Vuoi vedere la prigione che ho costruito
con i bastoncini dei ghiaccioli?
( Jonathan Franzen, Le correzioni)
La prigione
Mi sono scordata il mio nome e sono diventata solo presente. Ho mattini automatici che prevedono gambe che trovano forza da sole, mani che smorzano fornelli, maniglie che si schiudono per inseguire la porta del bagno. I miei mattini hanno calzature e acqua ghiacciata, con il rimbombo dei pensieri soffusi dei fili d’erba bagnati di nebbia. Le azioni hanno vinto anche con me, che adoravo poltrire in quell’odore ancora serrato di sogni e streghe anestetizzate con sonniferi scaduti. Ho sotterrato gli stati stati d’animo, quelli angosciosi che si possono avere solo dopo la lettura di Visions of Gerard di Kerouac, quelli che trovavano conforto solo al buio del portico, con la schiena appoggiata alle cortecce.
Ora preferisco ricordare tutti i palazzi accesi di luci gialle verso sera, le pesche sbrodolate sui gomiti e i miei modi sghembi. Posso sempre vaneggiare sui crateri della luna, sui cosmonauti con le stigmate. Però sono attratta dagli stessi giardini con abitazioni di cartone innalzate con le squadre da geometra, paesaggi di androidi sintetici, qualche nano da giardino e cervi in maiolica bianca. La mia entomologia da strapazzo. Facciamo che lascio parole non ancora troppo antiche con un odore sbagliato, la forza della doppia erre di movimento perfetto, pensieri imbottigliati a forma di galeoni e istruzioni dettagliate per il fato. Perché mi hanno insegnato afferrandomi il dito medio, quello più dispotico e intransigente. Perché posseggo la grazia ossuta del non imparare mai.