Black Mirror: Bandersnatch. Quando giocare a fare Dio è un “trip” che non appaga

[una disguida non convenzionale sull’esperimento interattivo Netflix: dal teorema dell’insoddisfazione al fatalismo 3.0]

di Disguido Luciani

 

– Facciamo che io sono Dio e tu fai tutto quello che dico io?
– Ma tutto tutto?

– Sì, proprio tutto.

Black Mirror: Bandersnatch, l’ultimo esperimento della serie TV britannica targata Netflix, segue lo schema del gioco più vecchio del mondo: uno fa Dio (di solito chi, già da piccolo, palesava accenni di delirio d’onnipotenza o mania del controllo), l’altro la “sua creatura”. Uno il padrone, l’altro il servo; uno il burattinaio, il “puparo”, l’altro il burattino. Il pupo. O, più romanticamente, uno il narratore, l’altro il personaggio.

Semplice, no? Già allora, però, se ben ricordate, il gioco non finiva sempre poi così bene. Anzi, diciamo pure che non finiva mai bene. 

Il pupo, ad un certo punto (di solito alla prima richiesta “eccessiva”), stanco, si lamentava smettendo di eseguire i comandi. Peggio, si ribellava. E magari iniziava a protestare pretendendo di fare lui Dio.

Certe volte, poi, era Dio che si stancava. Ché fare Dio è una bella responsabilità, ‘na bella rottura. Bisogna essere portati, dicono. Non sai mai cosa può fare il pupo e cosa no. Ché il gioco è bello quando dura poco. Dicono anche questo. 

E, messo da parte quel gradevole, ludico, insito sadismo, finiva sempre che t’impietosivi. E così il gioco finiva. Soddisfazione ricevuta: poca; appagamento ottenuto: quasi zero. Punto e a capo: 

– E mo’ a cosa giochiamo?
– Prendiamo le macchinine?

– Sì, dai…

Ecco, Black Mirror: Bandersnatch segue lo stesso schema virtuoso, incappa nello stesso circolo vizioso e giunge allo stesso beffardo capolinea. Come, naturalmente, ben si confà ad una serie TV che ha abituato i suoi spettatori al fatto che raramente le cose sono in profondità ciò che appaiono. Ricorrendo, naturalmente, ad una buona dose di reale, realissima, indotta inquietudine.

 

Il titolo, Bandersnatch appunto, nasconde una doppia citazione: quella dell’omonima creatura immaginata da Lewis Carroll in Attraverso lo Specchio e quella del videogame dallo stesso titolo, progetto incredibilmente ambizioso che – nella realtà – nel 1984 portò al fallimento la Imagine Software.

Piccole ma decisive varianti al gioco più vecchio del mondo non solo rendono l’esperimento azzeccatissimo, ma anche rivoluzionario. Checché ne dicano i delusi che hanno guardato a Bandersnatch con sufficienza liquidandolo semplicisticamente ad “una delusione”.
(Rolling Stone su tutti: https://www.rollingstone.it/recensioni/come-black-mirror-bandersnatch-una-delusione/).

Le regole di Bandersnatch sono apparentemente chiare: lo spettatore è chiamato ad intervenire scegliendo entro 10 secondi una delle alternative proposte. Se non fa in tempo, poco male, c’è una risposta predefinita. La scelta, naturalmente, cambia il corso degli eventi.

Siamo avvisati: abbiamo il potere e “possiamo” esercitarlo (più che altro dobbiamo, ché il potere sennò si esercita da solo). Da esso derivano conseguenze (chiamiamole pure responsabilità virtuali) che non conosciamo né ci vengono anticipate. 

Ecco che siamo di nuovo bambini, quelli con gli accenni di delirio d’onnipotenza e di manie del controllo.

– Facciamo che io sono Dio e tu fai tutto quello che dico io?
– Ma tutto tutto?
– Sì, proprio tutto.

Siamo i padroni/pupari/narratori. E abbiamo guadagnato una cosa che raramente è destinata allo spettatore TV: il “libero” arbitrio, un click che vale più dello skip in avanti, del tasto chiudi, del binge watching, dello zapping e, per i più vintage di noi, del cambio canale. E, per la gioia della nostra parte sadica, da buoni pupari, abbiamo il nostro pupo da manovrare. 

