«Can you see in the dark?
Can you see the look on your face?
The flashing white light’s been turned off
You don’t know who’s in your bed»
Riesci a vedere nelle tenebre, mi chiedo, adesso che nelle tenebre hai ficcato la testa, le mani, le braccia, il tuo corpo robusto, la barba folta, i pensieri, la voce, i sogni, i silenzi. Ora che le parole sono scomparse dalla tua mente, che sei da qualche parte lontana, io sento ancora il tuo cantare dentro a un disco registrato che si ripete nella mia testa.
Nel postscriptum di Norvegian Wood – Tokyo Blues di Murakami, si legge “questo libro è dedicato a tutti i miei amici che sono morti e a quelli che restano”. Le pagine del romanzo dello scrittore giapponese sono impregnate di un senso di disagio, insoddisfazione, un’inquietudine che tinge tutta l’atmosfera di tonalità grigie. Tuttavia, dentro l’opera, possiamo cogliere anche una flebile luce: è quella emanata dalle vite di chi resta, di quelli che non si arrendono, ma è la luce anche di chi se n’è andato.
In fondo, forse, del nostro passaggio su questo mondo non lasciamo altro che strascichi di luce. La luce che lascia Scott Hutchison – leader dei Frightened Rabbit, band indie britannica, morto il 10 maggio 2018 a 36 anni – è nella forma di una bellissima musica, stracolma della sua voce graffiante, di parole gridate senza paura, di ritmi incalzanti.
Era maggio, una bella mattina di maggio, l’aria tiepida. Guidavo su strade deserte con la spensieratezza che può mettere addosso una giornata di sole. Però, a un tratto, chi era con me comincia distrattamente a leggere ad alta voce qualche notizia. Mormora: il cantante della band scozzese dei Frightened Rabbit è stato trovato morto. È stato allora, mentre la strada diventava curva e tortuosa, che fui investita da incredulità e poi tanta tristezza; l’unica cosa più sensata da fare in quel momento era far partire uno dei loro primi album The Midnight Organ Fight, che inizia lentamente, prima solo con qualche nota di chitarra e voce, per poi esplodere ferocemente ma mantenendo una spensieratezza delicata nel ritmo.
L’album si chiude con una brevissima e malinconica Who’d You Kill Now?, unicamente chitarra e voce, due versi ripetuti due volte in un minuto e quattro.
Ad essere sinceri, non so ancora di preciso quello che voglio scrivere, né come. Non so se è necessario che io parli della vita o della morte come categorie astratte, come idee. È il 31 luglio, si muore di caldo. Il mio bonsai è ridotto all’osso e forse non si riprenderà più. Dovrò accettarlo. I suoi rami sono piegati verso il basso, spogli. Ma io continuo ad annaffiarlo, non mi arrendo. Scott si è arreso, come ultima cosa ha scritto: I’m away now. Thanks.
Per scrivere bisogna avere la mente libera dai pensieri, sgombra da correnti eccessivamente tempestose. Devi essere libero, imparare a lasciarti trasportare, a intonare qualche ritornello sottovoce, a strimpellare una chitarra senza molte pretese. La rabbia, a volte, monta dentro come un animale selvaggio, inferocito, e porta a qualcosa di bello, ci dà una spinta in più. Ma la rabbia, altre volte, distrugge le nostre giornate. Ho provato entrambe le cose, non spinte al limite; ma conosco le mete verso le quali la rabbia conduce: una è un luogo ameno, pieno di conchiglie che riflettono i raggi del sole, l’altro è una spiaggia più o meno deserta, con detriti sparsi qua e là. Probabilmente Hutchison ha frequentato entrambi i luoghi, quasi contemporaneamente.
Ho conosciuto i Frightened Rabbit che ero una ventenne piena ancora di quella rabbia adolescenziale che si stava attenuando per diventare qualcosa di diverso, di costruttivo. Era un sound politicamente disimpegnato, il loro, che bisticciava con i testi di protesta dei Clash, con lo scontento di Guccini, con il chiasso dei Green Day, con la deliberata anarchia dei Sex Pistols, con l’energia dei Ramones.
La band indie scozzese proponeva dei ritmi mai sperimentati prima dalle mie orecchie e tramite quelle cadenze nordiche, malinconiche, potenti, mi permise di uscire dal malcontento adolescenziale e immettermi in un mondo in cui il sistema non voleva più essere rovesciato, solo contemplato, distrattamente. Non era il segno di una capitolazione, quanto la consapevole accettazione di ciò che mi stava intorno, di quello che ero e delle persone con le quali mi confrontavo. Era, insomma, una rabbia diversa, un malcontento capace di edificare sogni e strade per raggiungerli.
Walter Berglund, protagonista del romanzo Libertà di Jonathan Franzen, più volte nel corso della narrazione ripete che non sa cosa fare, non sa come vivere. Credo che come vivere nessuno lo sappia davvero, ci si prova ogni giorno, fino ad abbozzare qualcosa di buono, come quando modelli la creta: non è detto che venga fuori sempre un manufatto che rispecchia completamente l’idea del principio. Si perde sempre qualcosa, ci sono piccole falle nelle nostre esistenze, l’importante è ripararle progressivamente, per non fare entrare troppa acqua a bordo, altrimenti precipitiamo negli abissi e restiamo lì come relitti di sottomarini di qualche guerra lontana. È probabile che Hutchison un bel giorno si sia stancato di riparare squarci e abbia contribuito all’affondamento. Ora è lì, solo nei fondali del Mare del Nord, a cantare.
Questa è qualche parola per ricordarlo, per ricordare la sua musica e una band che adesso bene non si sa se ci sarà ancora, avendo perso la sua voce, ma che c’è stata. I loro dischi non hanno scalato le classifiche né rivoluzionato la storia della musica indipendente, ma le loro canzoni, almeno per qualcuno, appaiono degne di rilevanza.
Sei lontano ora e mi piacerebbe sapere dove di preciso, se un luogo possa esistere. Mi limito a immaginarti in quell’edificio abbandonato, come canti in The Woodpile, verrò a cercarti, a parlare con te, se anche tu lo vorrai. «I want to die like a rich boy diving // In a hydrocodone dream», volevi morire come un ragazzo ricco che si tuffa in un sogno di idrocodone: il sogno sembra essere diventato realtà, noi invece resteremo ancora svegli per un po’, ad intonare le tue canzoni, a ricordare quel sognatore che ha realizzato i suoi desideri.
Sarebbe bello sentirti cantare ancora una volta che ti senti meglio – I feel better and better and worse and then better // Than ever, than ever, than ever – ora che nulla può farti più del male. Grazie per esserci stato, per averci regalato per quindici anni testi struggenti e melodie travolgenti, grazie infinite. Il tuo ricordo rimane con la tua musica, e non è poco.
In memoria di quelli che restano e di chi non c’è più. Di chi balla sotto un temporale, di chi continua a nuotare fino a quando non avvista terra, di chi lotta ogni giorno contro i propri demoni. Di chi ha paura, di chi non sa come si vive, ma che ci prova lo stesso. In ricordo, soprattutto, di Scott Hutchison.
Some songs, but not enough
- Keep Yourself Warm
- The Modern Leper
- Swim Until You Can’t See Land
- My Backwards Walk
- Good Arms vs. Bad Arms
- Woke Up Hurting
- The Woodpile
- Die Like a Rich Boy
- Get Out
- I Feel Better
- Poke