mi sono fatta un giro nella Festa Nera di Violetta Bellocchio
(testo e foto: Lulu Withheld – soundtrack: Vater by Soap&Skin)
Lo sapevo e non lo sapevo. Il dolore è l’unica cosa vera che ci è rimasta.
Io questa storia me la sono dovuta scollare di dosso piano lentamente con le mani le dita la pelle, prima di potere dire di esserne uscita illesa. Perché. Perché questa è una storia in cui ci si scivola dentro (a fondo) senza volerlo. È una crepa, questa storia. E quando si decide di cadere in uno squarcio bisogna essere pronti a perdercisi e a segnare il passo come Hänsel e Gretel per poi potersene tornare indietro. Riavvolgere il nastro fino all’inizio. Mettere di nuovo in play. Guardare il girato. Lo vuoi vedere? Lo vuoi davvero vedere?
C’è una crepa in tutte le cose.
Violetta Bellocchio scrive un ritratto di tre filmaker come se fosse un vecchio video in VHS riversato in digitale, una specie di artefatto contemporaneo simultaneo per raccontare un distopico futuro che è già in fieri. Racconta un futuro prossimo che potrebbe essere oggi, adesso. Un oggi, questo adesso, che viene raccontato con una lucidità straziante, una roba che fa male. Dio se fa male.
La deriva del nostro Adesso.
Ci sono paesaggi da fine del mondo ma neanche troppo, baraccopoli sui letti aridi dei fiumi, carcasse di auto abbandonate, aerei privati che solcano i cieli, città senza alberi, cimeli da baratto, calze e rossetti, le canzoni di prima della guerra, i film quando si giravano i film, ci sono le immagini che valgono più di ogni altra cosa. Un futuro che è questa specie di strano luminosissimo presente. Poi ci sono le persone che la fine del mondo la sentono vivono pensano sulla propria pelle. Chi reale, chi immaginata, chi fisica.
Ti giuro che potrei assassinare qualcuno per sapere come reagiva la gente, quando esisteva la gente.
Ci sono loro: Ali, Misha e Nic che sembrano guerrieri senza ideali. Post documentaristi sopravvissuti senza famiglia, alla deriva anche loro. E no, neanche loro credono più in niente. Se non nel potere delle Storie. Loro le raccontano le storie, quelle degli altri, perché esattamente come adesso la gente ci sguazza nelle storie degli altri. Ma succede che scivolano in una crepa, finiscono nella loro storia.
Diventiamo noi la storia, e non esiste destino più atroce del diventare una storia quando le hai sempre raccontate.
[…] Non siamo niente senza la storia, mija. Le storie hanno sempre un testimone. È l’ultimo favore che ti chiedo. Mi spinge la camera in mano.
Nic che viene raccontato solo attraverso i suoi piccoli gesti, autolesionisti e paterni. Che sorride, poco, con le labbra e con gli occhi, per lei. Misha dea e puttana furba e ingenua. Docile e feroce. La ragazza bianca.
Ali senza padri né madri, né origini, non bianca non nera, un ibrido. Queste radici, intendi? Ma chi ti s’incula. Testimone senza palle né opinioni. Le cose le capitano e basta. E lei le accetta come vere. E assolute. Voyeur ella stessa come gli spettatori o i visualizzatori compulsivi.
Tu guardi lui, lui guarda te.
E poi ci sono io lettrice o spettatrice, ci sono io che ci sono scivolata dentro piano, come se avessi fatto quello che dicono i ragazzi della troupe, protagonisti della vicenda.
Ho aperto una crepa, ci ho infilato dentro due dita e ho seguito la luce. Nessuna vita è bella come pensi…
Ci si cade dentro. A questa Festa. E si fa fatica a tornare.
