Cent’anni di Jerome Bruner

Il prossimo 1 Ottobre Jerome Bruner compierà 100 anni. Psicologo e docente presso le più prestigiose università statunitensi, ha sviluppato numerosi contributi nel campo della psicologia cognitiva. La sua opera più famosa, che ha sancito la nascita di nuove teorie che si sono affiancate a quelle di Piaget e Vygotskij, è La mente a più dimensioni(Laterza, traduzione di Rodolfo Rini). Durante i suoi studi ha avuto diverse occasioni attraverso le quali non ha mancato di esporre il suo punto di vista sugli argomenti più disparati tra loro, divenendo a sua volta una voce autorevole all’interno del panorama culturale americano. È stato invitato a tenere lezioni per tutto il mondo. Anche in Italia — Bologna tra le prime ad ospitarlo — ha contato sull’adesione alla sua opera di Umberto Eco e di tutto il mondo accademico che tanto fa storcere il muso a molti — me per primo.

Leggendo la sua lunga bibliografia, in La fabbrica delle storie (Laterza, traduzione di Mario Carpitella) Bruner si è espresso anche in merito alla questione che vede al centro del dibattito mondiale il ruolo della narrativa nella nostra vita. Stando alle sue analisi, attualmente la narrativa giace in un stato di ovvietà assoluta. Si ripete all’infinito seguendo le varie mode del tempo senza mai elaborare la giusta innovazione che indichi la sua elevata qualità di medium. A leggere gran parte delle opere dell’ultimo secolo, si può notare come queste non facciano altro che risolvere problemi invece di porre semplicemente quesiti. Ecco il ruolo chiave della narrativa letteraria, ovvero quello di porre domande senza mai spremersi per trovare le giuste risposte ad esse. Non bisogna perdere tempo nel ricercare la soluzione a tutto. Il trucco sta nel mostrare il problema così com’è, nel crearlo senza ricorrere a sfumature di colori sgargianti che ne evidenzino il suo fine. A lasciar intravedere il giusto percorso verso la soluzione saranno gli addetti ai lavori — economisti, medici, giuristi, ingegneri — e non il romanziere. A lui spetta il compito di riconsegnare alla letteratura la capacità di formulare dubbi. Essa ha smesso di porre domande perché è andato smarrito il suo aspetto sovversivo, riducendo così la letteratura ad una semplice espressione facente parte di un mondo omologato e omologante. È molto più facile avanzare soluzioni invece di creare scompiglio attraverso tutti i disordini possibili.

La buona narrativa è quella che incide sulla costruzione del nostro Sé. Un esempio di quanto detto è certamente l’artificio creato da Freud con l’Edipo Re di Sofocle. Servirsi di un’opera per descrivere uno stato che segna la formazione della persona. Nonostante la sua buona riuscita, quella di Freud è risultata essere una conversione che non ha fatto altro che condurre la storia di Edipo per i meandri oscuri della psicoanalisi, sottraendo ad essa tutto il fascino della tragedia che nell’opera di Sofocle è presente. Nella maggior parte dei casi nominare l’Edipo Re porta l’interlocutore a spostare la sua attenzione sulla dottrina freudiana che su una delle tragedie greche più affascinanti e famose di sempre. Si è privata l’opera del suo potere immaginifico per renderla esclusiva metafora di un processo di sviluppo della persona. Del resto, la letteratura è così forte proprio perché conserva integra la sua capacità di avanzare metafore di ogni genere. Altro esempio citato da Bruner è la confessione che Melville fa al suo amico Hawthorne quando definisce la balena come espressione del cristianesimo e Queequeg il più pagano della ciurma. I due estremi si incontrano e si scontrano tra di loro, decretando le sorti dell’intera vicenda narrata.

Dunque parlare agli altri di noi stessi non è cosa semplice. Dipende, infatti, da come noi crediamo che loro pensino che dovremmo essere fatti.

Nella formazione del Sé ha un ruolo decisivo anche la narrativa autobiografica. Secondo Bruner questa non è mai fedele ai principi autobiografici stabiliti in partenza:

Nessuna autobiografia è completa, la si può solo terminare. Nessun autobiografo può sottrarsi alla domanda: di quale Sé tratta l’autobiografia, da quale prospettiva è composta, e per chi? L’autobiografia che effettivamente scriviamo non è che una versione, un modo di conseguire la coerenza.

A questo punto, sorge quasi spontaneo chiedersi quale sia il vero compito della narrativa. È possibile attraverso l’intrattenimento — arte parecchio sottovalutata e per questo le si concede poco spazio per esprimere la sua potenza — dar forma alle nostre identità? Se la grande narrativa non è pedagogica ma sovversiva, è ancora così semplice definire tale opera “un’opera di formazione”? Siamo tutti d’accordo sul fatto che il narrare per realizzarsi ha bisogno di qualcosa che vada storto, qualcosa che non osservi più gli schemi e si faccia portavoce dell’inaspettato. È attraverso la narrativa che creiamo la cultura, che a sua volta si serve dell’arte del raccontare per far sì che possa avanzare di persona in persona, di generazione in generazione, di popolo in popolo, e divenire un bene immortale ad uso di tutti. A queste domande ognuno di noi ha la sua risposta — alcuni hanno più risposte –, ma Bruner esprime la sua sin dalle prime pagine de La fabbrica delle storie:

Per il momento intendo solamente affermare che la narrativa, anche quella di fantasia, dà forma a cose del mondo reale e spesso conferisce loro addirittura un titolo alla realtà.

La narrativa dà forma ad ognuno di noi, influenzandoci profondamente più di qualsiasi altra cosa. Ovunque direzioniamo il nostro sguardo scorgiamo i tratti fondamentali dell’atto del narrare. Ne siamo circondati. Dobbiamo solamente affilare la nostra capacità nel riconoscere ciò che più ci attrae e viverlo intensamente. Sono questi stessi tratti che contribuiscono al creare la nostra individualità.

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