stressando con sistemi di distruzione più o meno sotto gli occhi di tutti. Tre parole: lento, malinconico, cantabile.
I tuoi brani sono autobiografici? Quanto mondo esterno entra in essi e qual è l’urgenza più grande che hai quando inizia a scrivere?
Non saprei, a volte sono solo visioni che mi attraversano. Sono le mie? Sono quelle di altri? L’urgenza primordiale è nel rapporto col suono: essenzialmente mi piace appoggiare l’orecchio sulla chitarra e suonare senza meta per ore.
Chi sono i musicisti a cui vi ispirate?
Sufjan Stevens, Bon Iver, Ryx, Daughter, Sigur Ròs, Mùm, Burial, James Blake, Jamiexx, Joni Mitchell rappresentano i nostri riferimenti, ma nonostante le influenze anglofone la sfida più grande per me è scrivere in italiano.
Con chi avete collaborato finora?
Scrivo sempre chitarra e voce e poi arrangio e suono con Federico. Di base siamo in due ma ci sono amici che abbiamo coinvolto nel tempo: Carmine Iuvone (violoncello / basso per Tosca e Motta) e Simone Memé (artista visivo), con i quali non escludiamo di continuare a fare cose.
Cos’è cambiato dal primo EP Leila a questo singolo? Si sentono sonorità diverse e una svolta verso un’elettronica “dreaming” e sospesa.
Il mio primo EP più che un punto di arrivo è un lavoro acerbo. Però ci ha dato la possibilità di iniziare a cercare una identità, ammetto di sentirmi fortunata per questo privilegio. Con Blu abbiamo sicuramente messo a fuoco l’estetica e l’idea di suono che vogliamo, così come le persone con cui ci interessa collaborare o il contesto di riferimento: abbiamo capito che siamo fatti per l’audiovisivo, che amiamo la musica per immagini e che ci piacerebbe collaborare ancora di più di quanto già non facciamo col mondo della fotografia, del cinema, dell’arte, della moda.
Due parole sulla collaborazione con Paolo Barretta?
Paolo Barretta incarna l’inverno, quando ci siamo sentiti telefonicamente ci siamo subito trovati sull’amore per i paesaggi islandesi: noi li tramutiamo in suono e lui in immagine. L’approccio onirico delle sue opere così come il gusto delle sue palettes rappresentano bene la nostra elettronica gelida e i nostri testi malinconici.
Foto di Paolo Barretta
Foto di Paolo Barretta
Come si rispecchia Blu in queste immagini?
I soggetti di Paolo sono spesso statici, anche la lentezza di Blu in qualche modo spinge verso quella stasi. Abbiamo scattato tra Roma e Torvaianica, era estate, Federico ed io indossavamo due felpe con il cappuccio e faceva caldissimo, altro che “winter”.
Com’è la scena musicale a Roma? È un terreno fertile per il vostro progetto e la musica in generale?
La scena romana è variopinta e si distingue sia per numero di artisti che di luoghi in cui la musica si fruisce o si crea, quindi direi che sì, Roma rappresenta un terreno abbastanza fertile. Noi ne rappresentiamo una micro cellula: oltre ad aver fatto 80 concerti, abbiamo uno studio di produzione che si chiama “Corrente”, nel quartiere Pigneto, in cui collaboriamo con vari artisti indipendenti. Siamo connessi anche a diverse realtà sparse per tutto il territorio italiano. Tra queste ci piace citare i pugliesi Mat di Terlizzi, laboratorio urbano di musica, arte, teatro, intercultura, cinema e club con una programmazione di respiro internazionale; e il Sudestudio di Guagnano, luogo storico e quasi leggendario per la musica alternativa in Italia: ci sono passati in maniere diverse Matilde Davoli, Populous, Beirut, Indian Wells, Erlend Øye., Jolly Mare, per fare qualche nome.
Dove avete suonato finora? Qual è la gig che ricordate con più emozione e perché?
In Italia credo ci manchi solo la Valle D’Aosta, per il resto siamo passati ovunque. In tour sono nate amicizie, amori per luoghi e realtà, come quella di Indiegeno Festival in Sicilia, dove abbiamo fatto il concerto che ricordiamo con più piacere, con lo sfondo del mare.