Violetta Bellocchio scrive La Festa Nera, per edizioni Chiarelettere. Ed è tutto fuorché una festa. Ed è Nera, cazzo, questa storia, come la foresta in cui si aggirano i protagonisti sull’epilogo accompagnati dallo sciamano sciancato che dispensa pillole protettive e psicotrope; sonniferi e benzodiazepine sono gli ingredienti cruciali di qualsiasi rapporto con la realtà.
Ali, dove sei? Sono dentro un’immagine, rispondo. State tranquilli che la so gestire. Loro ridono. Avanti così.
Nera questa Festa, senza Luce. E allo stesso tempo piena di luce. Quella fredda azzurrata, emanata dagli smartphone dagli schermi. La luce delle immagini dietro quegli schermi. La finzione la rappresentazione una specie di F-abula rasa e poi l’immagine ha tutto il potere inizia così, lei che ha sempre scritto senza fingere. Racconta un mondo che (c’è là fuori non l’ha fatto Dio) ma sembra un orgasmo simulato da una brava cattiva ragazza. Perdida reina. E non è Meg Ryan/Sally che simula seduta alla tavola calda davanti a Harry.
Ma è una ragazza, la più sola che io abbia mai conosciuto.
Sei pronta? Sono nata per questa storia.
Lascia respirare le immagini. Rispetta lo spazio vuoto tra una parola e l’altra, perché tre secondi di silenzio, quando li metti su uno schermo. Possono portare molto lontano. Tieni la batteria carica. Tieni la testa alta. Non chiudere gli occhi davanti a niente. Nessuna vita è bella come sembra, nessuna vita è brutta come sembra: c’è una crepa in ogni singola cosa. Cercala, infilaci due dita e guarda la luce che entra. Segui quella luce fino a quando non senti di avere toccato il fondo.
E poi, noi di Casa di Ringhiera, non abbiamo potuto fare a meno di domandare qualcosa a Violetta Bellocchio. Su questa Festa, nera.
Hai voglia di parlarci di questa Fine del mondo, senza scoppi, che fa da scenario onnipresente al tuo romanzo? E del parallelismo con la Fine personale dei protagonisti?
La bellezza di avere un libro che bene o male sta funzionando sta nel fatto che questa “fine senza scoppi” viene percepita in maniera diversa a seconda di chi si mette dentro la storia. (Un critico ha parlato di “apocalisse soft”, mi è sembrato un altro buon modo di dirlo.) Quando ho cominciato a lavorare su quello che poi sarebbe diventato il frame portante del romanzo sapevo che mi sarei mossa su un orizzonte di futuro post-fine generale, in parte perché rientrava in una delle possibili direzioni del progetto della collana (Altrove), in parte perché volevo raccontare un mondo dove tutto quello che poteva andare storto ci è già andato. Non abbiamo avuto macro-eventi catastrofici ma una serie di incidenti che insieme hanno reso la vita impossibile ad alcune persone, in un contesto dove comunque guadagnarsi da vivere è difficile. Se il quadro generale fa schifo, alla maggioranza della gente salteranno i freni inibitori, si sentirà padrona di dire e fare cose orrende agli altri, oppure cercherà una via di fuga. Poi, per varie ragioni, la fine personale dei protagonisti – un crollo di reputazione con conseguenze materiali molto pesanti – mi serviva come benzina mentre scrivevo, ha reso la storia più urgente nel momento che dovevo portarmela addosso per i mesi necessari a una stesura e poi all’altra.
Sapevi quando hai cominciato a scrivere dove saresti arrivata? Sapevi del destino di Misha? O è una cosa che si è delineata più lentamente, scrivendo?
Bella domanda. Sapevo dove saremmo arrivati – il posto, i fatti, il finale; a cambiare drasticamente è stato il livello di intenzionalità da parte di Misha. (Niente spoiler.) Penso di averlo capito intorno alla metà del lavoro. A quel punto ho riscritto o aggiustato quello che avevo fatto prima in modo da ricalibrarlo meglio.
Quanta di questa Fine, che ritorna ciclica durante tutto il romanzo, ti appartiene? (Per essere riuscita a scriverne così egregiamente).
