[a proposito di Maniac di Lulu Withheld – soundtrack: Out of Mind by DIIV]
A, B, C.
E passa la paura.
Nel sogno sto smanettando con un cubo di Rubik, ma non riesco a scrollare bene i cubetti. Ho paura di non terminare il rompicapo per tempo, qualcosa di molto più importante è legato a questo maledetto cubo. Allora ci sono io che cerco di farlo velocemente seguendo il modello, l’algoritmo, che mi hanno insegnato quest’estate, ma nulla… questo cubo che ho in mano, nel sogno, è una cinesata e scrolla male. Ecco che poi il sistema si inceppa. Si inceppa tutto il sogno. Allorché mi sveglio, stamattina, e me lo chiedo eh, se le ho prese nel giusto ordine le pasticchine salvatristezza da viaggione nella mente.
L’abc del salvavita.
È che io ne ho fatti diversi nella mia vita di viaggioni da ferma, quelli dentro la testa dico. E cazzo Cary Fukunaga ne fa un piccolo capolavoro del viaggio dentro di sé, questo catartico e pazzesco viaggio dell’eroe dentro se stesso per me è una summa dello storytelling.
Di cosa sto parlando? ah già.
Sto parlando di Maniac, per chi non l’avesse già vista, è questa miniserie fuori di testa che ha spopolato tre settimane fa su Netflix. Stesso regista di quell’opera d’arte seriale che è stata True Detective, stagione uno si intende; scritta con Patrick Somerville di The Leftovers; con un cast eccezionale: Emma Stone (no vabbé io la Emma Stone la amo, e con questa chioma bionda sfanculata e triste come in Birdman è ineguagliabile) e Jonah Hill che vedremo insieme a Matthew “dio” McConaughey in The Beach Bum di Harmony Korine nel 2019.
La Stone e Hill interpretano, rispettivamente, Annie e Owen, due anime perse e strippate, due persone danneggiate che si aggirano in una New York di un futuro passato, vintage e spiazzante. Retrofuturista.
Annie è una strippata incazzata con il mondo e con se stessa soprattutto, che si porta dietro come bagaglio a mano un senso di colpa grande come una casa, che passa il tempo a farsi dei gran tristissimi viaggioni per mezzo di una qualche sostanza psicotropa con una bella A in rilievo sopra.
Owen invece, sua anima affine, è uno strippato appena più grave di Annie. Lui vede cose e persone. Sente le voci. Vede un fratello che non esiste (forse), il quale gli suggerisce durante le sue brevi apparizioni che The pattern is the pattern e You will save the world (come la cheerleader di Heroes, ve la ricordate? Quella serie bruttissima di un decennio fa almeno. Save the cheerleader, save the world). Un Owen mezzo Elliot di Mr. Robot mezzo Raymond di Rain Man mezzo Gael García Bernal di La science des rêves.
Un disastro, insomma. Entrambi. Lui e lei.
Annie e Owen decidono, per motivi diversi, di partecipare a un trial medico e di sottoporsi come cavie per testare un farmaco che promette di guarire dalla tristezza dal dolore dal disagio. Pain can be destroyed. The mind can be solved.
A, affrontando e individuando il problema; B, confrontandosi con i propri i demoni; C, battendo il nemico e tornando a casa sani e salvi.
E questi due strippatissimi personaggi sono quelli che si cercano che si trovano che si perdono e vengono divisi e poi si trovano di nuovo e non è per l’Amore questa volta, il loro legame è qualcos’altro. Più alto, quasi. Everytime I separate them, they just find their way back together.
Ha più a che fare con l’Amicizia, un legame di anime dove il sesso, stavolta, non centra nulla. (L’unica scena di sesso, deliziosa e ironica e completamente fuori di zucca allo stesso tempo, è quella che vede Justin Theroux/ Dr. James K. Mantleray alle prese con del sesso virtuale, molto molto Avatar in versione goffa e divertente).
La Voice Off all’inizio del primo episodio fa un lungo preambolo sull’origine dell’universo, asserendo che per un caso fortuito dal caos un’ameba…
Two billion years ago, an amoeba. Wait, let’s let’s back up. I’ve skipped too many connections. Out of nothing, in an instant everything. An infinite cosmic orgy of matter and energy, rubbing, bumping, and grinding together. There would be no galaxies, no suns, no planets, no life without collisions of heavenly bodies. Back to our amoeba. It engulfs a bacterium with unique powers, and voilà. Earth’s first photosynthesis-enabled organism. Maybe it was chance. Maybe it was inevitable. This one changed amoeba becomes the ancestor of every living plant on Earth, which in turn floods the planet with oxygen paving the way for every other form of life we know leading to more souls, more connections, and therefore more new worlds branching outward from the first. These forces of nature, when they converge, be they astronomical collisions, biological unions, demonstrate the infinite potential of our connections. This truth also extends to the human heart.
Così succede che le lacrime di GRTA, il computer generatore di mondi, mettono in moto l’universo della storia, facendo cortocircuito. Una specie di Big Bang personale. L’universo è composto da caos, rumore di fondo e grande fortuna. Così in questa inquadratura in macro attraverso i cavi e le connessioni del computer, inquadratura che ricorda un casino il gas e lo scoppio in Fight Club, vediamo che le lacrime di GRTA vanno a intaccare qualcosa, forse i cavi o forse qualcosa a livello globulare o forse qualcosa a livello ancestrale, tra la cavia 1 e la cavia 9.
Tra Owen e Annie. Il caso. Il caos.
(Che poi… non è sempre così che succede?)
Cary Joji Fukunaga (che oltre a essere geniale è anche un figo della madonna) fa un esercizio di stile lungo dieci episodi, e lo fa con grandissimo stile. (Mi si perdoni la reiterazione). Lo fa con un tocco da maestro. Attraversando tutti i generi con nonchalance. Da un episodio a un altro da un set a un altro da un viaggio della/nella mente a un altro.
