di Michele Nenna
A cinque anni conoscevo già tutte le scene di Balla Coi Lupi (Kevin Costner, 1990). Passavo ore intere davanti al videoregistratore collegato ad un televisore Mivar premendo i tasti così come lo faceva un bambino ossessionato dall’ultima uscita firmata Clementoni. Le cose che più mi attraeva erano i cavalli, la tribù indiana dei Sioux e le immense praterie verdi. La storia di John Dunbar rimase talmente impressa nella mia mente, dall’inizio alla fine — nessun frame escluso –, che ero diventato il fenomeno da baraccone della mia famiglia. Di alcune scene ricordo anche le parole, le movenze dei corpi e gli sguardi tra gli interlocutori. Attualmente non dispongo di chissà quale vasta conoscenza di cinema western — certo, qualche classico lo conosco, ci mancherebbe altro –, ma questo mio legame con un film che racconta una piccola parte di quella che è stata la realtà di un’area geografica, da una parte in lotta per la sopravvivenza e dall’altra per l’unificazione degli stati, mi ha accompagnato per il resto degli anni successivi. Ancora oggi, quando avverto quella strana sensazione di nostalgia, guardo alcuni spezzoni su YouTube. Da quello che ho capito, non sono l’unico a provare una tale devozione per il tenente Dunbar. A leggere i commenti sotto ogni video ci si sente meno soli.
Quella di John Dunbar è la storia di un militare che comprende di essere sulla strada sbagliata, una strada che non porta da nessuna parte — se non allo sfacelo prima mentale e poi fisico del protagonista. Col passare degli anni, il fascino delle immagini ha lasciato il posto a quello esercitato dalla narrazione. I risvolti hanno assunto una connotazione diversa da quella che ero abituato ad attribuire da bambino. Ho compreso molte sfumature partendo dalla nuova ottica attraverso cui guardavo il mondo. La volontà di Dunbar di staccare da tutto e da tutti attraverso l’unica via possibile, ovvero quella del suicidio, riflette le forme di un vivere quotidiano che attanaglia la condizione umana in ogni sua declinazione, in ogni suo periodo storico, fino a decretare la nascita di un vuoto che non può far altro che generare leggerezza. John Dunbar cerca l’assenza, la propria assenza, attraverso l’unica via che è quella della morte. Il suo intento non riesce, e quello che per lo spettatore incollato allo schermo era una chiara volontà di farla finita, passa attraverso gli occhi degli altri ufficiali come una prova di coraggio, un atto eroico che non merita altro che essere celebrato con la libera concessione di scegliere dove trascorrere il lungo periodo di convalescenza. Il tenente Dunbar sceglie la frontiera americana, sceglie l’esilio volontario per ritrovare quello che aveva perso lungo la strada battuta fino a quel momento.
Imitavo tutto di quelle scene. Ad esempio, non scorderò mai quando presi la scopa e la misi in orizzontale tra le mie gambe. Lasciai cadere un laccio intorno al diametro dell’asta mantenendo i lembi uniti come se fossero briglie. Era il mio cavallo, e le setole sottili fingevano da criniera scura e lucida, proprio come una di quelle sfoggiate dai cavalli che apparivano nel film. Correvo per casa con il rischio di rompere qualcosa — non ricordo bene, ma qualche oggetto sarà pur andato in frantumi. Eppure, nonostante la mia empatia con la pellicola, c’erano sempre quelle due parti che mi facevamo molta paura. La prima era quella in cui il gruppo di Pawnee — tribù rivale dei Sioux — ammazza il mulattiere che aveva accompagnato John Dunbar nella sua nuova dimora. La seconda, invece, combacia con gli inizi della battaglia tra le due tribù, quando dal niente sbuca un Sioux che colpisce di sorpresa un Pawnee. Il coraggio, la presa di posizione e la determinazione di quel preciso istante mi fanno tuttora avvertire dei piccoli brividi, seppur minimi. Affrontare il proprio nemico a volto scoperto, con un’energia tale da obbedire all’idea dell’inesistenza di un domani. Il percorso di trasformazione, la mutazione di sé stesso, che vede John Dunbar diventare Balla Coi Lupi — nome attribuitogli dalla tribù indiana — è segnato da queste tappe. Sin dai primi scambi, dalle prime forme di comunicazione con gli indiani, il tenente si mostra interessato a conoscere qualcosa che va ben oltre i suoi orizzonti. La sete di intraprendere nuovi rapporti, alimentata dalla curiosità folle che solo un uomo come lui può nutrire nei confronti dell’ignoto, lo portano a divenire testimone di un evento caratterizzato dall’assenza di quella violenza che contraddistingueva i bianchi nelle praterie del Nebraska, dell’Ohio e del Dakota del Sud — per citare alcuni esempi.