Non sono sicura di poter dire con certezza che senza un po’ di pulsione di morte non si produce nulla di creativo, perché il processo degli altri mi auguro sia più sano, entro gli ovvi limiti, ma nel mio caso specifico il materiale che ho scritto e che ha un valore nasce tutto da uno stato emotivo di “muoviti ora o taci per sempre e/o scavalca il prossimo davanzale”. (Ci sto ragionando sopra di più alla luce di una nonfiction che sto scrivendo adesso.) Nel caso specifico della Festa Nera, il libro è stato un lavoro a cui mi sono aggrappata con più forza perché avrebbe potuto serenamente essere l’ultimo mio, dopo un periodo di secca creativa raggelante e di gestione discutibile sul piano degli affari. Penso che si senta, per chi sa cosa e dove guardare. Avevo tutto da dimostrare e quasi niente di cui farmi forte. La fine la stavo vivendo, insomma. (Adesso sto meglio) : )
Il viaggio di questi eroi tragici inizia sulla statale 45. Tutto il loro viaggio si sviluppa in Val Trebbia. Come mai questa ambientazione?
Quello ce l’avevo in testa da subito. La mia famiglia paterna viene da lì, nel cuore della valle che la statale taglia, e da lì non si era quasi mai mossa fino a due generazioni fa, che non sono niente nell’arco della storia italiana. Al massimo si spostavano per arrivare fino a Piacenza, ed era comunque un viaggio eccezionale. Conosco la zona perché ci ho passato parecchio tempo e l’ho vista cambiare poco, fatta eccezione per il numero di case isolate che adesso sono o mi sembrano vuote. Immaginare una ripopolazione antropologica è stato un attimo. Tra parentesi, l’ultima volta che sono passata da quelle parti – poche settimane fa – c’era un mezzo raduno di forestieri in un palazzo di un centro abitato. Io stavo passeggiando per strada, incrocio un gruppo di persone molto apparecchiate in termini di vestiario – immagina un matrimonio in provincia – e diverse di loro avevano quel genere di occhio a spillo che alla gente viene solo quando partecipa a un seminario su come diventare ricchi senza lavorare o quando sta in un situazione piramidale dove c’è IL LEADER. Io ho tirato avanti pensando, con il massimo della calma, “ok, è una setta”. Alla fine quando se ne sono andati il paese ha cominciato a chiacchierare ed è venuto fuori che si trattava di una riunione di un’associazione che è stata più volte oggetto di indagini sul suo essere una presunta setta. Non ti dico di più altrimenti ci denunciano e preferirei di no. E questa è la ragione per cui è bene io scriva meno fiction possibile, poi diventa reale.
Tu sei una scrittrice di non-fiction, come ti sei trovata a dovere scrivere una storia dove la protagonista femminile racconta come testimone unica la storia di qualcun altro?
Avevo pensato a Misha – una versione ottimista di lei, almeno – un paio d’anni prima della Festa, ma non avevo trovato una storia forte da affidarle. È tornata qui, diversa. In base al genere di libri che avevo scritto prima, questo doveva per forza avere una prima persona narrante che fosse il più lontana possibile dalla mia realtà individuale e dal mondo reale per come lo posso aver navigato io fino a questo punto. E l’avere come punto d’ingresso nella storia un personaggio abituato per lavoro a farsi notare poco e stare in secondo piano mi sembrava che avrebbe creato energia tra quella voce/sguardo e la protagonista non ufficiale. (In più: Misha è sempre in primo piano, oppure è attraverso il suo punto di vista che si fa sentire; non poteva anche raccontarsi.) Se facciamo la fiction, facciamo la giga-fiction e scrolliamoci di dosso gli spunti autobiografici. (Ovviamente Misha ha finito per fare tre cose che faccio anch’io, come dormire con un piede fuori dalle coperte se è nervosa, ma quello per me è stato un piccolo scippo perdonabile. Credo).
