Ci sono persone che vanno viste con la mente per capire. Lei dovete immaginarla con un paltò scarlatto e le galosce da pioggia intervallata da quadratini di cartone color cioccolata di nastro adesivo. Ma quest’immagine è solo una panoramica, che rende giustizia solo a uno sguardo dato in cima a un piccolo aeromobile graffiato di blu. Lei sembrava vivere in un plastico di ciliegio. Medicava le sue incompletezze con affetto certosino. Nettava le seggiole e ricollocava le tavole di legno con calma e concentrazione. Il disordine nella sua testa e l’ordine intorno a sé. Si spostava nella sua tana come un ragno d’appartamento con una scrupolosità rallentata, un senso di già visto, una dimissione solerte. Quando raccoglieva le polveri, pareva un levare nutrimento alle cose: alle reni dei libri, alle zampe degli scrittoi, alle sue teste di lume. Si spingeva nel mondo con la quiete degli influenzati, la coscienza della transitorietà e la gravità di un collo greve. In cambio poteva vantare la clemenza per i contorni, il non lamentarsi per poco, la transitorietà delle pene. Si riconosceva la sua ossatura da dietro l’uscio. L’ossatura era il suo meglio. La sua personale grafia di maiolica, la sottigliezza pleonastica sul cemento. La rimanenza era ardesia, messa a coltura attraverso sottile rancore e venuzze di astio. Era l’irrisolvibile disordine a tormentarla, ne aveva qualche granello conficcato nella sua costola sinistra. Aveva battezzato un punto tutto suo. Un cerimoniale incivile sorretto dai gorgheggi dei lupi giovani. Un rito da fanciulla di campeggio. Quelle cose dei dieci anni, come dare un nome alle scodelle, alle biciclette nuove, ai reggipetto bianchi. Lo faceva perché doveva. Senza sapere. Come le renne, che non possono sapere della loro perfezione, e come gli orsi, che non sanno nulla della loro forza. Anche ora, a terra, nessuno spavento per il breve crollo del corpo sul selciato. Un male da niente. Piuttosto un disagio nel vedere la borsetta rivoltata a terra, gli oggetti fuori posto. Lo sgomento di uno specchietto fra le cartacce, l’angoscia del rossetto nel buco del tombino, l’ansia per il telefono con le chiamate uscito dalla custodia. La presenza ingombrante degli oggetti nel posto sbagliato, l’agenda di pelle pestata da un motorino, una piuma nera vicina al lampione. Il disordine nella sua testa e l’ordine intorno a sé. Il guardare il cielo e cercare le sbarre.