Crescendo, e guardando il film con un’altra ottica, ho iniziato ad accorgermi — e poi appassionarmi — del diario tenuto da John Dunbar. Pagine e pagine riempite di appunti e disegni, pensieri espressi sotto il chiarore della luna mentre un fuoco teneva viva la curiosità dell’alba. Serie di volti, nuove scoperte geografiche e report di ogni genere. In quel diario c’è tutto il periodo precedente e parallelo a Balla Coi Lupi, il periodo della scoperta contrassegnata dalla diffidenza degli uni e la felicità dell’altro. La voce di Michele Gammino si fa carico di questa grande impresa. Riportare le parole, la punteggiatura che scalfisce i tempi della lettura e le sensazioni del suo autore fa sì che le nostre orecchie possano ascoltare il suono della meraviglia insita in un tenente che ha scelto la frontiera come posto per la propria guarigione. Una guarigione completa del corpo che comprende sia il fisico che la mente. Un diario che racconta la storia di un pezzo di vita del suo autore che finisce nelle mani sbagliate nell’ultima parte del film. Quando la voce di Gammino — voce d’eccezione che contraddistingue Kevin Costner nei suoi capolavori precedenti al salto pubblicitario con la Rio Mare — si alza nel pieno di una ripresa a campo aperto che inquadra l’immensa prateria, sembra di essere lì, in quel posto preciso, in quel momento preciso, a leggere quello che hai tra le mani, ovvero il diario di Dunbar. Quello è il resoconto di un viaggio che non si compie solo nello spazio, ma anche nel tempo e nell’animo. A risentire quelle parole espresse con quella capacità interpretativa, la stessa che compete ad un traduttore quando interpreta il testo di un altro autore, mi sono tornate alla mente le parole di Paolo Cognetti riferite alla nuova destinazione della letteratura. Una letteratura che ha intrapreso la strada del ritorno al selvaggio, a quelle atmosfere completamente immerse in una natura a dir poco incontaminata e che aspetta l’essere umano per aiutarlo a comprendere i diversi lati inesplorati della sua vita ormai smarrita per le vie delle metropoli di tutto il mondo. Nel diario di Dunbar, i momenti trascorsi all’insegna della scoperta di Due Calzini, o del rapporto con Cisco, o ancora delle prime visite di Uccello Scalciante e Vento Nei Capelli, sono narrazioni che affascinano lo spettatore perché favoriscono la comprensione di una realtà distante dalla sua, che ha visto una popolazione saccheggiata della propria terra, della propria storia. Il merito di questa portata narrativa va anche anche allo sceneggiatore Michael Blake, già autore del romanzo Dances With Wolves (1988) da cui è tratto il film. Una sorta di riscoperta del selvaggio, di quello che è stato, per tenere a mente il passato, e attraverso di esso gettare le basi per un ponte che colleghi al presente tutte quelle esistenze disorientate dal trambusto dei taxi.
Qualche giorno fa ho rivisto su YouTube alcuni spezzoni del film. Mi sono ripromesso di vederlo interamente una sera di queste. Potrei riuscire a trovare qualcosa che negli anni mi è sfuggito, nonostante i diversi punti di vista che ho maturato nel tempo. La frontiera cercata da John Dunbar gli ha permesso di ritrovare sé stesso, per poi aiutarlo nella decisione di andare via dalle terre Americane, lontano dai bianchi che ormai gli davano la caccia. Il Canada come rifugio dal freddo, dalla fame e dalla minaccia di morte. Cercherò una buona risoluzione video per godermi uno dei film della mia infanzia, al pari della mia età e onnipresente nei miei ricordi. Certo, questa volta non prenderò la scopa per trasformarla in un cavallo, ma la impiegherò sicuramente per raccogliere le briciole di quello che sgranocchierò durante le tre ore di visione di Balla Coi Lupi.