Abbiamo trovato curioso il continuo sottolineare del termine “ragazza bianca”. Perché questo continuo reiterare “Ragazza Bianca”?
A me fa molto ridere il fatto che gli italiani si considerino parte della razza bianca quando non lo sono per niente: siamo un’etnia che ha dato emigranti a mezzo mondo e due passi oltre confine viene considerata nel migliore dei casi “marrone e casinista”, quando non naturalmente inferiore per ragioni estetiche e morali. Detto questo, mi sembra possibile (se non automatico, magari) che a un certo punto vengano tirate linee tra chi è “normale”, misto, scuro, e chi è bianco e quindi accusabile di avere troppo vantaggio economico, di ingenuità, di arroganza, di essere un privilegiato… Tenete conto che una delle persone a usare più spesso le parole “ragazza bianca” è una voce narrante che non è bianca ma ha un disinteresse apparente totale rispetto alla sua cultura di provenienza (qualunque sia, noi non lo sappiamo mai, a metà romanzo spunta un cognome ispanico, Sabio Garcia, che potrebbe essere centro-americano come filippino): lei stessa, che non ha problemi particolari con la razza, sente il bisogno di dire “ragazza bianca”, o di osservare in fretta che certe situazioni sono cose da bianchi, come altre volte parla di nobiltà per indicare minimi vantaggi economici.
La coincidenza tra “white girl” e uno dei mille modi di chiamare la cocaina è semi-casuale.
I dialoghi, spesso, rispecchiano un certo linguaggio da doppiaggio seriale d’oltreoceano, dialoghi da sceneggiatura cinematografica. Una scelta voluta, questa?
Voluta fino a un certo punto. In passato mi sono innervosita da lettore per certa narrativa italiana che mi suonava troppo appiattita sul formato del doppiaggio o della traduzione meccanica senza aver fatto il calco volontario. (Una bestia personale era la frase “ma che stai dicendo?”, come l’aggettivo “fottuto” messo a casaccio.) Stavolta, a parte tutto il resto (far andare la trama, il ritmo, i personaggi), avevo davanti un concretissimo punto di domanda: in un futuro molto vicino, la gente quando parla COME PARLA?
Io ho appiattito un po’ il linguaggio per far saltare di più le immagini, e ho cercato di lavorare sui margini di libertà che la scelta mi dava. (L’automatismo di certe frasi nelle varie sette, ad esempio, la maniera fin troppo sicura di dare risposte alle domande, e via; il fatto di avere un personaggio che ogni tanto punteggia le sue frasi di “mija”, “perdida reina” eccetera, e nemmeno lui sa perché.
Quanto è cambiata la tua scrittura per portare alla luce questa Festa Nera?
Credo poco. Ho sempre scritto così, ma per ragioni di scarso tempo o di eccessiva fiducia in me stessa (o di operazioni tenute aperte troppo tempo) non ho portato avanti uno stile netto con abbastanza consapevolezza. È buffo che per prendere o riprendere la mano sia dovuto arrivare IL GENERE, eppure eccoci qua. Si vede che doveva succedere : )
Quanto è necessario guardare i protagonisti di questa storia per potersi perdere in questa storia, dove gli sguardi e l’immagine la fanno da padroni?
Ho appena visto “Funeralopolis”, un documentario italiano di cui avevo sentito parlare bene, però molto nei termini del contenuto forte e della crudezza della storia raccontata (eroina a Milano e dintorni). I primi venti minuti li ho passati chiedendomi come diavolo abbia fatto il regista a convincere tante persone in evidente disagio a lasciarsi filmare così tanto e per così tanto tempo. Poi, appena ho detto “ok, stacci”, ho cominciato a entrare nel mondo del film, e dopo mezz’ora nemmeno mettevo in discussione cose tipo “perché stai facendo questa inquadratura e non quell’altra?”. Non saprei dire se nel libro mio scatta lo stesso meccanismo, ma dovrebbe. A un certo punto, anche se la gente ragiona in termini di immagini, e diverse persone sanno di essere sempre in scena, dovrebbe scattare il clic per cui “è tutto vero” e ti lasci trasportare dall’esperienza. Spero.