Una specie di Inception delle serie. Un Matrix, ma più sottile. Un Eternal Sunshine of the Spotless Mind con irruzioni di personaggi da cartoni animati giapponesi della nostra incrollabile infanzia anni ’80. Fukunaga gioca con la fantascienza alla maniera di Terry Gilliam di Brazil. Citando persino quel Don Quixote tanto caro al maestro: Annie/Emma Stone si chiede se riuscirà a finirlo, quel tomo. Quel Don Quixote incapace di distinguere tra sogno e realtà. I don’t know what’s real, and what’s not.
– I have not lost my mind, we are in my mind. I think. This is the C pill. It’s confrontation.
– Annia, I’m concerned this madness is…
– I am not mad. We are in a globular cluster.
– Okay? So, you’re telling me you believe that this is not the real world. That some other world, your world, is the true world, and that I’m confused who I am as is every other elf, human, orc, dwarf, – hobgoblin, wraithling – Oh, my fucking God. The entire world’s mad, but you’re not. Is that what you think?
– Yes.
– The other way around’s more likely, isn’t it, Annia? This is the place that’s real. Someone has cast a spell on you.
Maniac, episodio 8. Dialogo fra Annie e sua sorella Ellie
“For me, the exploration of self — the exploration of the multiple versions of yourself inside you — have been part of my process as a writer and as a director to figure out what it is that’s driving me creatively. I think this show is the next step in the evolution of my creative process.”
Cary Fukunaga
Fukunaga mescola tutti i generi, giocandoci come per incastri da cubo di Rubik (nove cavie come nove i tasselli per ogni faccia del cubo), ne fa una specie di viaggio mentale mediante le sue proprie esperienze visive; e così mentre guardi quei dieci episodi di Maniac ti ritrovi a dire Oh ma è come in Arizona Junior; Oh ma questo loculo dove vive Owen mi ricorda il monolocale di Ryan Gosling in Blade Runner, quello nuovo di Villeneuve. Oh ma Azumi (la dottoressa con record di fumatrice di paglie di tutto il cinema degli ultimi vent’anni) mi ricorda la Killer’s Agent di Fallen Angel di Wong Kar Wai (peraltro fighissima). Oh no anche Il Signore degli Anelli? Con Annie Elfo versione allucinata e perennemente in hangover. Poi quel genio di Fukunaga ci butta dentro un po’ di 007, preludio alla sua prossima direzione. Ci butta dentro il Dottor Stranamore ma anche Eyes Wide Shut. Cita Gondry, Lynch, Kaufmann, Kubrick, i Coen, Wes Anderson. Ci butta dentro Alice di Carrol in quel pezzo di viaggio dentro/dietro lo specchio.
E, infine, come non mettere tra i protagonisti GRTA un computer empatico fin troppo empatico effigie di Sally Field (la madre psicologa mezza Giocasta mezza Medea), ma che somiglia ad HAL 9000 di 2001 Odissea nello Spazio, nei toni di un rosa fenicottero. GRTA è il personaggio che, ovviamente sopra le righe come tutti, riesce nel quadro di insieme a essere davvero davvero credibile.
Questo, e molto altro, è Maniac.
Tutta la serie è permeata da una fotografia anni ’70, ma con spruzzate di colori acidi alla Utopia in versione più soft. Solitudini estreme in stile Black Mirror in stile Her in stile con quello che siamo oggi, tutti quanti. Ma in Maniac non viene menzionata utilizzata la nostra tecnologia, bensì la versione vintage che ne avevamo noi nel passato verso il futuro, a cavallo tra un grillo parlante e un commodore 64 e un virus su floppy in Basic.
Maniac ci racconta un futuro distopico certo, come sempre ormai siamo abituati, ma più vicino alle ambientazioni e ai personaggi di Spazio 1999 o di Alien o della Dharma di Lost. Più vicino a quello che pensavamo che sarebbe successo.
Io me lo sono goduto sopra ogni aspettativa questo viaggione Interstellar, forse perché avvezza a viaggiare con la mente, forse perché in maniera ironica e sfrontata racconta di persone fragili, come lo siamo tutti, e ci racconta in maniera visiva e plausibile come ci si conviva con questa fragilità.
Mi sono goduta la satira cinica e spietata, ma allo stesso tempo poetica, fatta a questa Società. Mi sono goduta l’eroismo, velato tra i mille livelli di lettura. Mi sono goduta persino quella rocambolesca fuga sul furgone sgangherato in modalità Cricchetto, ridendo di brutto. Sul finale. Dove i sorrisi dei protagonisti lasciano intendere un piacevole Happy End.
Ma poi succede che il dubbio si insinua nell’inquadratura finale, con quegli animali in mezzo alla strada. Il falco, il cane, il robottino delle pulizie. Allora cos’è? Siamo ancora dentro GRTA ancora nel trial medico o fuori o solo dentro la mente o solo metafora o solo immagine cinematografica?
No perché io ho accettato per buono l’Happy End Fukunaga, come già in True Detective, con quel E quindi uscimmo a riveder le stelle…
Quello che ho pensato, infine dopo essermi sparata i dieci episodi (con abbastanza entusiasmo, dopo l’episodio dei Lemuri è tutto in caduta libera ve l’assicuro), è che Maniac omaggia il cinema con sarcasmo e intelligenza, un piccolo capolavoro seriale. Una specie di enciclopedia d’arte rilegata a mano in mezzo ai romanzi tascabili della nostra libreria.
*postilla: c’è un personaggio che è troppo uguale al Dott. Jacobi (Russ Tamblyn) di Twin Peaks. Fateci caso.