Quando di un posto non puoi farne a meno, e sei costretto ad essere a diecimila chilometri di distanza, scegli tutti i mezzi possibili per adorarlo, per celebrarlo e appropriarti di quel poco che basta a farti sentire poco più vicino del solito. Negli USA non ci ho mai messo piede, e credo che non ce lo metterò nemmeno in un futuro prossimo — a meno che non trovi per strada una valigia che stracolma di soldi.
Questa mia fissa, o necessità di sentirmi partecipe di una cultura che non smette di influenzare le menti in lungo e in largo, è scaturita da anni di letture, di film visti in una cantina adibita a ritrovo per ogni tipo di persona passasse dalle quelle parti, nonché rifugio per sere gelate e pomeriggi assolati che si scagliano contro una saracinesca di metallo, rendendola rovente quasi quanto l’acciaio dell’Ilva di Taranto. A questi fattori si aggiunge la musica dei bassifondi newyorkesi, delle spiagge californiane e dei boschi degli stati del nord. Infine, in questi viaggi da fermo che conduco ogni momento della mia giornata, mi ritrovo ad ammirare la fotografia che proviene da quel l’angolo di mondo. Indago un rapporto, quello tra me e la fotografia, che come il più classico dei rapporti si fonda sul binomio amore e odio, un odio nato più da un’impossibilità che da una vera disputa ideologica.
Una fotografia che racconta storie, esistenze e casualità che attraggono continuamente la mia attenzione. L’America regina dei non luoghi per eccezione, madre di un’industria spietata e di campi immensi dove si coltivano i cereali, gli stessi che verranno utilizzati per alimentare un altro mito americano, ovvero la fatidica birra, la bevanda più consumata nel paese dopo l’acqua. È questa capacità di raccontare che amo della fotografia. Basta un’istante per ritrarre una realtà non solo cinematografica, come siamo stati abituati dalle grosse campagne pubblicitarie, ma che si dilegua per le periferie di un paese che resiste al disagio a cui egli stesso ha dato vita. Un paradosso che possiamo riscontrare in ogni luogo che si rispetti, marcando un dislivello talmente grande da passare inosservato, creatura di un costoso assecondare che sfonda gli strati sociali lasciandoli marcire nella loro stessa melma composta di problemi mai risolti.
Abbiamo bisogno di queste narrazioni? Certo che sì, e la fotografia — non solo quella da reportage — riesce nelle sue intenzioni. American Power (2015), lavoro del fotografo statunitense Mitch Epstein, è un esempio che avvalora la tesi della commistione di stili che permette alla fotografia di raccontare una realtà diversa dal solito, magari sottovalutata o del tutto dimenticata per via della disattenzione di un’intera nazione.
American Power è un progetto che ha avuto come protagonista la produzione di energia elettrica negli USA, e tutti gli impianti necessari alla produzione siano stati inseriti e tutelati all’interno del paesaggio americano, quello dei set western e delle metropolitane fumose. Centrali nucleari dietro il cortile di casa che si affacciano sugli spazi urbani dove sorgono campetti da basket, sullo sfondo degli spalti di un campo da football nel pieno allenamento della squadra dell’università statale. Sembrano carcasse ingombranti che hanno cessato di vivere anni fa, eppure sono nel pieno della loro produzione. I vapori tossici si alzano al cielo, contaminando l’atmosfera pronta a restituire il maltolto alle aziende durante la prossima pioggia. Gli USA sono tra i maggiori produttori di energia elettrica, essendo presente ai primi posti delle classifiche che vengono passate dalle agenzie ambientaliste. Nei libri, nei film e nelle serie TV abbiamo avuto la dimostrazione di questo dato. Gli uomini di potere e i mercati vertiginosi descritti da Don DeLillo, il cinema impegnato di Gus Van Sant e gli impianti ampiamente ripresi dalle serie TV di Nic Pizzolatto.
In American Power non c’è solo disastro climatico e usurpazione del territorio. Le energie rinnovabili, le pale eoliche montate poco lontane da una zona residenziale quasi da copertina di un magazine che tratta esclusivamente delle tendenze del mercato immobiliare. Le stazioni di servizio e le dighe sature d’acqua si aggiungono al resto degli scenari che irrompono nel nostro immaginario. Il lavoro di Mitch Epstein, e in particolare tutta la sua opera realizzata nel corso degli anni — vedi New York Arbor e The City –, è un mezzo attraverso cui raccontare i retroscena di una di un film che ha come protagonista il popolo americano coinvolto in un coacervo di lotte di classe e corse alla realizzazione dei propri sogni nel cassetto. È un’America messa a nudo, che cerca di sopravvivere reagendo a muso duro fino a trascinarsi verso la salvezza
Century Wind Project, Blairsburg, Iowa 2008
Quando osservo tutto questo enorme calderone di opere che contrassegnano il paese che vorrei tanto vivere per un po’ sulla mia pelle, rimango avvolto da braccia che stringono la mia mente accanto al corpo composto dai miei desideri irrealizzati, desideri che non rimarranno affatto tali. Mi circondo di questo per nutrire il fascino di una realtà che da sempre mi appassiona, fin da quei giorni passati rinchiuso in una cantina al riparo dal caldo o dalla pioggia, a seconda dei mesi.
In copertina: BP Carson Refinery, California 2007