Qualche giorno fa ho chiuso Addio alle armi di Ernest Hemingway — non dovrei nemmeno nominarlo lui, dato che il titolo dice già tutto.
Era una lettura che rimandavo da tempo. Avevo trovato il primo Meridiano tra gli scaffali di una libreria poco curata. A dire il vero il legittimo proprietario di questo volume che ho tra le mani neanche sapeva chi fosse Hemingway. Anzi, sapeva soltanto che era uno scrittore americano — lascio i particolari della scena alla vostra fervida immaginazione. Ora comunque fa parte della mia libreria. Non lo perdo mai di vista.
Detto questo, ho deciso di leggerlo anche dopo la pubblicazione di questo post. Mi ha dato la spinta giusta (ringrazio ancora The Blookeranche per la condivisone del video. È qualcosa di unico, altro che gli archivi Rai).
Addio alle armi è stato pubblicato nel 1929, anno della crisi del mercato americano prima, e mondiale dopo. Una data parecchio significativa se vogliamo legarla al contenuto dell’opera.
In Italia venne data alle stampe solo nel ’48, dopo che la traduttrice Fernanda Pivano fu per questo arrestata durante gli anni del regime fascista.
Non voglio ora soffermarmi sulla trama, sui personaggi, sullo stile e via dicendo. Questa è solo una mia riflessione suscitata in seguito alla lettura del romanzo. È stato già detto tanto su Hemingway e sui suoi romanzi, e certamente tanto altro ancora si dirà.
Piuttosto non posso far altro che fermarmi dinanzi alla natura dei temi principali trattati nel romanzo: la guerra, la morte, e l’amore. Ecco i tre ingredienti segreti di quello che io oggi intendo quando parlo di Addio alle armi. Tre componenti fondamentali, delle più toste che possano esistere, messe nero su bianco e avvolte da un intenso vortice narrativo.
Provate ad immaginare cosa potrebbe venir fuori se solo ci soffermassimo accuratamente su questi tre temi. Bene, sorgerebbe un marasma di roba. Non sapremmo nemmeno noi da dove iniziare. Sulla guerra abbiamo tanto da dire; sulla morte non basterebbero tutti i libri pubblicati; e sull’amore? Il mondo, la galassia, e l’universo intero. Sono tre parole cui la vastità è davvero incommensurabile.
Invece Hemingway ha saputo fonderle alla perfezione, e il risultato, torno a dirlo ancora una volta, si chiama Addio alle armi.
Nelle pagine non c’è solo la Prima Guerra Mondiale a far da teatro allo svolgimento della trama, ma è un romanzo che risalta sopratutto il nonsenso, l’inutilità, il fine, di una guerra che agli occhi di alcuni — questo “alcuni” è alquanto tentennante — risulta essere una delle pratiche necessarie per risolvere problemi di diversa natura — dal razziale a quello economico.
Frederic è un protagonista sì parlante, ma anche attento osservatore di quegli animi che vengono fuori nei suoi spostamenti, nelle sue conoscenze. Leggendo le pagine del romanzo, pare di vederli tutti gli occhi stanchi dei suoi interlocutori.
E la guerra, con la sua inutilità, non fa altro che portarsi dietro con se la morte. Morte per le strade, sui campi di battaglia, per le corsie degli ospedali tra i feriti giunti dal fronte — lo stesso protagonista rimarrà gravemente ferito in seguito ad un attacco nemico.
Diversi civili e soldati, suoi compagni, rimarranno vittime di un conflitto che in fin de conti non condividevano affatto.
Con la stessa intensità della guerra e della morte, anche l’amore tra i due protagonisti — Frederic e Catherine — è espresso con la stessa potenza, la stessa forza motrice, avvolta da un turbine fatto di quella passione che lascia assaporare la voglia di riscatto possibile solo in circostanze tali.
L’amore spinge, mette in movimento, mai come in quest’opera: così, dopo aver disertato il combattimento, Frederic prende la sua amata Catherine e la porta via con se. Una fuga nel segno del riparo dal nemico — l’amico diviene a sua volta nemico — e della svolta.
Ed ecco che, proprio quando tutto sembra sistemarsi, Hemingway decide di far combaciare questi tre temi principali in un unico piano suggestivo: in Svizzera, Catherine darà alla luce un bambino che non riuscirà mai a respirare, il quale diverrà a sua volta la causa della sua stessa morte. Qui possiamo notare come la guerra, la morte e l’amore si fondono tra di loro segnando i risvolti tragici di un romanzo di per sé già tragico nell’intero svolgimento.
La nascita di un bambino che non riuscirà a sopravvivere, e la morte della donna amata in seguito alle emorragie dovute al parto, sono immagini che rimangono fisse in un contesto segnato dalla guerra che ancora non cessa.
Conclusa la lettura, sono rimasto lì avvolto nelle mie riflessioni per un po’. Poi mi sono chiesto: non sono forse questi i tratti, e lo svolgimento, della tragedia “contemporanea”? C’è l’amore, c’è la guerra, e c’è la morte. Manca qualcos’altro? Forse.
Infine, vorrei segnalarvi un passo che ho trovato leggendo la prefazione scritta da Hemingway nel 1948 — per me le prefazioni, come anche le odiose introduzioni, sono sempre postfazioni.
Il passo, a mio avviso, racchiude uno dei tratti fondamentali di tutta la letteratura:
“Il fatto che il libro fosse tragico non mi rendeva infelice perché ero convinto che la vita è una tragedia e sapevo che può avere soltanto una fine. Ma accorgersi che si era capaci di inventare qualcosa; di creare con abbastanza verità da esser contenti di leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si lavorava era qualcosa che procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai conosciute. Oltre a questo nulla importava.”
Non mi resta che augurarvi buona lettura.