Things Have Changed – Bob Dylan
Ho ancora appiccicato addosso il sound vibrante di Desire. Dentro le orecchie il suo accento americano, le note di un violino, di una chitarra antica, la malinconia di un’armonica. Difficile mettere su carta una carriera lunga e intensa come quella di Bob Dylan. Complicato come riportare su un foglio bidimensionale il vento, la luce, le onde del mare. È una proiezione impossibile.
Chi è Bob Dylan, mi chiedo? Un settantenne che ha fatto la storia della musica? Un profeta? Un dio? Il menestrello del Rock? Il premio Nobel per la letteratura che si è fatto beffa dell’Accademia Svedese? Convengo che è tutto quello che c’è stato nel Nuovo Mondo più o meno dalla corsa all’oro alla contemporaneità, passando per Woodstock, l’epopea Beat, Martin Luther King e la postmodernità. È un po’ come Underworld di DeLillo o come l’Ulysses di Joyce.
Complesso, vasto, impegnativo, contraddittorio.
È inclassificabile, è tutte le cose belle che a scuola ci insegnano come astratte. È libertà prima di tutto, la libertà intesa come l’intendeva Isaiah Berlin: «resistere, […] essere impopolare, […] schierarti per le tue convinzioni per il solo fatto che sono tue»; è non piegarsi alle regole, grida nella notte e una melodia straniante che riporta alla mente i ricordi più belli e inesorabilmente trascorsi della giovinezza. Ritmo incalzante, darkness and light, comprenderlo a pieno sarebbe impossibile, sfugge. Irriverente, autonomo, spiazzante.
Il 3 aprile, nello splendido scenario della Sala Santa Cecilia all’interno dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, Dylan ha dimostrato ancora una volta, nel suo tour infinito, la sua libertà, la caparbia scelta di reinventarsi, la sua capacità di presentarsi sempre sotto veste nuova, con idee innovative, con sound alternativi. Fuori dagli schemi, oltre le ideologie comuni, al di là della popolare nozione di concerto, dove in genere un cantante canta e un pubblico canta insieme a lui, fa fotografie, applaude a tempo. Bob Dylan non è che non gradisca tutto questo, semplicemente lo detesta, e allora attua differenti strategie di autoconservazione della sua identità, per proteggere se stesso e la sua musica, le sue canzoni. Lo spettatore deve starsene buono al suo posto, non gli è chiesto di cantare, né di fare fotografie e la sua partecipazione deve limitarsi all’ascolto. Ne basta uno di cantante, non c’è bisogno che ce ne siano mille. Vietate le fotografie, le riprese video e l’utilizzo di qualsiasi altro mezzo elettronico. Ascoltate e basta, sembra chiederci, godetevi il momento utilizzando la vostra memoria cerebrale e nulla più. Non serve altro. Le uniche luci presenti erano quelle del palcoscenico, atte a illuminare Bob Dylan e la sua Band. Ma fosse stato per lui, il concerto si sarebbe potuto tenere anche al buio, o quasi. E forse, sarebbe stato ancora più bello. Elegantissimo e animato da slanci rock’n roll alternati a suadenti movimenti blues. Quasi sempre al pianoforte, poco in piedi e non troppo vicino al pubblico. Distante e velato come le divinità greche nell’universo metafisico dechirichiano. Schivo, anarchico, indipendente.
Demiurgo di un’orchestrazione unica della quale lui rappresentava il primo atto, il baricentro perfetto e la fine. Si trascinava il microfono con tutta l’asta come se stesse danzando con una donna bellissima da conquistare a ogni costo. Suonava e cantava in piedi, seduto, si alzava ogni tanto, circumnavigava il piano col passo veloce di un uomo maturo e si poneva al centro, deciso, conscio di una grandezza della quale va fiero ma che nello stesso tempo tende a rifuggire.
Canzoni stravolte, ritmi spinti al limite oltre la labile linea di confine che apre alle sperimentazioni blues. Il concerto inizia alle 21 in punto, e già questo la dice lunga sulla voglia di spiazzare, destabilizzare lo spettatore. Accolto da un applauso quasi commovente che non finisce più, come il Never Ending Tour messo a punto dall’uomo al quale è rivolto. Comincia la musica, chitarre, batteria, bassi, contrabbasso e pianoforte. Niente è come sembra o come ci si sarebbe aspettati. Ma questo non è segno di presunzione o indifferenza, solo sintomo e dimostrazione della capacità di un uomo di quasi settantasette anni di sapersi reinventare sempre e nonostante tutto. È la capacità dell’ultimo dei cantautori di un’epoca tramontata di essere dinamico, moderno ma in controtendenza, rappresentante di un passato ma nello stesso tempo esempio coraggioso e lungimirante nel sondare strade non ancora battute. La guerra del Vietnam è finita, il ’68 anche, ma l’eco di quelle rivoluzioni è ancora vivo, i suoi riverberi si espandono nel tempo e nello spazio e forse, come la musica, mai avranno davvero fine.
Bob Dylan
È il 3 aprile, primavera nella sera romana. Quest’aria ricca di polveri sottili è stata respirata da Romolo, Nerone, Traiano, Augusto, Caio Giulio Cesare, non nell’ordine riportato e senza polveri sottili, ai loro tempi. Oggi la respiro io come la respira Bob, a qualche metro da me. Dall’aspetto non è più il ragazzo di un tempo, ma dalla voce si. È più graffiante di allora, più maledettamente incazzato, più lirico, più rivoluzionario. In questi tempi incerti, di ideologie, nazionalismi, crisi ambientali e politiche, fanatismi, giochi di potere, illusioni, individualismi, l’umanità ha bisogno di uno come lui, del portato immaginifico del suo pensiero, della forza trainante della sua musica, oggi come allora e come sempre, libera.
Quattro volanti della polizia inseguono qualcuno, il cielo è terso, c’è fermento in giro, chi vende magliette, chi rifila poster. Con il blues che ci pulsa ancora nelle orecchie e la frenesia di aver partecipato a un evento che in sé custodisce i germi dell’eterno, torniamo a casa.
Songs
- Hurricane
- Just Like a Woman
- Duquesne Whistle
- Things Have Changed
- Mr. Tambourine Man
© Iole Cianciosi