Disintegrata la Jugoslavia di Josip Tito, restano sull’erba, sparpagliati tra Serbia, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Kosovo e Macedonia, i rottami di una plumbea architettura celebrativa.
Privi di energia e vuoti di significato, questi totem brutalisti si rivestono, attualmente, di un senso post-datato.
Gli Spomenik, concepiti in un contesto di unità nazionale fittizia ed eretti dalla forza persuasiva di un regime dittatoriale, oggi ci appaiono monumenti commemorativi di un’amnesia necessaria a dimenticare il trauma post-ideologico.
Metafore di concetti dismessi ed aiutate dalla furia degli elementi, queste ferite cementizie attendono di rimarginarsi nella profondità di un limbo della memoria, morsicate mortalmente da una natura vorace e per niente recalcitrante alla densità del granito.
Potere ed architettura si sono fusi in questi gusci. La loro forma e la loro sostanza sono in continuo mutamento, come due liquidi impossibilitati a mescolarsi.
Un tempo concepiti per contenerne l’aura patriottica necessaria ad illudere etnie diverse circa una possibile convivenza imposta, oggi ci appaiono come la mappa di un’installazione aliena, fruibile attraverso una campagna rigogliosa, ma irrigata dal sangue di migliaia di civili.
Attraverso l’obiettivo del fotografo Jan Kempenaers ne scopriamo l’astratta intenzione progettuale che li ha resi concrete sculture, avulse da qualsiasi significante concetto estetico o artistico.