L’ordine era andato a buon fine. Tutto secondo i piani. Non mi restava altro che aspettare l’arrivo del pacco con tanto di corriere sorridente. Sarà una loro consuetudine. Forse sono semplicemente fortunato, dato che non mi è mai capitato uno di quelli scontrosi che odia il proprio lavoro. Qualche tempo fa girava un video — diventato virale — in cui un corriere, probabilmente stanco dei continui rimandi da parte del destinatario o per chissà quale altro motivo, lancia il pacco da recapitare oltre il cancello della proprietà con una certa violenza — e seccatura.
Ho atteso quattro giorni, dopodiché eccolo arrivato. Questa volta non sono riuscito nemmeno a vedere l’espressione in volto del corriere: non ero in casa. Altri hanno firmato al posto mio.
Tralasciando gli stupidi tragitti che ultimamente compiono queste famose scatole di cartone, mi sono subito fiondato su quello che era il mio obiettivo da qualche mese.
Ho pranzato con una certa distrazione. La mia attenzione era tutta rivolta a lui. Eppure l’avevo atteso per così pochi giorni. Ci sono stati casi in cui ho dovuto attendere anche le famigerate tre settimane di reperibilità, non so se mi spiego.
Nella nuova veste grafica è ancora più attraente. Alessandro Gottardo ha saputo rappresentare alla perfezione ciò che emerge dalla lettura di questa raccolta divenuta un classico dei racconti made in USA.
Mi sposto nella mia camera. Mi sistemo sul piccolo divano e via. Tra le mani ho finalmente quello che più desideravo in quest’ultimo periodo.
Inizio a sfogliare le prime pagine. Come da consuetudine siglo a penna l’anno in corso. Lo faccio da sempre con tutti i libri che leggo. Sarà una fissa che ad alcuni può sembrare patetica.
La raccolta si apre con Penne. È la storia di due colleghi. Uno invita l’altro e la sua signora a cena nella sua casa di campagna. Ad accoglierli ci sarà un grosso pavone. Il resto non voglio svelarlo, come non svelerò le trame degli altri racconti presenti nella raccolta.
Ho subito una buona impressione. Mi dico che ne avevo bisogno di una lettura del genere. Finalmente, dopo un piccola delusione francese, ho trovato quello che fa per me in questo periodo. Il mio amore per gli americani non fa altro che viziarmi. Proseguo la lettura con costanza. Mi sento avvolto dalle pagine come se queste volessero trasmettermi qualcosa che fino a quel momento ignoravo. Sentirsi a casa nella propria casa.
Il fine settimana lo trascorro così, nel migliore delle mie aspettative. La casa di Chef, Una piccola cosa ma buona, Vitamine, Da dove sto chiamando, Febbre, La briglia, si susseguono uno dopo l’altro. Sono legati tra di loro da quel classico legame che nella maggior parte dei casi amiamo definire indissolubile, sino a giungere poi a Cattedrale, racconto che chiude la raccolta e che le da in prestito il proprio nome.
Con quel naturale senso di amaro nella bocca, chiudo il libro. Lo faccio quasi controvoglia, e per questo mi vedo costretto a rileggere i titoli dei dodici racconti e a chiedermi il perché di tanta perfezione in un semplice atto narrativo. La velocità che ha segnato questa mia evasione ha decretato in me un senso di vuoto. Una mancanza che a sua volta suscita una voglia di colmare quel vuoto appena creato. Un’energia che mi porta a desiderare altro e altro ancora, fino a che non sono riuscito a leggere l’ultima pagina esistente su questa Terra di quello che Carver ha scritto nei suoi brevi, ma intensi, cinquantanni di vita.
Pur non facendo alcun cenno alle trame dei racconti, voglio invece elencare le tematiche fondamentali trattate in queste pagine: la dipendenza da un lato e le tensioni di coppia dall’altro incidono sul filo conduttore che mantiene insieme questi racconti. Sono istanti di vita, immagini che hanno bisogno di essere tirate fuori dalla superficie per essere comprese in pieno.
Carver è un amico che ti racconta una storia così com’è. E in Cattedrale(Einaudi 2014, traduzione di Riccardo Duranti) te ne racconta ben dodici. Sta a te andare a cogliere la giusta impressione. Lui usa un linguaggio chiaro per parlare di una cosa complessa quanto lo è l’essere umano. Le loro emozioni, i sentimenti che suscitano dinanzi a determinati avvenimenti, mostrano alcune delle dinamiche che segnano l’intera umanità.
Da qualche parte ho letto che il miglior modo per entrare in contatto con Carver è iniziare proprio da Cattedrale. Lo dice anche Francesco Piccolo nella prefazione. Io invece, per via dello spirito di contraddizione che mi abita, sento di consigliarvi una libera scelta, priva di pregiudizi e falsi segreti per il successo nell’impresa.
A qualcuno potrebbe non piacere — e ci sono, fidatevi –, ma di opere come queste ne abbiamo bisogno. Fermarsi un momento davanti alla semplicità di un evento e approfondirlo, fino a coglierne il significato che potrà venir fuori secondo il nostro punto di vista è un’evenienza che mai potrebbe andare a nostro sfavore.
Dopo aver chiuso il libro mi sono alzato dal divano e sono andato dritto al computer. Ho bevuto un bel bicchiere d’acqua e mi sono messo alla ricerca di qualcos’altro. Ho visto che è stato da poco ristampato Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Questa sete non finirà mai.