Una domanda scomoda, ovviamente. Una domanda, una sola. E non è facile eh. Una domanda può mandare a monte un lavoro intero, può pregiudicare amicizie, rompere relazioni, compromettere rapporti personali. Con una domanda, soprattutto se scomoda e volutamente tale, ci si gioca il tutto per tutto. Ma una domanda implica anche qualcosa di più. Implica un pensiero molto lungo che la precede, implica il fermarsi a riflettere per tanto tempo, implica che anche la persona alla quale è rivolta deve ragionarci su parecchio, perché è quella la sua unica possibilità per esporsi al mondo e raccontarsi, quello è il suo solo appiglio, la sua unica strada percorribile.
Scelte e possibilità
Quindi quella persona potrà scegliere di rispondere ampiamente o di dare una risposta secca e veloce, concentrata in un periodo fatto di poche parole. Ma quella persona può anche divagare ed esprimere i più diversi aspetti della sua attività (in questo caso fotografica) e della sua vita stessa, in quella risposta. Il tutto risiede solo in un fatto di scelte, scelte e possibilità.
Crepe e fragilità: la mia domanda
La prima di tante domande scomode l’abbiamo posta ad Alessandro Vullo, fotografo siciliano, classe 1987, le cui notizie non vanno cercate in una biografia, né negli abstract dei suoi lavori e neanche nella copiosa corrispondenza che ci siamo scambiati nelle lunghe ore passate in treno. Alessandro Vullo è nelle sue fotografie.
La mia domanda:
È che sono proprio belle, le tue fotografie. Ma ci sarà dentro qualche punto fragile, qualche oscenità, mi chiedo? Ci sarà in mezzo a tanti scatti bellissimi una dose di insensatezza, un muro che non tiene, una parete di cartongesso? Non è che ci stai fregando, Alessandro Vullo? Non è che stai nascondendo con un po’ di stucco una qualche crepa? E in questa crepa hai infilato la perdita, il dolore, il pianto – tutte componenti che rendono la vita ciò che è davvero, quella fatica immensa che è la vita. Nei tuoi scatti i tuoi protagonisti sono sempre tutti belli e c’è quasi sempre il sole nonostante intorno sia notte, forse è facile così. Me se provassi a fotografare la bruttezza? Sapresti farlo di illuminare il disagio, quello vero intendo. Non quello patinato, da privilegiati.
Illustraci, per cortesia, la tua fotografia.
Io celebro un istante
Alessandro Vullo: Fregarvi? Ma quale, vorrei si esserne capace, probabilmente mi venderei meglio e venderei di più. No, se pensate che anche il disagio che fotografo sia bello, è perché io lo vedo così. Dico davvero, lo vedo così. Io celebro, o meglio, provo a celebrare un istante, qualcosa di per se effimero, che per qualche motivo mi colpisce. Cerco di fregare il tempo, i ricordi, quello si. Forse cerco di fregare me stesso, di raccontarmela un po’… ma no, sono fin troppo consapevole in realtà, pur se a un livello molto istintivo, quasi primordiale.
Fotografo per reagire, tutto qui.
Consapevolezza, dicevo. So bene che una scena di squallore tossico può diventare romantica, da relitto umano a bohemienne il passo è breve. E’ un flickering che divide l’abisso dall’assoluto, un velo impalpabile.
In quel diastema perturbante, da qualche parte, ci sono le mie fotografie.
Con il disagio e l’amore. Con la perdita e il dolore, con la gioia vera e quella sintetica, sta tutto lì. Convive. Le tenebre non potrebbero esistere senza la luce, e un mondo di sola luce sarebbe monotono. A volte ammorbidisco, è vero, ma in fin dei conti è solo perché sono un ottimista cronico, è nella mia fisiologia donare una certa aura a ciò che immortalo. Non credo esista un disagio patinato e uno oscuro, il disagio è disagio, come l’amore è l’amore. Sono categorie assolute, declinate in modi diversi in base a contesti e situazioni, ciò che vedete nelle mie fotografie è il prodotto della mia interpretazione personale. Dalle crepe che ho, al massimo entra un po’ d’aria, non sono bravo a nascondere. Quelle che vedete sono le mie fotografie. Come le ho fatte, come le ho sentite, perché quando le penso troppo poi finisce che non le scatto.