Ho 24 anni.
È notte. Sera tardi, molto tardi. Che esco dal locale a concerto, quasi, finito. Un concerto dei Sol Invictus o dei Death in June, non riesco a ricordare. Esco. La pioggia di aprile mi si riversa addosso come una nemica. Illumina l’asfalto di riflessi cyano. I miei stivali attraversano pozzanghere territori regioni. Io attraverso strade, grandi, a doppia corsia. Mi vedo attraversarle, sotto la pioggia. Lo trovo persino poetico. In questo momento.
Raggiungo la cabina telefonica dall’altro lato delle carreggiate. Non ho più credito per chiamare dal cellulare, né per rispondere ai messaggi. Così chiamo Leo dalla cabina.
Risponde subito. Dice «Tra mezz’ora sono da te. Nel tragitto parlami che volo in autostrada». Ti parlo finché durano le monete Leo-dalla-bella-voce. La voce. Cazzo.
Le amiche mi chiedevano mi hanno sempre chiesto «Ma cos’è la prima cosa che guardi in un ragazzo in un uomo?» E io rispondevo ho sempre risposto «Le spalle, la voce. Le spalle larghe almeno quanto le mie, la voce bassa distante profonda capace di farmi trattenere il respiro».
La telefonata cade. E qui continua a piovere, a vomitare giù acqua dal cielo livido della notte pratese coperta. Ho freddo, ho i capelli bagnati fradici. E i miei amici mi staranno cercando. Forse. Il rumore della moneta inghiottita dal telefono mi fa sobbalzare. Il tutututututu squarcia la notte.
Mi siedo per terra sotto la luce al neon della cabina. E aspetto che lui arrivi. Aspetto qualcosa. Sempre. Sempre in attesa. Scatto qualche foto dei riflessi verde rosso del semaforo nell’acqua sull’asfalto. Mi infilo gli auricolari accendendomi una sigaretta. Una Diana blu morbida fumo. Il CD che ho dentro l’Aiwa è King and Queen dei Sol Invictus. La traccia che occupa lo spazio della cabina nella notte è Tears and Rain.
Never care for when you do, you’ll wear the chains and follow the rules
Of love’s dark game, of love’s dark game – of tears and rain…
Poi, la sua auto nera coupé.
Lui che scende dall’auto. Stravolto. Disperato. Lo sguardo, indicibile.
Una specie di Michael Fassbender, dei poveri però.
E io lo guardo. Qualcosa che no, non mi piacerà mai. E qualcosa mi resterà per sempre.
Che voglio vivere tutto. Non perdermi niente. Attraversare la mia esistenza in prima linea. Perché voglio sentire tutto. Tutto, sempre.
E questa cosa del volere sentire tutto mi ha causato non poche rogne.
Mi dicevo Voglio Viverlo, ogni attimo. Sempre fino in fondo. Fino alla fine sentire. Questo che voglio. Ogni istante io voglio sentire e vedere e toccare. Ed esserci.
Così mi ritrovo quella notte davanti alle porte scorrevoli di un Holiday Inn vicino Bologna o Modena. Chi può dirlo. Mi guardo attorno smarrita, quello che vedo è solo un parcheggio desolato in mezzo al nulla e le luci verdi dell’albergo anonimo e imponente. Lui mi prende la mano e mi sussurra qualcosa all’orecchio. Qualcosa di spinto. Di adulto. E io penso che sia troppo tardi, ormai, per defilarsi. Troppo tardi. Per me.
Alla reception mi chiedono i documenti che ovviamente non ho. Mi chiedono se sono maggiorenne. E mi metto a ridere. Cosa che no, non aiuta. Leo allunga la sua American Express insieme ai suoi di documenti e dice «Garantisco io per lei».
Uno scambio di sguardi tutto maschile mette fine alla nostra accettazione.
In ascensore Leo mi chiede «Ma lo sei maggiorenne o no, eh Lù?».
Ho 24 anni io quella notte. Lui una quarantina invece, ma forse sicuramente di più.
E in quel gap. Lo iato insanabile della notte.
È l’alba che guardo fuori. La distesa della pianura la nebbia azzurrata bassa sui campi il parcheggio con gli alberi ancora troppo giovani il rumore dei Tir in lontananza. Mi dispiace di avere terminato il rullino nella cabina telefonica cercando di fotografare la pioggia che non si lascia fotografare la pioggia. Mi dispiace di non potere fermare il mio sguardo in quest’alba, il mio sguardo giovane e tragico. Come gli attori secondari in quelle vecchie tragedie greche. Gli occhi imbruttiti di nero, il trucco sbavato tutto intorno. Mi dispiace non potere portare con me il ricordo di quest’uomo che dorme. Mi dispiace non potere avere uno straccio di prova del mio passaggio qui. Mi dispiace dovere ancora testimoniare a me stessa tutto questo per essere viva.
Poi ci sono io che cerco un paio di Xanax per dormire, nelle tasche dei suoi vestiti. Lui ha sempre delle gocce salvavita. Questo lo so.
Quello che non so è questo. Una moglie dei figli. Una stilettata, una moglie dei figli.
Il suo portafogli che cade dalla tasca, che si apre. La foto sotto la plastica. La moglie bionda, i figli. Sottovuoto nel portafogli. E no, non lo sapevo. Non potevo saperlo.
Mi siedo sulla vasca, in bagno, e mi fumo un paio di sigarette. Penso all’esame di urbanistica che ho alle tre del pomeriggio. Penso che devo ripassare le dispense. Penso che devo tornare a casa. Penso che.
In love’s dark game, in love’s dark game – of tears and rain