Prossimi progetti in mente?
Faremo uscire gli altri brani prodotti insieme a Blu, che come dicevo sono in un cassetto dal 2017. Con questo progetto abbiamo deciso di non seguire i ritmi frenetici del mercato musicale attuale, faremo ogni passo quando sentiremo che sarà il momento giusto, senza fare troppi programmi, e accogliendo quello che arriverà.
The amount of films you’ve watched, the songs you’ve listened to, the books you’ve read or the photographers you admire and all these laughs you’ve had and the tears you’ve shed, that all come down and connect so you can press the button and hear the click.
Mi chiamo Philip Margalias e sono nato in Grecia. Mi sono avvicinato alla fotografia giovanissimo poi, per un lungo periodo l’ho messa da parte. Un paio d’anni fa ho ripreso in mano una macchina fotografica analogica e così, all’improvviso, mi è tornato in mente il piacere di scattare in pellicola.
Mi intriga il mistero del negativo. La storia che si cela dietro lo scatto, la storia nascosta dello sguardo di colui che guarda. Il modo in cui la luce racconta una storia, quella stessa storia che viene racchiusa, infine, in un fotogramma dove la grana aggiunge quel valore emozionale senza tempo.
La fotografia, per me, è davvero tutto. La documentazione di un evento, un ritratto di qualcuno, uno scatto di notte o il semplice riflesso di me stesso allo specchio.
La Bellezza si può trovare davvero per caso in un semplice click, in un’istantanea di un momento preciso, in un negativo rovinato o nelle tonalità sbiadite di una pellicola scaduta.
Ciò che più mi interessa quando scatto è l’atmosfera che dipana una storia nella mente di chi guarda, quella storia che appartiene solo agli occhi di chi guarda.
Non esiste nessuna ricetta già scritta per il risultato finale. Non ci sono indicazioni certe. C’è solo la propria visione personale. Il proprio senso estetico.
Per esempio può essere semplicemente, che ne so, una sera in cui il sole tramonta e i contrasti lentamente svaniscono. Poi succede che improvvisamente una ricca gamma cromatica prende il sopravvento e ogni cosa comincia a pulsare di vita.
Once you accept that everything comes in frames, life gets an unexpected turn.
“C’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta. Così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato. Da sé stessi non si può fuggire” —
Andrej Arsen’evič Tarkovskij
Curon è una serie italiana targata Netflix, uscita il 10 giugno scorso.
La sinossi, che avevo letto in giro e riporto qui, mi aveva intrigato. Ed è stato il motivo per cui ho guardato tutti e sette gli episodi della serie.
Anna Raina, una donna milanese, fa ritorno dopo 17 anni di assenza nel natio paese di Curon, piccola località di montagna sulle rive di un lago su cui circolano strane leggende, insieme ai figli gemelli adolescenti Mauro e Daria. Nonostante i tentativi di dissuasione del nonno Thomas, la famiglia si stabilisce nell’inquietante albergo di quest’ultimo. Mentre i ragazzi si ambientano nella nuova realtà, Anna scompare misteriosamente; nel tentativo di ritrovarla, i gemelli scoprono i numerosi misteri del paese e sono costretti ad affrontare un’oscura eredità familiare.
Uno dei pregi di Curon è il coraggio, il quale andrebbe premiato tipo sempre. In questo caso ho amato il coraggio di una produzione per niente facile, per essere italiana (cit. Stanis di Boris).
Le location della serie sono tutte incredibili. Mozzafiato. Inquietantissime. Girata a Curon Venosta, paesino da cui prende il nome il titolo, sulle sponde del lago artificiale di Resia, Bolzano. Location perfette per questa storia. Quel lago quel campanile quell’albergo quei boschi. Quelle campane che non ci sono, ma che si sentono. Il campanile, che emerge dall’acqua, è l’unica parte che ancora si vede della vecchia chiesa sommersa, della vecchia città sommersa per la creazione della diga nel dopoguerra. Una leggenda racconta che in alcune giornate d’inverno si sentano ancora suonare le campane, che invece furono rimosse il 18 luglio 1950, prima appunto della creazione del lago. L’ambientazione dunque è perfetta, la serie prende le mosse dalla leggenda, ma ecco tutto questo da solo non può bastare.
