Per una quantità di motivi, certamente non ultimo quello che sono un uomo di lettere, non amo la vita pubblica. Intanto, non mi piace il potere, né piccolo né grande, almeno per me, il gioco non vale la candela. E poi, l’artista, per sua natura, non è fatto per fare politica. L’arte, anche quella dell’artista più modesto, vuole la ricerca dell’assoluto: la politica, anche quella dell’uomo politico di genio, la ricerca del possibile, del relativo, del contingente. Dagli uomini politici che cercano l’assoluto, bisogna guardarsi: Hitler cercava l’assoluto, Stalin cercava l’assoluto.
Parto da questa citazione di Moravia, presente ne L’inverno nucleare (Bompiani, 2000), ampia raccolta di saggi, interviste e articoli riguardanti le armi nucleari, e portata avanti tra il 1982 e il 1985. La sezione precisa in cui ho ritrovato, sottolineato ed apprezzato questo pensiero è qualcosa di per se originale: un’intervista che il Moravia scrittore rivolge al Moravia candidato al Parlamento Europeo. Null’altro che un guardarsi allo specchio e il riconoscere i motivi della sua ossessione per il nucleare, che lo spingono a candidarsi come rappresentante indipendente nelle liste del PCI.
È curioso osservare dalla citazione come lo scrittore si distacchi dall’etichetta di politico semplicemente definendosi un ricercatore dell’assoluto. Ancor più interessante il contrasto che pone tra l’uomo che si definisce artista e il politico, che per natura è portato a perseguire fini più pragmatici. Un politico che va in cerca di assoluto è un uomo pericoloso, Moravia ascrive due esempi molto significativi di questo genere di uomo: Hitler e Stalin.
Chiaramente non è il caso di trattare l’abominio dei regimi dittatoriali del secolo scorso. Ma è almeno necessario assentire al pensiero dello scrittore. Applicare, sebbene inconsciamente, la follia e l’assoluto all’arte è un aspetto necessario al processo creativo. D’altronde lo affermava anche il padre della psicoanalisi che la follia è quanto ci sia di più vicino all’espressione artistica. Al contrario risulta davvero difficile affidarsi a un politico che sia alla ricerca della follia mentre porta avanti un compito così complesso come la gestione di un paese.
Con la candidatura europea Moravia non aveva intenzione di intraprendere una scalata al potere e possiamo comprendere il motivo per cui una tale responsabilità, come dice egli stesso, “non vale la candela”. Quello dello scrittore era invece un tentativo di scuotere l’Europa dal torpore filo-americano che caratterizzava, e caratterizza tuttora, il nostro continente. In breve, Moravia cercava di portare al ragionamento chi annuiva, senza porsi problemi, alla scelta del nucleare. Non avrebbe potuto essere altrimenti per un uomo di lettere che si definiva tutt’altro che misantropo.
È interessante un aneddoto che Moravia racconta riguardo un suo amico che, mentre lo portava a una gita improvvisata a Stonehenge, rivela tutta la sua follia premendo il piede sull’acceleratore della sua macchina perché sua moglie lo ha lasciato. Altrettanto mirata la risposta dello scrittore: “Ma mia moglie non mi ha lasciato!”. Oltrepassando la semplicità e l’immediatezza del racconto, caratteristiche che accomunano tutta l’opera di Moravia, ci troviamo di fronte all’esatta analogia con la decisione dell’uso del nucleare. Chi ha optato per questa scelta? I governi americani e russi. E la gente che ha votato per loro avrebbe mai acconsentito? Se tua moglie ti lascia non cercare di ammazzare il passeggero sulla tua auto, trovati un’altra donna. Leggendo tra le righe: trova una soluzione che non preveda l’omicidio di tutta la tua specie.
Insomma, Moravia in quanto artista è alla ricerca dell’assoluto e non si pone affatto l’interrogativo se le armi nucleari siano giuste o sbagliate. Lui è consapevole da principio che si tratti di una scelta prettamente deleteria. Eppure come si può arrivare a rendere cosciente chi ha invece ritenuto giusto ed essenziale un tale gesto?
Un modo ci sarebbe. Moravia suggerisce di adottare un’usanza tradizionale giapponese, il cosiddetto “iubikiri”. Si tratta di una parola composta da “iubi”, che vuol dire dito e “kiri”, che invece proviene da “harakiri”, il suicidio rituale giapponese. Il gesto è quello di tagliarsi un dito e gettarlo in faccia a qualcuno che si rifiuta di fare qualcosa. Una volta tagliato il dito e lanciato alla persona in questione, quest’ultima non può più sottrarsi dall’obbligo. Moravia suggerisce di “tagliarci un dito e lanciarlo in direzione della Casa Bianca e del Kremlino, per creare l’obbligazione del disarmo”. C’è un però, come in ogni questione internazionale che si rispetti: “Reagan e Gorbaciov non sono giapponesi!”