21 giugno 2016. Solstizio d’estate. Sono sola in casa. Sono partiti tutti per le vacanze. Ci siamo solo io e il mio pappagallo. Da giorni mi frulla un’idea in testa. Sarà che qui in casa stanno guardando le puntate di Merlin, oppure mi sono stancata di leggere le condivisioni dalle pagine Facebook a riguardo e di non coglierne l’ironia. Ora ci siamo. Guardo il pilot del Trono di Spade, o Game of Thrones, come preferisco dire.
Ho sempre nutrito forti pregiudizi nei confronti di quello che poi avrei definito uno dei colossi targati HBO. Sarà che mi è sempre parsa come una serie TV un po’ nerd. Immaginavo i lettori sfegatati della saga di George R. Martin come una sfilza di sfigatelli dediti al fantasy, che per inciso ho sempre accuratamente evitato.
Invece eccomi qui, nel primo giorno d’estate, a sentirmi rimbombare nelle orecchie prima la maestosa sigla e poi che l’inverno sta arrivando. Quello che proprio non riuscivo a comprendere era dove fosse la bellezza di questa serie. Credetemi, poi l’ho capito. Dovevo solo oltrepassare la corazza esterna fatta di combattimenti a singolar tenzone, metalupi, casate (e rispettivi vessilli) e alleanze varie. Ciò che tiene incollato lo spettatore di Game of Thrones non è solo l’aspetto visibilmente medievale. Non è neanche la storia, che pure ha il suo perché. No. Game of Thrones ha un valore antropologico. Riscontrare le diversità che intercorre tra usi e costumi dei popoli è stato ciò che mi ha colpito maggiormente.
All’inizio, quasi per tutta la durata della prima stagione, ho faticato davvero a star dietro a tutti i personaggi, i loro nomi, le parentele, i tradimenti, i retroscena. Poi mi sono resa conto che per spiegare a quelli che non guardavano la serie chi fosse Robert Baratheon dicevo: il marito di Cersei Lannister, la regina, sorella di Jaime e Tyrion, la figlia di Tywin, il nonno del re, Joffrey.
Tra colpi bassi, ma anche altri quasi attesi, ho cominciato ad affezionarmi ad alcuni personaggi (ho imparato a non farlo più dopo la morte di Robb) e ai motti delle casate, comprendendo via via che dietro ogni situazione interpretata ci fosse un’idea maniacale del sacrificio. La guerra, la crudeltà, le vendette, il tornaconto, la violenza, tutto questo convoglia in una sola immancabile realtà: siamo tutti sacrificabili per lo scopo di qualcun altro. Se è stato deciso che dovrai pagare per l’errore di un’altra persona, pagherai.
Senza rendermene conto in un mese ero già alla fine della terza stagione. Vedevo gli Stark morire come mosche e cominciavo a comprendere i meme su Sansagioia e il bellissimo tormentone “Tu non sai niente, Jon Snow!”
Un consiglio su tutti, arrivato proprio all’inizio di questa avventura da un’amica di università, mi ha salvato dal pericolo di spoiler, ovvero quello di non mettere i like alle pagine Facebook che avevano come protagonista proprio la serie. Mentre tutti guardavano la sesta stagione, (ahimè, sapevo già della morte di Hodor e dell’infelice traduzione italiana di Hold the door) io scoprivo a poco a poco che l’iniziale orrore provato per le morti di alcuni personaggi, veniva immancabilmente sostituito dall’abitudine di fronte all’inevitabile sorte.
Anche l’elemento per così dire fantasy, che credevo ricoprisse un ruolo ingombrante, era perfettamente dosato e devo essere sincera, non mi è dispiaciuto affatto; tranne per Stannis Baratheon, non puoi farti consigliare da una sciroccata che interpreta il futuro attraverso le fiamme, ecco come va a finire.
Dopo l’odio provato in principio per il modo di fare subdolo della maggior parte dei Lannister, sono arrivata a provare simpatia per Jaime e ammirazione per Cersei. Ma avete notato che è regina da sei stagioni? Qualcosa mi dice che in un modo o nell’altro verrà spodestata. Inoltre c’è la profezia avveratasi già per metà -quella della morte dei suoi tre figli e lasciata incompleta nella serie-, che nei libri ha un seguito, ovvero la morte della regina per mano di un fratello minore. Ovviamente le ipotesi si sprecano, perché sarebbe troppo semplice pensare che sarà Jaime a uccidere sua sorella. In più in Game of Thrones è pieno di fratelli minori con almeno un motivo per fare fuori la regina.
Questo non lo dirò troppo forte. Mai sia che Martin mi senta (o legga) e decida di far fuori il mio personaggio preferito, Tyrion Lannister. Parliamoci chiaramente, è il migliore di tutti. Incarna tutto ciò che vorremmo fare, ma che non facciamo perché è sbagliato o sconveniente. Bere vino, andare a letto con gente diversa, ammazzare il genitore, avvalerci del nostro sapere come biglietto da visita per una regina dai lunghissimi titoli con tre draghi totalmente fuori controllo.
Ho concluso la sesta stagione il 19 agosto, esattamente due mesi dopo l’inizio di questa avventura ed ho trovato una di quelle serie TV che non si dimenticano facilmente perché al suo interno c’è davvero un mondo parallelo. Credo che potrebbe benissimo essere un’ipotesi perché in Game of Thrones non ci sono riferimenti cronologici ed è per questo che non potrei mai definirla come una serie medievale solo perché ci sono armature, combattimenti e regine. Pensare di dover aspettare un anno per la prossima stagione è dura, perché la curiosità mi sta letteralmente mangiando viva.
Stavolta però posso ingannare l’attesa scorrendo le pagine Facebook come Daenerys che brucia cose, o Giovanni Neve, tu non sai niente e farmi quattro risate invece di sentire la mancanza di questa serie. Giusto a titolo informativo, io sono Team Stark, il nord non dimentica.