Ho apprezzato tantissimo il tema della soundtrack, davvero notevole. Ma non le canzoni utilizzate per la colonna sonora; pare che abbiano messo riproduzione casuale in fase di montaggio. Così mentre i protagonisti parlano di cose drammatiche parte in sottofondo la Macarena. Sto esagerando certo, ma il senso non cambia. Le canzoni della soundtrack sembrano davvero buttate lì, come se fossero fuori sync rispetto alla creazione di senso del montaggio.
La fotografia mi è sembrata un po’ estrema troppo digitale, con tanta troppa postproduzione. A volte quasi superflua. Quei 7500 gradi Kelvin ricreati in post rendono il sangue color magenta, quando invece il sangue è un rosso carminio. Sono tanti piccoli dettagli ma alla fine quel blu stanca. Gli interni, invece, alcuni sono stati fotografati da dio. Molto evocativi quei daylight in controluce nell’albergo dei Reina.
Gli attori che interpretano i ragazzi, bravi tutti. Gli attori che interpretano gli adulti meno. Daria e Mauro, ma anche Miki e Giulio, sempre sul pezzo.
Sui buchi di sceneggiatura sorvoliamo, anche perché come la Casa di Carta insegna bisogna accettare di buon grado, dall’inizio, un Dark ma in versione altoatesina. Un po’ Revenants, un po’ Dark, un po’ Twin Peaks.
Klara è come la Katharina di Dark e Anna come Hannah e Albert come Ulrich, Miki e Giulio come Martha e Magnus, una specie di doppelgänger italiano della serie tedesca senza pioggia ma con la neve e l’accento milanese.
Tornando alla sceneggiatura, conosciamo tutti il procedimento per cui si disseminano lungo tutto l’arco narrativo le tracce della storia. Lo riportano i manuali di sceneggiatura e tutti gli autori lo sanno, per esperienza. Ma il punto è che ormai lo spettatore è più smarty degli autori. Se Klara racconta in classe ai suoi alunni, nel secondo episodio, che in ognuno di noi convivono due lupi, uno buono e uno cattivo; non è più una traccia disseminata è una sinossi con spoiler.
Così come la doppia O del titolo Curon (ad accentuare il tema del doppio, i gemelli, le due anime, lo specchio d’acqua) che a me ricorda un casino Cocoon, ve lo ricordate Cocoon? Non centra niente lo so, però quella doppia O mi ha riportato nella piscina aliena.
Il finale, che eviterò di spoilerare, è già stato ampiamente dibattuto e criticato. Io l’ho trovato degno della serie. Anzi un finale ancora più coraggioso, certo con qualche ingenuità, ma davvero quasi sulla linea (dei poveri) di certi episodi di GoT. I fan di GoT mi odieranno per questa reference, eppure io ho percepito un grande anelito verso il rompiamo gli schemi. Salvo poi lo scivolone, sul lago ghiacciato, un po’ tanto telefonato.
Ma comunque davvero coraggiosi questi di Curon, questi montanari. Io consiglio di vederla questa serie, sì per il coraggio, quello di saltare nel vuoto. Che manca a buona parte di noi. Nel lago di Resia, in questo caso. Per averci provato quantomeno.
One-eyed Jack, sempre presente.
Dalla redazione mi dicono che devo aggiungere una postilla: per chi non conoscesse il significato gergale della parola telefonato utilizzata in questa frase: Salvo poi lo scivolone, sul lago ghiacciato, un po’ tanto telefonato = Salvo poi lo scivolone “finale”, sul lago ghiacciato, un po’ tanto prevedibile.
Infine un P.S.: Domani comincia la terza e ultima stagione di Dark, per l’appunto.
