di William Dollace
«Un jour, on construira des villes pour dériver.»
Guy Debord — Théorie de la dérive — 1956
La sconfitta. La deriva.
La sconfitta è il portiere di una palestra che non esiste, da tempo scandito e candito dalle sue abitudini, il guardiano del niente, la luce verde dell’abitudine, alieno di sostanza.
La deriva sono i totem di gasolio, disserviti dal loro servizio, impossibilitati a guardarsi fra loro ma a guardare nella stessa direzione, per sempre, monumenti, sculture di metallo semivuote.
La sconfitta è una televisione che parla a sé stessa, megafono semantico in una stanza che potrebbe essere un’astronave nello spazio servita da televendite per alieni, costumi e culture lanciate come da un megafono per posteri che han deciso di abbandonare la loro poltrona.
Julien Lombardi costruisce set che potrebbero stare ovunque, poltrone indirizzate a nessuno, lirici tentativi di darci in pasto alla deriva. Alla sconfitta. Questo lavoro di cesellamento della solitudine non mostra paura, rimorso, rimpianto, tale è, episodi solitari incendiari che viaggiano, fino al termine della notte. Piattaforme, in cui il suicidio del movimento ha lasciato la sola forma monolitica della deriva, della sconfitta, tutto quel che è la vita esasperata su cui sono puntate mille luci bruciate di cemento e moquette.
Vivremo per rivederle, immobili, eterne, sopraffatti come animali morenti in grandi praterie di pastorali da benzina. Un gioco in perdita, eppure che accende il desiderio di abitarle, di dialogarvi, di impararne il tempo perduto.
Anni a venire per luoghi didattici, dove accendere finalmente il personale Juke Box della sconfitta, e che sia un blues, ballato su vetri infranti.
Tutte le immagini sono di Julien Lombardi.