Notturnalia

di Laura Oopart

La sera è il momento più duro. Le luci si piegano in un solenne inchino ogni santo giorno, e le ombre al crepuscolo tendono le braccia per cullarle. È il rito della morte che, al calar del sole, rinnova i suoi voti da affidare al mattino. I suoni si ovattano, e al contempo si amplificano, rarefatti, tra le strade deserte e gli angoli delle vie. Qualche voce. Lo sbattere del portone. L’ascensore che scende per poi risalire. Il ticchettio del mio orologio. Il mio respiro. I miei sospiri. I battiti del mio cuore. Le mani che sudano. Sono sola. Ma dentro, la testa è affollata. Ci sono io bambina che gioco a fare altari e portare madonne in processione; ci sono i grandi eucalipti dietro la nostra campagna; una sorgente stanca dall’acqua terrosa; due piccole colline appena verdi.
E poi c’è quel mare che non vedo più da anni, e il dirupo lungo che a guardarlo non se ne vede la fine. E quel dirupo ce l’ho nel petto, profondo e duro, di roccia solida e arcaica e a toccarlo a palmi aperti, sembra impenetrabile. L’aria contiene nel suo involucro un peso specifico opprimente e importante e mi sembra di soffocare, e nella sua pienezza, non bastare. Così accarezzo il viso e rassicuro i pensieri, cerco di allinearli, in file distinte, divisi per argomenti e colori ma niente, indisciplinati corrono e si sparpagliano, muti. 

Che disagio la vita, i suoi macigni e la mia inerme paura! È tutto orrendo, disgustoso, soffocante: questa solitudine, questo silenzioso frastuono, la mia pochezza del non riuscire a controllare la pancia che si agita, la nausea che sale, la deflagrazione imminente. Sto per morire. Ancora no. Che senso ha tutto questo? Calmati. È tutto finto. Vero, ma irreale. Reale ma innocuo. Non è innocuo ma non si muore. Non succede nulla, vivi il presente. Ascolta il ticchettio, è sempre lì, non cambia.

Guardo il cellulare sopra il comodino, inizio a tremare. Striature, brividi scostanti, attacchi epilettici della mia anima che si ribella, che vuole parlare, parlarmi, che non trova ascolto.
Adesso no, non voglio nessuno. Mi mancano tutti. Ed io? Mi manco anch’io. Sprofondo tra le onde del piumino, la sua morbidezza avvolge i pezzi di me che raccolgo stretti rannicchiata a riccio. Mi abbraccio. Ecco, adesso finisce. E affogo. Mi lascio cadere nell’abisso, inquietudine segreta; nel mio disagio antico, paura di vivere, inadeguatezza umana, eccessivo sentire. Mi giro a faccia in sù e fisso il soffitto per poi chiudere gli occhi e vedere il tuo viso.

Mi tocco la pancia, mio fragile vaso dei sensi e mi siedo in riva, a respirare. C’è un punto preciso, un piccolo incavo nel Monte di Venere, che apre orizzonti, e io di orizzonti ho bisogno. Di sentirmi libera, leggera, infinita e impalpabile. La salita è una dolce fatica, è respiri smorzati, affanno accennato, è cerchi concentrici, movimento leggero. Ma poi arriva il vento, e travolge e rapisce la carne, e si mangia la pancia. Arrivi tu a portarmi via, mi prendi con forza: è una danza costante, un ritmo sostenuto, una corsa vissuta. E arrivo alla cima, finalmente, ed esplode il piacere. Ma mi tira la pancia e tu non ci sei.
È un pianto copioso, il ritorno al mio mare.