Questi sono i giorni di Leonardo DiCaprio. Dopo l’ennesima nomination è riuscito ad aggiudicarsi l’Oscar come miglior attore protagonista. Tutti i suoi fans sono in subbuglio, i meme disperati sono stati sostituiti da gif che ritraggono l’attore in momenti decisivi della sua intera produzione. Il cinema è passato automaticamente in secondo piano: la vittoria di DiCaprio era qualcosa che non si poteva più rimandare. Andava celebrata. Avrebbe potuto anche far parte di uno di quei film malriusciti — tutti gli attori e i registi ne hanno almeno uno nella loro lista — ma l’Oscar andava dato a lui, con buona pace del suo discorso sull’ambiente da molti ignorato — per non parlare del film The Revenant.
Negli stessi giorni in cui impazziva la febbre del premio Oscar ho letto Meno di zero di Bret Easton Ellis tradotto da Marisa Caramella — in questa edizione Einaudi, lo dico a malincuore, manca l’introduzione di Fernanda Pivano –. So benissimo che può sembrare — quello tra DiCaprio e Meno di zero — un parallelo alquanto azzardato, ma in entrambi i casi avverto la presenza di un cinema che non vuole affatto smettere di parlare. Un cinema che mostra da una parte il suo lato impegnato, dall’altra invece un cinema che diviene contesto in cui inserire un personaggio che disegna le falle di un’intera generazione. Denuncia e celebrazione si tengono per mano, c’è poco da aggiungere.
Il protagonista del romanzo di Ellis è Clay, un ragazzo di diciotto anni che torna a Los Angels per trascorrere le vacanze di natale. La sua università è nel New Hempshire, lontano dalla coltre esagitata che si alza puntualmente nella sua città. Sono i giorni in cui rivede tutte le persone che, in un modo o nell’altro, ricoprono un ruolo nella sua vita. Da Blair ai suoi genitori, sino a Julian e i suoi fornitori di fiducia. Siamo a metà degli anni ’80, Ellis ha poco più di ventanni e le strade di L. A. sono avvolte da un’euforia condivisa un po’ ovunque — e da tutti.
Tutti i personaggi che compaiono in Meno di zero hanno a che fare con il cinema: impresari, investitori, attori e modelli aspiranti attori. In ogni villa che si rispetti c’è una esaltatissima festa. Tutti gli invitati hanno tra i sedici e i diciannove anni. La monotonia di una vita condotta sul filo luccicante della propria collana di enorme valore è lo stesso che tiene insieme la noia e la follia di Clay e dei suoi compagni. Piste di cocaina e psicofarmaci corrono di fianco alle Ferrari parcheggiate lungo i viali di Palm Springs. In questo romanzo Ellis mette fuori tutto quello che si nasconde dietro le quinte degli Studios, dando vita ad una narrazione che cattura sin da quando Clay atterra in aeroporto con il suo volo proveniente dal New Hempshire. Quelli ritratti sembrano essere giovani annoiati, delusi e affamati consapevoli di quel famoso senso di precarietà che siamo abituati a vedere nelle stelle del cinema. A loro insaputa sono divenuti attori di un film che ormai si ripete all’infinito.
Il personaggio di Clay mi ha riportato alla mente Marja, la protagonista di Prendila così di Joan Didion — e alcuni personaggi dei racconti di McInerney contenuti in Com’è finita –. Entrambi, nei loro gesti, riportano in auge una realtà che vivono in prima persona senza mai distrarsi, intensificando le luci su qualcosa che fuori appare come un’immensa distesa di rose e fiori, ma all’interno è scura come il carbone.
Con Meno di zero Ellis ha narrato le quattro settimane di vacanza di un qualsiasi giovane californiano. Nelle sue parole si legge la stessa apatia che contraddistingue i personaggi venuti su con una certa disinvoltura. La musica batte il ritmo delle serate e dei giri in macchina che l’autore compie attraverso i suoi personaggi. Segnando i titoli citati — cosa che, prevedibilmente, ho fatto — viene fuori una lunga playlist che ci riporta dritti a quei giorni caldi e assolati come solo il natale di Los Angeles può essere. Il sudore si diffonde nell’aria e nelle jacuzzi che bollono di fianco alle piscine azzurre colme di adolescenti strafatti.
L’ingegno di Bret Easton Ellis è proprio qui, a due passi da noi: usare la letteratura come mezzo chiarificatore che trascina con sé le storie di ragazzi dimenticati, messi in secondo piano per via del loro trambusto. Trentuno anni dopo l’uscita di Meno di zero Leonardo DiCaprio ha vinto finalmente il suo primo Premio Oscar. Il discorso sull’ambiente, come il romanzo di Ellis, ha portato per una volta tutti gli sguardi distratti verso qualcosa ignorata. Nella confusione provocata dai lustrini di Hollywood, il cinema — a sua volta impersonato da DiCaprio — parla di qualcosa che resta dietro le quinte da lui stesso edificate, cedendogli senza alcuna fatica il suo posto. Un po’ come è riuscito a fare il nostro autore con la storia di Clay. Nell’indifferenza di un ragazzo qualunque è emersa un grossa propulsione vitale. Lì, dove non eravamo mai arrivati, qualcosa si muove, ed è vivo come solo alla forza di un’adolescente riesce.