Perché hai raccontato questa storia mediante queste “psicosette”? Mediante questi livelli intermedi di dolore?
In realtà era l’idea originale. Futuro = atomizzazione estrema dell’esperienza umana più tendenza a ritrovarsi in gruppetti basati su qualche tratto in comune = sette a perdita d’occhio. Il livello di difficoltà me lo sono creato da sola nel momento in cui sentivo anch’io il bisogno di avere “roba forte” in primo piano.
Hai voglia di dirci quali film menzioni e a quali ti sei ispirata per scrivere?
Non tanto. Un po’ perché sono stanca del citazionismo come chiave spilla-soldi ai poveracci della mia età (41) e soprattutto perché due o tre cose le ho infilate qui e lì quando servivano a me per tirare avanti (o ai personaggi, che si conoscono da un sacco di tempo, per darsi di gomito in base a visioni passate comuni). Però, trivia: durante la scena sul tetto il film proiettato è “Capturing the Friedmans”, il documentario più snervante che ricordo di aver visto in sala. Altro che found footage dell’orrore, tuttora non so mai se consigliarlo alle persone.
Ci sono momenti del tuo romanzo intrisi di musica. Vuoi lasciarci una colonna sonora?
Un’idea migliore sarebbe recuperare io una connessione stabile e fare finalmente una playlist pubblica su Spotify. Ci provo appena esco dalle stanze d’albergo. A me piace molto il bruttissimo hip hop mainstream degli anni Zero e adesso mi sto abituando all’idea che stiano tornando alla ribalta musicisti commerciali con qualcosa da dire oltre alla produzione furba. Quindi, visto che Tidal mi chiede la carta di credito con insistenza eccessiva, potete spulciare il profilo Spotify di The Weeknd e divertirvi a esplorare la sezione “ai fan piace anche…”. Altrimenti esiste sempre “Haunted When The Minutes Drag”, una canzone lunga otto minuti dei Love & Rockets. Siete liberi di leggervi tutto con quel singolo pezzo in repeat. (Sono seria.)
La nostra inquadratura preferita è quando Misha entra nella piscina insieme ai bambini. Possiamo chiederti qual è la tua?
Mi piace pensare che ci sia una piccola GoPro montata sul vetro dell’automobile, sistemata lì per filmare, senza interruzioni, quanto succede all’interno dell’abitacolo. Vorrei vedere dieci secondi di Nicola e Ali seduti davanti in silenzio, poi Nicola che chiede, “ce l’abbiamo la fidanzata?”.
Hai uno stralcio del tuo romanzo alla quale sei più affezionata?
In questo momento credo che nella parte centrale (quella che fa soffrire la gente) avrei dovuto spingere molto di più il pedale. Ho detto tutto. Sto pensando al fatto che c’è un potenziale sub-plot idiota su un falso viaggio nel tempo e sul poveraccio che ci ha creduto veramente, e che quella trama esista solo in un accenno di “ecco le cose di cui non parliamo più”. Quasi quasi ci scrivo un racconto.
La Festa Nera. Perché questo titolo?
È la traduzione letterale di “black celebration”, il titolo di un album dei Depeche Mode che avevo ascoltato a lungo durante un progetto precedente a questo che non ha avuto una gestazione o un esito ideale, non per me, almeno. Forse era il mio modo di aggiustare il tiro. Però mi piacciono molto i titoli su cui le persone proiettano quello che desiderano loro, e mi piacciono i B-movie scritti e girati con l’energia di chi lavora in fretta, con pochi mezzi. Quindi – sì, ci siamo.
La Festa Nera – di Violetta Bellocchio – Ed. Chiarelettere