Usiamo le parole per raccontare qualcosa. Un incontro, un incidente, un istante. Le meningi si spremono ed ecco saltar fuori una storia forbita di nomi, verbi e tutto il resto degli ingredienti. Tutto segue il ritmo dettato dalla punteggiatura — sottintesa quando la narrazione è orale, incisa sulla pagina quando è scritta. Poco importa se l’oggetto del racconto sia vero o falso. Se l’attenzione è colta nel migliore dei modi allora possiamo anche spararla grossa senza destare alcun sospetto in chi ci ascolta.
Raccontare qualcosa attraverso la fotografia è rischioso quanto lo è farlo attraverso le parole. La relativa difficoltà vive in entrambe le forme. Mostrare la superiorità di una rispetto all’altra non avrebbe alcun valore assoluto — senza contare che si potrebbe rimanere bloccati come in un vortice che non consente alcuna via d’uscita. L’atto narrativo tiene i fili che uniscono entrambi i mezzi, fino a rendere innocue le diversità tra le rispettive forme. Se la narrazione risulta ben riuscita, allora non ha affatto importanza se essa sia giunta tramite pellicola o tramite pagina. L’obiettivo ultimo è stato raggiunto, con buona pace degli scettici.
Quell’obiettivo sopracitato è lo stesso che raggiunge Giulia Bersani con la sua fotografia. Tra i numerosi progetti da lei avviati, il suo 21–22riesce a raccontare una parte fondamentale della sua vita. Una serie di autoritratti realizzati in un intervallo di due anni che lascia trasmettere il continuo flusso di un respiro mai in affanno. È un procedere lento che ti permette di cogliere l’importanza dell’istante ritratto.
Il suo quotidiano si materializza nei toni caldi e freddi, a seconda della luce che scalfisce l’intero contesto. La solitudine fa da contraltare alla famiglia, alla coppia, ma segna il momento della scoperta di se stessi come solo la propria immagine riflessa in uno specchio può farlo. Le mura domestiche raffigurate da stanze e verande milanesi avvolgono l’intimità che si sprigiona. Quelli di Giulia Bersani sono autoritratti intensi e carichi di espressioni sempre diverse. Il suo volto, la sua camera e la sua tavola parlano più di quanto sembri. Parte della sua vita tra i 21 e i 22 anni è in queste fotografie, e con esse la sua forza narrativa. Un portfolio saturo di intimità. Anche quando tutto sembra perdersi nella velocità con cui scorrono i momenti nel traffico della città — in questo caso Milano — le sue fotografie rallentano quel ritmo frenetico che la contraddistingue.
21–22 è quella che potremmo definire una raccolta ricca di dettagli che non cessano di raccontare. La luce impressa sulla pellicola diviene narrazione, una narrazione che a sua volta non fa sconti. Le parole non dette sono tutte all’interno di quelle pagine. La fotografia di Giulia Bersani riesce a trasportarti in spazi all’apparenza banali, ma zeppi di significato. Pur riconoscendo la potenza comunicativa delle sue foto, esse diventano un unicum con le parole, dando vita ad una commistione di forme che lasciano trasgredire l’immaginazione dell’osservatore, consentendogli di non fermarsi davanti alla semplicità di quello che si presenta, ma di andare oltre, fino ad indagare qualcosa che risiede altrove.
Potremmo elencare diversi esempi di fusione, ma quello che avviene nel caso di Giulia Bersani sono fotografie che diventano parole. Le pagine di 21–22 sono scalpitanti di stati d’animo che accomunano tutti. Con la giusta dedizione si riesce ad intravedere sé stessi negli autoritratti che si susseguono. Ci ritroviamo davanti ad una fotografia parlante; ai nostri occhi non resta che diventare orecchi. Allora la narrazione avviene inaspettatamente. Ci sottrae dal contesto che viviamo giorno dopo giorno e ci catapulta con ferocia negli scatti, divenendo per qualche tempo parte integrante di un’arte quasi estranea, ma che ci mostra una grossa fetta di quello che siamo.
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