Nelle scorse settimana abbiamo accolto e raccolto le storie di Luca Mata. Le abbiamo presentate una a una, in anteprima: dal Verde, al Blu, il Rosso, il Giallo e infine il Nero. Questi racconti, tanto sparsi quanto inaspettati, sono stati assemblati e ricuciti dal fotografo milanese – letteralmente – insieme ad altri pezzi. Foto, ritagli, ricami, parole e rimescolamenti artistici sono diventati così cinque quaderni, differenti nel colore ma unici per vocazione, ovvero i Composition Books. In questi giorni il set di quaderni é in stampa e Luca Mata, in collaborazione con il collettivo King Koala, ha realizzato una special box in edizione limitata.
Luca Mata, alias Luca Matarazzo è un personaggio letterario e in quanto tale ha sentito l’esigenza di esprimere narrativamente le sue forme espressive. Nasce nel 1982, sotto il segno dei mondiali di calcio vinti, “quando le partite si ascoltavano alla radio, i cartoni in tv erano quelli giapponesi e i giocattoli americani, la TV era quella di Mediaset, e il mio cibo preferito erano gli hamburger del Burghy e i Soldini della Mulino Bianco, cosi si è formato il mio primo immaginario che oggi molto influenza tutto il mio lavoro“.
I cinque anelli, cinque colori, cinque idee.
La strategia è la via del paradosso, come dice Sun Tsu, e Luca Mata scrive la sua arte della guerra artistica, in una maniera pura e personale. Vive nella continua ricerca di un equilibro, ha dentro di sé un hagakure che lo ha spinto oltre la mera fotografia e lo ha portato a ritagliare, imprimere, cucire e stampare il caotico mondo della sua immaginazione che come un sogno a occhi aperti si mischia con il reale. Una piega immaginativa che si sviluppa su cinque colori, cinque idee, cinque suggestioni ordinate e al contempo caotiche. Una lotta, una battaglia che puzza di tabacco e residui emozionali, Luca Mata come Miyamoto Musashi che scrive il suo diario, lo appunta, lo perfeziona e lega insieme i suoi “cinque anelli”. I colori scelti sono quelli del suo immaginario, quelli che più lo attirano.
Demoni e dee, amori e scopate, poesia della violenza.
La sua lotta è una tempesta calma che si infrange sulle pagine dei suoi quaderni, tra pulsioni, passioni ricordi di un passato violento e di un presente che esplode nel suo istante, raccolto da una foto, incarnato nella colla e nella pagina di una memoria, legato insieme con punti di sutura. Demoni e dee, amori e scopate, poesia della violenza.
Il montaggio di Luca Mata nei suoi quaderni è un mix di foto, colori, pennarelli, racconti e morsi estetici. Un mix di altri media capace di unire elementi incompatibili per raccontare cioè che l’artista ha nascosto tra le foglie della sua giungla interiore, fatta di persone incontrate e di pezzi di mondo osservato. Un diario di scuola segnato dalla vita, un insieme di fogli e di appunti da non dimenticare, una playlist che suona solo cinque canzoni potenti, un gesto che non è stato fatto, ma che avrebbe potuto essere qualcosa. Immagini e parole, racconti e frammenti taglienti come pezzi di vetro, il vetro di uno specchio che continua a riflettere l’immagine dell’artista anche quando è in frantumi.
Nel 2012 nasce il progetto fotografico Eromata (ne avevamo parlato anche noi, qui) , una raccolta di 7000 istantanee identificate come una personale “raccolta di figurine” per adulti. Questo lavoro è in continua crescita, e spesso è fonte di materiale per altre sperimentazioni che hanno portato alla creazione di questi quaderni.
Un retaggio adolescenziale che ricorda la scuola, le vacanze estive, i primi pomeriggi passati a scoprire i corpi nudi, deragliando sulle proprie perversioni e la una pornografia acerba, inconsapevole e tragicamente temeraria.
Insieme al collettivo King Koala ha realizzato una special box con i cinque quaderni in tiratura limitata di 300 copie.
