L’incubo ricorrente degli abitanti di Brooklyn è quello di uscire di casa e percorrere nuove strade del borough, non riconoscendo più quelle abituali. È in atto un cambiamento tutt’altro che lento, e trascina con se tutti i caratteri che rendono riconoscibile — e incalcolabile — quello che è il proprio vissuto. Sembra essere sotto l’effetto di una droga che estranea e rende il passato diverso da quello che accomuna tanti di loro, favorendo l’ascesa di una mutazione sempre pronta a dislocarli altrove. Per alcuni è un incubo da cui non è affatto facile svegliarsi, per altri rappresenta l’eldorado. Chi coglie il lato positivo di un trauma qualsiasi e chi invece decide inconsciamente di sottostare ai dettami del panico di massa, optando per quello negativo.
Negli ultimi anni non si fa altro che parlare del fenomeno della gentrificazione che sta investendo numerose città di tutto il mondo. Le zone che una volta erano centro della criminalità, posti malfamati, e somme di edifici industriali, vengono rivalorizzate attraverso una serie di processi che mirano alla rinascita di quello che ormai era dato per spacciato. Le periferie si ripopolano, i bar e le diverse attività commerciali aprono in posti impensabili. Il cambiamento scaccia tutto il marcio che ha resistito nel corso degli anni e dà vita a nuovi abiti con cui vestire il sopravvissuto. Ma come qualsiasi fenomeno che si rispetti, anche la gentrificazione ha i suoi pro e i suoi contro.
L’aspetto negativo di questo fenomeno è da ricondurre al fattore saldato alle tradizioni di un posto, di un quartiere, e di come esse svaniscano nel nulla. Perdere i dettagli che compongono la storia di una generazione è pari al smarrire la propria famiglia, e con essa le proprie origini. Nel borough di Brooklyn sono state diverse le proteste. Una delle voci che più è emersa tra coloro che si esprimevano a sfavore della gentrificazione è stata quella di Spike Lee. Il regista americano non ha perso tempo a definire questo fenomeno come una nuova sindrome di Colombo che colpisce tutti i bianchi della middle class. Spike Lee compara l’invasione dei nuovi colonizzatori a tutto quello che avvenne durante — e dopo — la scoperta dell’America. Questo rappresenta una minaccia per le tradizioni di uno dei cinque centri più famosi di New York.
Se da un lato ci si sente minacciati dall’esplosione di questo fenomeno, dall’altro c’è chi vede di buon occhio la trasformazione in atto. Sono gli economisti, gli impresari immobiliari, e gli uomini d’affari che seguono attentamente il flusso di gente che attua, giorno dopo giorno, un processo riconducibile a quello della gentrificazione in centri abitati che nessuno riteneva soggetti ad un certo successo — in campo economico.
Tutto ha inizio proprio a Brooklyn, quando numerosi artisti vi si trasferirono per via degli affitti molto bassi. Nonostante i servizi erano molto ridotti, gli avventori non erano affatto timorosi di incappare in una sorta di trappola. Con il loro arrivo spuntarono anche nuovi luoghi di ritrovo, attirando gente sempre più curiosa di quello che stava accadendo in quei luoghi spesso dimenticati. Il prezzo degli appartamenti prende il volo. Gli artisti che bazzicano il borough creano un vasto movimento culturale, e sono in molti a decidere di trasferirsi negli appartamenti da poco ristrutturati. Con il loro trasferimento arrivano anche ingenti somme di capitale pronte ad essere investite nel mattone. Il denaro circola per la gioia dei ricchi investitori. Tutto non fa una piega.
A proposito della Brooklyn che era, Truman Capote scrisse A House on the Heights (1959), racconto pubblicato nelle pagine del Holiday Magazine. In queste pagine ci descrive, con l’abilità che tutti conosciamo, quella Brooklyn Heights successiva al suo trasferimento. Leggendo il racconto si apprende subito la caratteristica fondante di un pezzo della New York di quegli anni. Il porto, i marinai provenienti da tutto il mondo, le strade e i vicoli contigui ai magazzini. Le sue parole non smettono di evidenziare i tratti ormai mutati di quelle che erano le «vecchie rimesse di mattoni rosati». Nella prima parte del racconto ci si ritrova a fare i conti con quello che lui definisce una scoperta avanzata da diversi artisti e scrittori: il loro trasferimento in appartamenti malmessi per via degli affitti vantaggiosi di quegli anni. Cita l’esempio di Thomas Wolfe, trasferitosi lì subito dopo il successo di Look Homeward, Angel (1929).
Come possiamo dedurre, sembra che il fenomeno della gentrificazione sia nato solamente qualche anno fa. Il merito — o la colpa, se vogliamo — di questo grosso allarmismo è tutto da accollare al tipico giovane hipster. La sua passione per il vintage, lo scatto fisso, e per tutto quello che ormai molti fanno appartenere ad un’esclusiva questione legata al risvolto al pantalone, ha riportato a galla quello che era un fenomeno che fino a poco tempo prima interessava pochi soggetti, un fenomeno che conoscevano solo sociologi e architetti. Era una faccenda che riguardava qualcosa di intangibile. Oggi invece sono tutti coinvolti in quello che viene visto come il male profondo finalmente materializzato, e per questo combattuto. Hanno contaminato diverse zone del mondo. A New York, il massimo splendore della gentrificazione si è avuto con il quartiere di Williamsburg, il cui simbolo è rappresentato dal The Edge, l’enorme palazzo abitato da giovani ricchi e di successo. La questione della gentrificazione affascina chiunque, inutile negarlo. Si passa il tempo a chiedersi quale sarà il prossimo monumento della storia recente ad essere cancellato per far spazio ad una caffetteria di Starbukcs nuova di zecca. Cos’altro verrà rimosso da quella scena che Ol’ Dirty Bastard raccontava nel suo pezzo Brooklyn Zoo (1995)?
Ripercorrendo i passi del nostro Truman Capote, in Una casa a Brooklyn Heights (Archito, traduzione di Paola Francioni) emergono diversi personaggi bizzarri ed eleganti, come la signora dei gatti e Mr. George Knapp. È un racconto che diviene testimone di una realtà che da sempre ha abitato le strade del borough che tutti sembrano non riconoscere più. La stessa casa che abitava Capote in Willow Street era fatta di mattoni gialli, al contrario delle altre che mostravano le famosissime facciate di brownstones. Questo dimostra che la gentrificazione non è un evento recente. In tutto questo è percettibile quanto l’ingrediente fondamentale di una zona come quella di Brooklyn — e tante altre nel mondo — sia proprio la predisposizione al continuo mutare. Gli occhi di Capote colgono un centro cittadino che cambia proprio per gli stessi fattori per cui ci trasferiva a Brooklyn fino a dieci anni fa. D’altronde quella di New York è la città in cui si intensifica un elevato numero di influenze culturali.