“C’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta. Così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato. Da sé stessi non si può fuggire”
Andrej Arsen’evič Tarkovskij
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Curon è una serie italiana targata Netflix, uscita il 10 giugno scorso.
La sinossi, che avevo letto in giro e riporto qui, mi aveva intrigato. Ed è stato il motivo per cui ho guardato tutti e sette gli episodi della serie.
Anna Raina, una donna milanese, fa ritorno dopo 17 anni di assenza nel natio paese di Curon, piccola località di montagna sulle rive di un lago su cui circolano strane leggende, insieme ai figli gemelli adolescenti Mauro e Daria. Nonostante i tentativi di dissuasione del nonno Thomas, la famiglia si stabilisce nell’inquietante albergo di quest’ultimo. Mentre i ragazzi si ambientano nella nuova realtà, Anna scompare misteriosamente; nel tentativo di ritrovarla, i gemelli scoprono i numerosi misteri del paese e sono costretti ad affrontare un’oscura eredità familiare.
Uno dei pregi di Curon è il coraggio, il quale andrebbe premiato tipo sempre. In questo caso ho amato il coraggio di una produzione per niente facile, per essere italiana (cit. Stanis di Boris).
Le location della serie sono tutte incredibili. Mozzafiato. Inquietantissime. Girata a Curon Venosta, paesino da cui prende il nome il titolo, sulle sponde del lago artificiale di Resia, Bolzano.
Location perfette per questa storia. Quel lago quel campanile quell’albergo quei boschi. Quelle campane che non ci sono, ma che si sentono. Il campanile, che emerge dall’acqua, è l’unica parte che ancora si vede della vecchia chiesa sommersa, della vecchia città sommersa per la creazione della diga nel dopoguerra. Una leggenda racconta che in alcune giornate d’inverno si sentano ancora suonare le campane, che invece furono rimosse il 18 luglio 1950, prima appunto della creazione del lago.
L’ambientazione dunque è perfetta, la serie prende le mosse dalla leggenda, ma ecco tutto questo da solo non può bastare.
Ho apprezzato tantissimo il tema della soundtrack, davvero notevole. Ma non le canzoni utilizzate per la colonna sonora; pare che abbiano messo riproduzione casuale in fase di montaggio. Così mentre i protagonisti parlano di cose drammatiche parte in sottofondo la Macarena. Sto esagerando certo, ma il senso non cambia. Le canzoni della soundtrack sembrano davvero buttate lì, come se fossero fuori sync rispetto alla creazione di senso del montaggio.
La fotografia mi è sembrata un po’ estrema troppo digitale, con tanta troppa postproduzione. A volte quasi superflua. Quei 7500 gradi Kelvin ricreati in post rendono il sangue color magenta, quando invece il sangue è un rosso carminio. Sono tanti piccoli dettagli ma alla fine quel blu stanca. Gli interni, invece, alcuni sono stati fotografati da dio. Molto evocativi quei daylight in controluce nell’albergo dei Reina.
Gli attori che interpretano i ragazzi, bravi tutti. Gli attori che interpretano gli adulti meno.
Daria e Mauro, ma anche Miki e Giulio, sempre sul pezzo.
Sui buchi di sceneggiatura sorvoliamo, anche perché come la Casa di Carta insegna bisogna accettare di buon grado, dall’inizio, un Dark ma in versione altoatesina.
Un po’ Revenants, un po’ Dark, un po’ Twin Peaks.
Klara è come la Katharina di Dark e Anna come Hannah e Albert come Ulrich, Miki e Giulio come Martha e Magnus, una specie di doppelgänger italiano della serie tedesca senza pioggia ma con la neve e l’accento milanese.
Tornando alla sceneggiatura, conosciamo tutti il procedimento per cui si disseminano lungo tutto l’arco narrativo le tracce della storia. Lo riportano i manuali di sceneggiatura e tutti gli autori lo sanno, per esperienza. Ma il punto è che ormai lo spettatore è più smarty degli autori. Se Klara racconta in classe ai suoi alunni, nel secondo episodio, che in ognuno di noi convivono due lupi, uno buono e uno cattivo; non è più una traccia disseminata è una sinossi con spoiler.
Così come la doppia O del titolo Curon (ad accentuare il tema del doppio, i gemelli, le due anime, lo specchio d’acqua) che a me ricorda un casino Cocoon, ve lo ricordate Cocoon? Non centra niente lo so, però quella doppia O mi ha riportato nella piscina aliena.
Il finale, che eviterò di spoilerare, è già stato ampiamente dibattuto e criticato. Io l’ho trovato degno della serie. Anzi un finale ancora più coraggioso, certo con qualche ingenuità, ma davvero quasi sulla linea (dei poveri) di certi episodi di GoT. I fan di GoT mi odieranno per questa reference, eppure io ho percepito un grande anelito verso il rompiamo gli schemi. Salvo poi lo scivolone, sul lago ghiacciato, un po’ tanto telefonato.
Ma comunque davvero coraggiosi questi di Curon, questi montanari.
Io consiglio di vederla questa serie, sì per il coraggio, quello di saltare nel vuoto. Che manca a buona parte di noi.
Nel lago di Resia, in questo caso.
Per averci provato quantomeno.
One-eyed Jack, sempre presente.
Dalla redazione mi dicono che devo aggiungere una postilla: per chi non conoscesse il significato gergale della parola telefonato utilizzata in questa frase: Salvo poi lo scivolone, sul lago ghiacciato, un po’ tanto telefonato = Salvo poi lo scivolone “finale”, sul lago ghiacciato, un po’ tanto prevedibile.
Infine un P.S.: Domani comincia la terza e ultima stagione di Dark, per l’appunto.