Parlare de Il giovane Holden non è affatto semplice. È molto simile al compiere una passeggiata per i sentieri di un campo minato. Al primo ed unico passo falso si salta in aria senza nemmeno avere il tempo di capire cosa sta succedendo. In casi come questi, una parola fuori posto e sei bello che andato. Devi dare un peso a tutto, altrimenti corri il rischio di prenderti i migliori apprezzamenti che non augureresti nemmeno al tuo peggior nemico. Il motivo di questo alto prestigio è racchiuso nel grado di popolarità che esso riveste nel panorama letterario mondiale. È il romanzo di formazione americano più famoso al mondo. Tutti lo hanno letto e tutti lo leggeranno negli anni a venire. Del suo autore meglio non parlare. Anche con la sua biografia vale lo stesso discorso fatto per il romanzo. Guai a dire qualcosa di insensato, ad esempio, sul suo allontanamento volontario dai riflettori mediatici.
Personalmente, fino a qualche giorno fa, ho cercato in tutti i modi di rimandare la lettura del romanzo. Ho sempre preso le distanze da tutto quello che va-letto-perché-va-letto, e la storia di Holden l’ho sempre vista come una delle toppe obbligatorie da cucire sulla propria vita di lettore. Adoro giungere in un luogo con le mie gambe, quindi non ho fatto altro che attendere l’arrivo del momento giusto. Si sa come la letteratura si diffonda per intrecci, nodi da sciogliere, storie che si incontrano e si legano tra loro. Poi mi arriva il consiglio di Chiara Ruggiero di Librofilia, e allora decido di cogliere la palla al balzo.
Pagina dopo pagina rimango colpito dal notevole spessore del protagonista. Holden lo sento subito molto vicino, come se lo conoscessi da una vita. La scrittura di Salinger riesce traghettarti sino alla meta senza mai vestire i panni dell’addetto al soccorso stradale. Tutto fila liscio come l’olio. Diviene un conducente perfetto, pronto a trascinarti nelle situazioni che lo stesso protagonista affronta in prima persona. L’Istituto Pencey, la scazzottata con Stradlater, e la fuga dopo il cinema, si materializzano di getto. Via, si parte.
È la storia di Holden Caulfield, un ragazzo ormai stanco di sostenere il peso degli obblighi da rispettare. L’odio per la scuola, i docenti e gran parte dei suoi compagni, è talmente vivo da creare un vortice che conduce dritto alla ribellione. Holden prende tutti i suoi risparmi e scappa da Pencey qualche giorno prima di Natale, per raggiungere in incognito la città di New York. Prende una camera da albergo e resta in attesa che arrivi il mercoledì, giorno in cui avrebbe dovuto far ritorno dalla sua famiglia per trascorrere le vacanze. In quei giorni succedono cose che, sommate tra loro, daranno forma alla sua depressione sempre più affermata:
Quando vi sentite proprio depressi non riuscite nemmeno a pensare. (Pag. 101)
Stando al contesto in cui Salinger sceglie di collocare l’intera vicenda, la natura della depressione di Holden può aver avuto origine da due fattori ben determinati. Da un lato c’è la soggettività del protagonista, segnato dalla morte del fratello Allie e da tutta una serie di circostanze che fanno capo al suo vivere a diretto contatto con l’ambiente borghese di New York. Dall’altro invece abbiamo la realtà che contraddistingueva un’intera nazione — gli Stati Uniti d’America — da poco uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Nonostante la vittoria, i veterani in giro per il paese erano la prova schiacciante di uno stato d’animo particolarmente delicato — lo stesso Salinger fu impegnato a combattere sul fronte europeo. Se Hemigway aveva raccontato la Prima Guerra Mondiale in Addio alle armi, e F. S. Fitzgerald — vestendo i panni del premonitore — l’intera condizione umana allo sbando con il crollo di Wall Street del 1929 in Il grande Gatsby, Salinger si fa voce narrante del disagio post bellico con Il giovane Holden pubblicato nel 1951 — nonché apripista della generazione beat. Questi furono tre periodi storici particolarmente incisivi per gli Stati Uniti.
A catturare ancora la mia attenzione è la vecchia Phoebe, una ragazzina dai capelli rossi, di dieci anni appena, sorella minore di Holden. Attraverso l’interazione con lei viene fuori tutto il lato tenero e malinconico del protagonista. Pur di vederla, Holden entrerà in casa sua di nascosto per non farsi scoprire dai suoi genitori, e pur di non farla piangere ancora, deciderà di non lasciare la città definitivamente. Il suo volto, nelle ultimissime battute, trasmetterà ad Holden una spropositata dose di felicità, la stessa che forse era ricercata sin dalla prime pagine del romanzo.
I vattelappesca e gli eccetera eccetera si sprecano. Oltre alla trama — a Phoebe, al berretto rosso e alle anitre — è difficile sorvolare sull’uso che di esse se ne fa. L’impiego di queste espressioni aumenta in modo considerevole l’impronta di un personaggio particolarmente seccato da quello che gli gira intorno. È inutile svelare l’intera trama. Non voglio in alcun modo sottrarvi al piacere che potrebbe suscitarvi la lettura di queste dannate pagine. Dopo aver ricevuto questo consiglio di lettura, ora mi limito solamente a comportarmi di conseguenza, consigliandovi di leggere questo — secondo il mio modesto parere — romanzo che si va a collocare tra i capolavori della letteratura americana.
Ho letto la versione tradotta da Adriana Motti nel 1961 e rivista fino al 2008. Einaudi dal 2014 stampa la nuova traduzione di Matteo Colombo. La prima traduzione in assoluto, Vita da uomo di Jacopo Darca del 1952, non è più in circolazione — mettetevi pure l’anima in pace. La mia esperienza dimostra che Il giovane Holden lo si può leggere tranquillamente a 25 anni, e credo lo si possa fare anche a 47. Certo, ne trarremo conclusioni diverse, non c’è dubbio, ma non è detto che essa sia una lettura esclusivamente adolescenziale per via dell’etichetta romanzo di formazione.
Nel frattempo mi preparo alla lettura dei Nove racconti (Einaudi, traduzione di Carlo Fruttero). Sapete, una cosa tira l’altra.