L’amore è quella cosa di cui tutti parlano senza mai capirne nulla. Un insieme di parole che prende forma da una relatività assoluta. Qualcuno lo desidera romantico, qualcun altro lo pretende truce come la lama di un coltello invaso dalla ruggine. Come in qualsiasi altra materia, anche nell’amore esistono riluttanti poli estremi. La sdolcinatezza è quella che va per la maggiore, e a farne le spese sono tutti quei folli osservatori che non possono far altro che star lì a tenere d’occhio le sorti della stronzata del momento, come se fosse una cerimonia kamikaze.
Lo scorso 19 febbraio, Netflix ha diffuso la prima stagione di Love, l’ennesima fatica orchestrata da Judd Apatow ma che vede l’implicazione di altri due sceneggiatori, ovvero Paul Rust e Lesley Arfin. Lui è lo stesso Apatow di film che vanno da 40 Anni Vergine (2005) a Un Disastro di Ragazza (2015), e serie tv come Freaks & Geeks e Girls. Un produttore invischiato in un cinema che ha segnato le adolescenze e le post adolescenze di una numerosa schiera di giovani brufolosi figli dei celeberrimi American Pie. Leggendo la sua filmografia, la salsa sembrerebbe sempre la stessa. L’umorismo titanico che spezza con un grossa risata il reale stato attuale delle cose, fino a renderle poi fenomeni irripetibili — film come Zohan (2008) e Strafumati (2008) sono il cavallo di battaglia per qualsiasi repertorio di cinema per coinquilini universitari annoiati, eppure in essi troviamo sempre qualcosa a cui poter legare le nostre scialuppe di salvataggio.
Gus e Mickey sono i due protagonisti di Love. Si conoscono per caso in un supermarket dopo che entrambi fuggono da un delirio causato dalle rispettive relazioni. Lui viene lasciato dalla sua ragazza per via dell’irrimediabile monotonia che lo contraddistingue, lei invece manda per l’ennesima volta a quel paese il suo ragazzo mammone. Sono due personalità contrastanti: Gus è il tipico nerd che la sera si riunisce con i suoi amici per inventare strambe colonne sonore per tutti quei film che non ne hanno una, mentre Mickey è una ragazza che ha fondato la sua vita su quel senso di precarietà che nelle generazioni passate incuteva un strano senso quasi prossimo ad una morte avvenuta per claustrofobia. Le vite di questi due personaggi si intrecciano nel modo più disordinato possibile, lo stesso che, secondo il marasma giornalistico che affolla le grandi testate — quelle che si concedono occasionalmente il lusso di elaborare grossi saggi sociologici dell’ultima ora –, alimenta le caratteristiche di tutti i millenials — mica spiccioli. C’è il nerd, la ragazza tosta che cambia spesso partner, e tutt’intorno quello sfrontato retroscena che siamo costretti a subire da anni di produzioni seriali — e che tanto ci fanno impazzire, ammettiamolo.
Gus lavora nel mondo del cinema come tutor per gli attori minorenni. Mickey ha un posto in radio, all’interno del programma di uno stranissimo speaker che dispensa consigli sull’amore come se fossero gadgets usciti dalle scatole dei cereali. Sono trentenni ancora alla ricerca dell’impiego ideale — Gus sogna di diventare uno sceneggiatore, mica poco –, ma allo stesso tempo si diffonde l’idea di un lavoro versatile, comodo, che cambia sempre forma e scopo — sempre Gus si ritroverà, come tutor, a vedere uno dei suoi episodi scritti e tenuti nel cassetto dei desideri ad un passo dalla realizzazione, con tanto di partecipazione alle riunioni degli sceneggiatori.
In tutto questo, cosa c’entra l’amore? Perché intitolare una serie tv con un nome così pretenzioso? Quello che sembra è un disegno generazionale di tutti coloro che sono nati tra gli ottanta e i novanta e che ancora pensano a come divertirsi in un mondo che i nostri padri definirebbero un’enorme e tonda cazzata.
I problemi con l’alcol di Mickey e la goffaggine di Gus non sono particolari da gettare nel cesso. La ricerca di una coinquilina e un appartamento in un plesso residenziale di Los Angeles hanno alti livelli di rappresentazione di ciò di cui siamo fatti. L’amore viene capovolto dalla regia perché deve trovare una via di fuga in questo clima all’apparenza instabile, ma che ha tutte le carte in regola per sopravvivere agli eventi. Sì, l’umorismo di Apatow e dei suoi colleghi punge il sedere dei protagonisti, ma è come se lo facesse a noi spettatori ingordi di continue e nuove narrazioni che ci tengano la mente occupata. Il sesso, la droga e le chat sono innocui mezzi attraverso cui si materializza lo sciocco inseguimento di due persone piene di controsensi, proprio come lo siamo tutti, in fondo. Questa volta, i ruoli invertiti dei protagonisti, ovvero la ragazza stronza ma insicura, e il ragazzo perdente, appaiono coinvolti in un’apertura che sfonda i classici schemi appartenenti alla sfera relazionale. In Love percepiamo lo stesso ed identico sapore che si propaga dalla visione di Girls. Questa volta il raggio è più circoscritto, o almeno così pare nella prima stagione.
Se il lavoro ha visto le sue radici trasformarsi da forti che erano in liquide ramificazioni che si espandono per tutto il terreno, anche le relazioni hanno subito la loro buona dose di mutazione genetica. Quel che resta sul fondo del bicchiere è lo stesso ingrediente che da secoli si aggiunge al composto chimico fatto di flussi di sangue che aumentano di pari passo con i battiti cardiaci. L’instabilità, o quella voglia di correre anche quando è obbligatorio restare calmi e procedere a passo lento, mescola le vite di Mickey e Gus in un giro di trovate incredibili, creando la base di un rapporto bizzarro com’è giusto che sia. Dieci episodi sono nulla in confronto a quello che vorresti che fosse. La brevità della prima stagione riesce comunque a tenere alta la testa davanti ai colpi di una narrazione che si alterna tra risate e fili continui di riflessione, punti questi che consentono a Love di godere di una certa vena esportabile in giro per il mondo.
In tutto questo ci capita di vedere la nostra immagine riflessa su uno schermo, e con lei ciò di cui siamo fatti. La materialità di questa follia, un tempo intangibile per molti versi, conduce la nostra attenzione lungo le vite di queste persone che tanto ci assomigliano. Raymond Carver, in Principianti, o per i più pigri e fedeli fan di Gordon Lish Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, fa ben capire nel dialogo tra le due coppie di amici cosa si intende con la parola amore. Lo scrittore riesce alla perfezione nel far trasudare tutto quello che nella parola begginners — titolo originale del racconto nella sua versione integrale — si conserva. Nessuno conosce la ricetta giusta per ottenere la definizione esatta. Certo, ognuno possiede la sua, ed è per questo che l’inesperienza — e un concetto come quello della relatività — trova lo spazio attraverso cui auto affermarsi nell’amore.
È questo che sono Gus e Mickey: persone che non conoscono affatto il luogo in cui stanno andando e che, immersi nella loro follia, preferiscono non saperlo, gustandosi tutto il fascino insito nel hic et nunc della loro vita. Ecco svelato l’utilizzo dei dieci episodi di questa prima stagione, e di come non serva altro per sottolineare l’importanza dell’unicità del momento, del presente che non smette di assalire le nostre patetiche vite.