Una domanda scomoda, ovviamente. Una domanda, una sola. E non è facile eh. Una domanda può mandare a monte un lavoro intero, può pregiudicare amicizie, rompere relazioni, compromettere rapporti personali. Con una domanda, soprattutto se scomoda e volutamente tale, ci si gioca il tutto per tutto. Ma una domanda implica anche qualcosa di più. Implica un pensiero molto lungo che la precede, implica il fermarsi a riflettere per tanto tempo, implica che anche la persona alla quale è rivolta deve ragionarci su parecchio, perché è quella la sua unica possibilità per esporsi al mondo e raccontarsi, quello è il suo solo appiglio, la sua unica strada percorribile.
Scelte e possibilità
Quindi quella persona potrà scegliere di rispondere ampiamente o di dare una risposta secca e veloce, concentrata in un periodo fatto di poche parole. Ma quella persona può anche divagare ed esprimere i più diversi aspetti della sua attività (in questo caso fotografica) e della sua vita stessa, in quella risposta. Il tutto risiede solo in un fatto di scelte, scelte e possibilità.
Crepe e fragilità: la mia domanda
La prima di tante domande scomode l’abbiamo posta ad Alessandro Vullo, fotografo siciliano, classe 1987, le cui notizie non vanno cercate in una biografia, né negli abstract dei suoi lavori e neanche nella copiosa corrispondenza che ci siamo scambiati nelle lunghe ore passate in treno. Alessandro Vullo è nelle sue fotografie.
La mia domanda: È che sono proprio belle, le tue fotografie. Ma ci sarà dentro qualche punto fragile, qualche oscenità, mi chiedo? Ci sarà in mezzo a tanti scatti bellissimi una dose di insensatezza, un muro che non tiene, una parete di cartongesso? Non è che ci stai fregando, Alessandro Vullo? Non è che stai nascondendo con un po’ di stucco una qualche crepa? E in questa crepa hai infilato la perdita, il dolore, il pianto – tutte componenti che rendono la vita ciò che è davvero, quella fatica immensa che è la vita. Nei tuoi scatti i tuoi protagonisti sono sempre tutti belli e c’è quasi sempre il sole nonostante intorno sia notte, forse è facile così. Me se provassi a fotografare la bruttezza? Sapresti farlo di illuminare il disagio, quello vero intendo. Non quello patinato, da privilegiati. Illustraci, per cortesia, la tua fotografia.
Alessandro Vullo: Fregarvi? Ma quale, vorrei si esserne capace, probabilmente mi venderei meglio e venderei di più. No, se pensate che anche il disagio che fotografo sia bello, è perché io lo vedo così. Dico davvero, lo vedo così. Io celebro, o meglio, provo a celebrare un istante, qualcosa di per se effimero, che per qualche motivo mi colpisce. Cerco di fregare il tempo, i ricordi, quello si. Forse cerco di fregare me stesso, di raccontarmela un po’… ma no, sono fin troppo consapevole in realtà, pur se a un livello molto istintivo, quasi primordiale. Fotografo per reagire, tutto qui. Consapevolezza, dicevo. So bene che una scena di squallore tossico può diventare romantica, da relitto umano a bohemienne il passo è breve. E’ un flickering che divide l’abisso dall’assoluto, un velo impalpabile. In quel diastema perturbante, da qualche parte, ci sono le mie fotografie. Con il disagio e l’amore. Con la perdita e il dolore, con la gioia vera e quella sintetica, sta tutto lì. Convive. Le tenebre non potrebbero esistere senza la luce, e un mondo di sola luce sarebbe monotono. A volte ammorbidisco, è vero, ma in fin dei conti è solo perché sono un ottimista cronico, è nella mia fisiologia donare una certa aura a ciò che immortalo. Non credo esista un disagio patinato e uno oscuro, il disagio è disagio, come l’amore è l’amore. Sono categorie assolute, declinate in modi diversi in base a contesti e situazioni, ciò che vedete nelle mie fotografie è il prodotto della mia interpretazione personale. Dalle crepe che ho, al massimo entra un po’ d’aria, non sono bravo a nascondere. Quelle che vedete sono le mie fotografie. Come le ho fatte, come le ho sentite, perché quando le penso troppo poi finisce che non le scatto.