French Wine è un documentario che racconta la vita di un gruppo di lavoratori stagionali durante il periodo dei raccolti e della vendemmia nel Sud Ovest della Francia.
Ho con me due fotocamere, una Mamiya 645 con Kodak Portra 400 e fuji proH 400 e una Nikon FM con Fuji Superia 200 e 400.
Alla fine dello scorso Agosto mi reco ad Agen, una cittadina situata 100 km a nord di Tolouse, dove un amico mi introduce nella comunità anarchica di Bon Encontre. Da qui parte il mio viaggio, prima attraverso la valle del Lot, poi nella regione di Bordeaux, fino alle spiagge dell’Oceano Atlantico. Il gruppo è eterogeneo: Italiani, Spagnoli, Francesi, Punk dalla repubblica Ceca, persino qualche Sudamericano. Gente di ogni età, in gruppo o solitari, veterani o alla prima esperienza. Ho vissuto e lavorato con loro. Abbiamo condiviso la fatica, il cibo, il fuoco e il vino.
Mi sono guadagnato la fiducia di queste persone, diventando parte della quotidianità della loro famiglia allargata, della loro tribù. In questo mondo Libertà e Sacrificio sono indissolubilmente legate, direttamente proporzionali. È della tensione derivante da questo legame che la mia ricerca fotografica si alimenta, perché non basta vivere quella vita, ho bisogno di fermarla, guardarla ancora, raccontarla.
[Alessandro Vullo]
C’è un’alba, una fotografia di un’alba. Uno di quei mattini monumentali,che esistono solo d’estate anzi alla fine dell’estate. Che mi fa innamorare. Ancora.
A un certo punto, d’estate, questa foto.
Un rosa molto rosa, un arancione suadente, un azzurro lontano impercettibile. L’alba.
Una questione di luce, certo. E di quanto questa luce modifichi la nostra visione delle cose. L’alba.
C’è qualcosa che mi ricorda I Giorni del Cielo di Malick. Lo annoto subito, per non dimenticarlo. C’è che io adoro Malick.
C’è qualcosa che mi rimanda a quelle estati, fine estati pazzesche di una giovinezza passata. Qualcosa nei cieli forse, nel lavoro sotto quelle distese sconfinate di cielo, nell’essere tipo mercenari della terra. Ecco sì, una specie di ritorno alla terra. Primitivo e bellissimo. Qualcosa che io credo abbia a che fare con la libertà.
Ed è sempre la libertà, che torna nelle sue fotografie, in quelle di Alessandro Vullo. C’è sempre quella voglia, quella cosa che si cerca. Quello sperimentare, cercando. Quel trovare, infine.
C’è che per raccontare qualcosa così poeticamente con le immagini bisogna un po’ esserlo poeti. Avere un certo tipo di sguardo da poggiare sulle cose, sul mondo. Raggiungere una porzione di realtà e non un’altra. Con consapevolezza. Ed è tutta qui la differenza.
Ho chiesto ad Alessandro di darmi in prestito una colonna sonora per entrare nel mood di quei giorni. E l’ho ascoltata. Ed è vero quelle canzoni accompagnano le sue immagini in maniera superba. Tracciano la cassa armonica delle sue foto. Ne fanno metronomo.
Avevo bisogno di volare su queste immagini con la testa sgombra.
Ed è con la testa così, priva di pensieri, il modo giusto per intraprendere un viaggio.
Leggeri, si dice.
Con la musica giusta.
Questo di Alessandro Vullo è il racconto di un viaggio, di un attraversamento.
Un attraversare qualcosa come attraversare se stessi.
Attraversare se stessi, sempre.
Il rischio di ogni viaggio.
Ieri alla fine mi sono decisa a scegliere le foto per questo pezzo. Le avevo già guardate e riguardate, ma avevo procrastinato la scelta. Tutte molto, troppo belle per farne una selezione adeguata.
E poi io credo che nel guardarle succede questa cosa, succede che ti immagini di essere lì. Ti consentono di essere lì. Ti permettono di empatizzare con le persone ritratte, quelle che lui ha incontrato e con le quali ha vissuto il tempo, tutto il tempo del suo di viaggio. Quelle che tu non hai mai visto ma che, improvvisamente, sembrano i tuoi più cari amici. Per l’intimità spontanea con la quale Alessandro li ritrae. Per il momento che è. Quello racchiuso nello scatto. E da cui io, come spettatrice, non posso sottrarmi.
Quando ero bambina, dopo il mio ennesimo «Siamo arrivati?» mio padre mi disse «Il viaggio non consiste solo nell’arrivare a destinazione, ma esso comincia con la partenza. Goditelo tutto, il viaggio!». Poi aggiunse «Ogni viaggio ti renderà diversa, ogni viaggio ti regalerà una visione differente, e ognuno di questi ti mostrerà chi sei, chi sei realmente bada bene…».
Quando si ritorna non si è più la stessa persona che si era quando si è partiti.
Quando ci si arricchisce dell’esperienza, non si può non tornare cambiati. In un senso bello del termine.
L’essere partito con un’idea ed essere tornato con un’idea diversa di mondo.
Ogni viaggio è così, lo sappiamo. Lo speriamo. La metafora del cambiamento, sempre.
Ma questo viaggio fotografico ho come la sensazione che lo sia stato più di ogni altro. E mi viene in mente Rimbaud «Vado, alla ricerca del sole».
La ricerca del sole.
Del sole.
E dunque sì, nelle fotografie di Alessandro c’è questa Ricerca del Sole.
C’è la campagna francese, la valle del Lot, un nome quasi epico. Ci sono i ritmi di lavoro, estenuanti, che delimitano lo spazio e il tempo delle giornate. Il mattino presto, la sera. Poi c’è l’Atlantico, lì a due passi oltre la collina. Che ha un odore che solo l’oceano ha. Lo spazio immenso che è. C’è in queste sue foto la condivisione. L’esperienza. Questa cosa bellissima di essere partecipe della stessa esperienza nello stesso momento. E in un tempo circoscritto. Tutti sanno che è per un tempo delimitato. I giorni lunghissimi infiniti, che sono quelli che si percepiscono durante i viaggi, si assecondano insieme ai giorni infiniti lunghissimi degli altri. C’è nelle sue immagini la pigrizia e la dolcezza di alcune sere. Le risate. La stanchezza. La bellezza. La diffidenza e l’assoluta intimità.
Sembra proprio di viverli certi momenti. Sentire certe parole. L’odore della pelle. Il sudore. Il crepitio del fuoco. Le stelle, tipo che le vedi tutte quando sei in mezzo alla campagna in mezzo al nulla. E sembra di sentirlo il vento nei capelli, la brezza dorata.
Sembra proprio che Alessandro, mediante il suo sguardo attento, ci abbia regalato un’esperienza. Una cazzo di esperienza.
E io non posso che essergliene grata.