Leila Bahlouri è nata a Roma ma ha origini persiane. Il padre è di Mashhad, città del nord al confine con l’Afghanistan, dove di tanto in tanto va a trascorrere il tempo in famiglia, o si muove in esplorazione per il paese. Dice di conservare poco di quella cultura nel quotidiano, sebbene la sua anima sia poco italiana e la poesia iraniana influenzi la sua scrittura. Vive un senso di alienazione costante.
Ho scavalcato per perdermi
Oltre il giardino,
Ma non c’è niente da prendere
Solo un respiro.
Ciao Leila, è un piacere intervistarti. Quando è iniziato il tuo percorso?
Ciao Ilaria, innanzitutto grazie. Il mio percorso è iniziato nel 2016, quando con Federico Leo ho iniziato a scrivere e suonare brani in italiano. Li abbiamo poi pubblicati, messo su una band e partiti per un tour di due anni.
Parlaci del nuovo singolo Blu: com’è nato? Come lo descriveresti in tre parole?
Blu è il primo di una raccolta di brani dedicati alla natura: i suoni del bosco, la lentezza nel fare le cose, i ritmi naturali del sonno. E’ nato in una cascina in aperta campagna dove è stato anche prodotto in una sessione a dir poco mistica a sei mani con Federico e Dario Tatoli (Makai). Era in un cassetto dal 2017 ma abbiamo deciso di farlo uscire durante la quarantena perché ci sembrava il momento perfetto per evidenziare l’importanza di un contatto con se stessi e con il pianeta che stiamo stressando con sistemi di distruzione più o meno sotto gli occhi di tutti. Tre parole: lento, malinconico, cantabile.
I tuoi brani sono autobiografici? Quanto mondo esterno entra in essi e qual è l’urgenza più grande che hai quando inizia a scrivere?
Non saprei, a volte sono solo visioni che mi attraversano. Sono le mie? Sono quelle di altri? L’urgenza primordiale è nel rapporto col suono: essenzialmente mi piace appoggiare l’orecchio sulla chitarra e suonare senza meta per ore.
Chi sono i musicisti a cui vi ispirate?
Sufjan Stevens, Bon Iver, Ryx, Daughter, Sigur Ròs, Mùm, Burial, James Blake, Jamiexx, Joni Mitchell rappresentano i nostri riferimenti, ma nonostante le influenze anglofone la sfida più grande per me è scrivere in italiano.
Con chi avete collaborato finora?
Scrivo sempre chitarra e voce e poi arrangio e suono con Federico. Di base siamo in due ma ci sono amici che abbiamo coinvolto nel tempo: Carmine Iuvone (violoncello / basso per Tosca e Motta) e Simone Memé (artista visivo), con i quali non escludiamo di continuare a fare cose.
Cos’è cambiato dal primo EP Leila a questo singolo? Si sentono sonorità diverse e una svolta verso un’elettronica “dreaming” e sospesa.
Il mio primo EP più che un punto di arrivo è un lavoro acerbo. Però ci ha dato la possibilità di iniziare a cercare una identità, ammetto di sentirmi fortunata per questo privilegio. Con Blu abbiamo sicuramente messo a fuoco l’estetica e l’idea di suono che vogliamo, così come le persone con cui ci interessa collaborare o il contesto di riferimento: abbiamo capito che siamo fatti per l’audiovisivo, che amiamo la musica per immagini e che ci piacerebbe collaborare ancora di più di quanto già non facciamo col mondo della fotografia, del cinema, dell’arte, della moda.
Due parole sulla collaborazione con Paolo Barretta?
Paolo Barretta incarna l’inverno, quando ci siamo sentiti telefonicamente ci siamo subito trovati sull’amore per i paesaggi islandesi: noi li tramutiamo in suono e lui in immagine. L’approccio onirico delle sue opere così come il gusto delle sue palettes rappresentano bene la nostra elettronica gelida e i nostri testi malinconici.
Come si rispecchia Blu in queste immagini?
I soggetti di Paolo sono spesso statici, anche la lentezza di Blu in qualche modo spinge verso quella stasi. Abbiamo scattato tra Roma e Torvaianica, era estate, Federico ed io indossavamo due felpe con il cappuccio e faceva caldissimo, altro che “winter”.
Com’è la scena musicale a Roma? È un terreno fertile per il vostro progetto e la musica in generale?
La scena romana è variopinta e si distingue sia per numero di artisti che di luoghi in cui la musica si fruisce o si crea, quindi direi che sì, Roma rappresenta un terreno abbastanza fertile. Noi ne rappresentiamo una micro cellula: oltre ad aver fatto 80 concerti, abbiamo uno studio di produzione che si chiama “Corrente”, nel quartiere Pigneto, in cui collaboriamo con vari artisti indipendenti. Siamo connessi anche a diverse realtà sparse per tutto il territorio italiano. Tra queste ci piace citare i pugliesi Mat di Terlizzi, laboratorio urbano di musica, arte, teatro, intercultura, cinema e club con una programmazione di respiro internazionale; e il Sudestudio di Guagnano, luogo storico e quasi leggendario per la musica alternativa in Italia: ci sono passati in maniere diverse Matilde Davoli, Populous, Beirut, Indian Wells, Erlend Øye., Jolly Mare, per fare qualche nome.
Dove avete suonato finora? Qual è la gig che ricordate con più emozione e perché?
In Italia credo ci manchi solo la Valle D’Aosta, per il resto siamo passati ovunque. In tour sono nate amicizie, amori per luoghi e realtà, come quella di Indiegeno Festival in Sicilia, dove abbiamo fatto il concerto che ricordiamo con più piacere, con lo sfondo del mare.
Prossimi progetti in mente?
Faremo uscire gli altri brani prodotti insieme a Blu, che come dicevo sono in un cassetto dal 2017. Con questo progetto abbiamo deciso di non seguire i ritmi frenetici del mercato musicale attuale, faremo ogni passo quando sentiremo che sarà il momento giusto, senza fare troppi programmi, e accogliendo quello che arriverà.