Ma è qui che casca l’asino. E casca anche la parte sadica. E pure Dio, o chi per lui, casca.

Ci accorgiamo presto di avere le mani legate, confinati tra due alternative (alcune volte anche solo una, che ti viene di urlare alla presa in giro), a scegliere tra due tipi di cereali e poi tra due cassette da mettere nel walkman. 

Forse forse, avranno capito i più svegli, non siamo proprio tutto sto gran Dio. In fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. 

E, diciamocelo, manco col pupo c’è andata poi così bene: il ragazzetto è un nerd visionario, un adolescente non troppo convenzionale, a tratti stramboide: i soliti drammoni alle spalle, colpe che non riesce a perdonarsi, piccole manie, qualche tic e chi più ne ha più ne metta. 

Un po’ troppa roba, forse, per un post-adolescente, ma, in fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. 

Insomma, lo stramboide qualcosa che non va ce l’ha e, oltre al danno la beffa, non sempre esegue gli ordini. Quando ritiene che le tue scelte siano “eccessive”, lesive, il servo si ribella al padrone, il pupo taglia i fili che lo manovrano, il personaggio prende percorsi narrativi inattesi: non sempre è dato a Dio di scegliersi la creatura perfetta. E sai che noia, poi. In fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. 

Drammone dei drammoni: il ragazzetto c’ha sta cosa che gli serpeggia dentro, il fils rouge della trama di Bandersnatch, che molti hanno definito poco avvincente. Sì, c’ha sta cosa, tipo una specie di volontà autolesionista, tipo rabbia repressa, tipo pulsione di morte. Un’incessante quanto fatalistica attrazione verso il fallimento, ecco. 

I più svegli, già dopo i primi minuti di Black Mirror: Bandersnatch, lo hanno capito: se questo è un gioco non si vince. Se noi siamo Dio, oltre a non essere onniscienti (ma questo era prevedibile), forse forse non siamo poi neanche così onnipotenti. E certe cose, seppur inserite in un sistema virtuoso, incappano in un circolo vizioso. Vanno dritte verso un beffardo capolinea. Sì, come una fatalistica attrazione verso il fallimento. Ecco.

Da qui in poi è tutto un dipanarsi d’alternative: i percorsi sono tantissimi, i finali principali 5 (secondo la produzione 12). E naturalmente di scelte (in cui il più delle volte si cede al male minore): ti fanno andare avanti, poi indietro alla scelta precedente, poi ancora avanti. Insomma, una genialata estenuante, volutamente inappagate, disastrosamente fatalistica. Ma, in fondo, lo sappiamo, siamo dentro Black Mirror.

Finché non si arriva al momento in cui tra le possibilità compare anche l’alternativa Netflix in un discorso meta-narrativo (naturalmente non è l’unico: ci sono riferimenti ad altri episodi di Black Mirror) che, di fatto, ti riporta alla realtà squarciando l’illusorio velo che ti aveva incoronato Dio.

Netflix, piattaforma erogatrice dell’episodio che credevi, fino all’attimo prima, di narrare, ma anche entità a te sovra-ordinata che, ad inizio episodio, ti aveva dato il potere (o meglio la sua ebbrezza), il “libero” arbitrio (e le sue conseguenze), è tornata. Solo per ricordarti che ancora una volta hai fatto il suo gioco. E mo’? Sì, sei proprio incastrato in un lungo esperimento in cui sei un Dio già provato da un viaggio di bivi, percorsi a ritroso, ripensamenti e scelte obbligate. Sì, come in una fatalistica attrazione verso il fallimento. 

Tant’è che anche Dio, consapevole ormai dello sgretolarsi del suo potere, si stanca, come ci si stancava da bambini. E si tornava alle macchinine. Ché fare Dio è una bella responsabilità, ‘na bella rottura. Ché il gioco è bello quando dura poco.  

Così l’esperimento, nel frattempo carico di quell’angoscia dispotica tipica di Black Mirror, finisce. Sei stato Dio, poi più nulla. Ma hai partecipato ad un’estenuante genialata in cui sei risultato, manco a dirlo, sconfitto.

E finisce anche il “gioco”. Soddisfazione ricevuta: poca; appagamento ottenuto: quasi zero. Ma, in fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. Punto e a capo:

– E mo’ a cosa giochiamo?
– Prendiamo le macchinine?
– Sì, dai…