Ista é Lisboa. E non si traduce

Una dis-guida non convenzionale
[di Disguido Luciani
foto di Rosa Lacavalla
]

Si va lenti, ma tanto lenti, a Lisbona, così tanto che dopo qualche accelerata casuale per superare la vecchina di turno, e qualche smadonnata di troppo, quasi ti abitui. Deponi la fretta, l’ansia. Deponi pure la velocità. E, sì, va bene, tudo bem: vai lento anche tu. E, così, velocemente, impari ad andare lento, impari il ritmo lento di Lisbona.

Impari ad aspettare minuti davanti a casse vuote e cassieri assenti, ma sai che sarai ricompensato. Perché quella cassa vuota sarà riempita da un ingombrante sorriso a mille denti del cassiere fino ad un attimo prima assente.

E quando qualcuno urlerà obrigado, un semplice “grazie”, gli altri attorno a lui, ma tutti gli altri, coinvolti o meno da quel grazie, risponderanno allo stesso modo. E partirà una ola di obrigado, un coro di voci con accenti diversi. E sorrisi. I più ampi che io abbia mai visto. Come il cielo sopra la città con l’acqua in basso a fargli da specchio. Che, vero o no, sembra il più ampio tra i cieli.

Va lenta come il fado, Lisbona, lenta come le dita dei musicisti che accarezzano le corde della chitarra, lenta come quelle vocali stirate finché non ti si spezza il fiato. Lenta e potente. Come quella canzone:

Perguntaste-me outro dia
Se eu sabia o que era o fado
Disse-te que não sabia
Tu ficaste admirado
Sem saber o que dizia
Tudo isto existe
Tudo isto é triste
Tudo isto é fado

Sa andare veloce Lisbona quando c’è il carnevale, così veloce che gli unici ritmi consentiti sono quelli della samba. La gente si guarda e sembra già conoscersi, che ti basta intonare una canzone e muoverti vagamente a ritmo per sentirti umo da familia portuguesa. E ti ritrovi pieno di brillantini attorniato da persone che ti chiamano lindo e ti riempiono di baci e sorrisi.

Vanno lenti e veloci gli “amori” a Lisbona. Ragazzi e ragazze perdono la testa per te e, con lo sguardo “da fado”, ti chiamano “cutiepie”. Neanche tu fossi un pastel da nata, quel dolce irresistibile che sfida la forza di gravità racchiudendo una quantità esagerata di crema gialla, bruciata nella parte superiore, in pochissimi strati di sfoglia. Ti guardano dentro gli occhi, che manco lo so come fanno, ti cantano le canzoni per strada, rubano pezzi di quel cielo così ampio per regalartene un frammento.

Va lenta Lisbona nel suo centro che, lentamente, tanto per cambiare, si abitua al turismo. E va ancora più lenta nella sua periferia che, in fondo, è di fatto il suo centro più autentico. Una città con tante città dentro, ché ognuna è a sé, ognuna perfetta.

C’è il Bairro Alto che mixa gallerie d’arte quasi avveniristiche e negozietti d’antiquariato. La mattina ci trovi l’arrotino con la sua bicicletta, il calzolaio, la signora del pane, e pure lo spaccino ci trovi, che ti mostra, altezza bacino, pezzi di hashish grossi come la tua testa; la notte il Barrio si trasforma e diventa la meta del divertimento cheap con mezzo litro di birra a un euro (che chissà che c’è dentro) e i cocktail a 3/4 euro. E sono buoni davvero. Che dopo mezzo già stai ballando dentro un locale a caso, per strada o sui tetti dei palazzi. Il vecchino, presumibilmente il marito della signora del pane, si riscopre commerciante notturno e ti vende o pão co chorizo, panino unto con salsiccia unta, metodo artigianale perfetto contro la fame alcolica.

C’è l’Alfama, borghetto alle pendici del castello, che offre cena e spettacolo (di fado, ovviamente) a poco prezzo. E i ristoranti sono di famiglia. E lo capisci appena ci metti piede. Ti accoglie la nonna col nipote in braccio e ti fa sedere attorno ad un tavolo condiviso. Così fai pure amicizia. Nel frattempo il marito ti offre le tapas (così buone che ci annegheresti dentro), poi si abbassano le luci e lui fa una “pausa” che pausa non è perché nel frattempo ti canta 3/4 canzoni del fado tradizionale mentre tu ti senti quasi in colpa perché sei impegnato a fare vergognosa scarpetta affogando del pão nell’olio su cui pochi minuti prima poggiava un tenerissimo bacalhau.

C’è anche la parte più europea, che ti sembra di stare in una metropoli, con ampi viali, giardini eleganti, negozi alla moda. E c’è la Baixa che se sai scegliere e far slalom tra i locali turistici ci trovi tavernette alla buona che ti riempiono di queijo, formaggio morbido e appiccicoso che resiste ad ogni sapone, alio, che sopravvive a ogni disperato accanimento di igiene dentale, e per finire, la ginjinha, liquore dolce di un rosso intenso. Come se piovesse. Rinfresca e brucia. Come Lisbona, se ci penso.

Si scende e si sale a Lisbona. E ti abitui pure alle scale. Ché dopo un po’ lo hai capito: a una discesa corrisponde sempre (o quasi) una salita uguale e contraria. Te lo dice la matematica, te lo ricorda la geografia, te lo impone Lisbona.

E t’innamori. Perché non puoi fare altrimenti. Del tramonto più bello della tua vita, che sia a Belèm o al Miradouro da Santa Catarina, della vastità dell’oceano t’innamori, del romanticismo, della nostalgia. Ché, senza accorgertene, il fado ce l’hai già dentro. E sì, è vero, tudo bem? Tudo! Perché così si risponde, ma di  questo senso di bellezza e vuoto, eterno e finito, che ti chiedi se quello che provi è saudade, di tudo isto che te ne fai se non puoi tradurlo? Né con una sola parola o milioni di foto, né scrivendo, riscrivendo e cancellando.

La saudade esiste. Sim, existe, existe como o fado. Isto é triste, isto é fado. Ista é Lisboa.
E non si traduce.

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