Marina Abramović, The Cleaner – un’ambiziosa retrospettiva

Affinché di questa mostra ci rimanga non il fallace ricordo di una tela spaccata in testa all’artista, ma qualcosa di più. Probabilmente il gesto di Vaclav Pisvejc è molto più in linea al modus operandi dell’arte contemporanea di quanto si pensi. È un gesto antiaccademico, quasi di stampo dada, che ricorda in questo senso le vecchie avanguardie intenzionate a rovesciare un sistema, a svecchiare modelli ritenuti inefficaci, a reagire all’indifferenza di un mondo orientato su questioni “altre”, per cui l’arte veniva progressivamente radicata a un problema di importanza minore. L’arte, tuttavia, è riuscita nel tempo a ribellarsi contro certi modelli, costruendo a quei modelli, che riteneva mediocri, dei contraltari validi. Il sistema artistico è stato in grado di distaccarsi da una tradizione, creandone un’altra, edificando, non distruggendo.

casa di ringhiera - Marina Abramović, The Cleaner – un’ambiziosa retrospettiva

I gesti della Abramović, con o senza il compagno Ulay, sono stati sempre antiaccademici, rivoluzionari, stupefacenti. L’imprevisto che si insinua nelle nostre vite, la casualità che prende parte all’ordine delle cose, la partecipazione attiva di chi guarda che diventa un pedone spaesato che va a finire, non si sa come, sulla rotta radiale, a fiore qualcuno direbbe, della regina. L’arte contemporanea è così: si muove seguendo rotte ampie, più o meno manifeste, dai confini aperti. I lavori della Abramović da tale punto di vista sono intrisi di contemporaneità, ne sono pregni, strabordano di istanze che dialogano con il tempo e il mondo in cui si insinuano e del quale intendono non solo raccontare qualcosa, ma soprattutto acquisirne dei caratteri, certi elementi. Si tratta di un sistema artistico in cui il corpo dell’artista stesso si fa arte, divenendo funzionale all’opera alla stregua di materia inanimata come tela, marmo, bronzo, legno. Il corpo è veicolo di messaggi, testimone delle nostre fragilità, il corpo viene adulato, desiderato, colpito, cancellato, dimenticato.

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Imponderabilia, 1977 – Marina Abramović e Ulay

Sembra ancora attuale, quel 2 giugno del 1977, quando alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, la Abramović e Ulay mettevano in scena Imponderabilia, performance che vedeva i due artisti totalmente nudi e stanti, sotto la porta di accesso del museo. Chi entrava era costretto a transitare necessariamente tra i due corpi, a sfiorarli, a prenderne atto, a considerarli come tali e doveva scegliere, essendo il passaggio molto stretto, da che lato rivolgersi, se verso l’uno o l’altra. Da quell’evento del 1977 – in cui l’artista e la sua presenza si imponevano con prepotenza – ad oggi, sono passati oltre quarant’anni, ma la Abramović non ha smesso mai di stupire, provocare, e neanche di rischiare la vita. Un quadro in testa è una carezza in confronto a quando nel 1974 alla Galleria Studio Morra di Napoli, con Rhythm 0, le hanno puntato una pistola contro.

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Balkan Baroque, 1997 – Marina Abramović

Da non dimenticare Balkan Baroque, del 1997 (che le valse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia) performance di denuncia contro gli orrori della guerra dei Balcani, in cui l’artista è alle prese con carne e sangue, elementi rappresentativi dei morti ammazzati in un conflitto tanto violento quanto inutile. Più malinconici i lavori degli anni duemila, in parte spogliati della componente di denuncia sociale e della volontà di portare alle estreme conseguenze il corpo come strumento del fatto artistico. Si ricorda The Artist is Present, performance tenutasi nel 2010 al MoMA di New York: qui la Abramović era sostanzialmente seduta su una sedia con un tavolo davanti e, dall’altro capo del tavolo, c’era un’altra sedia a disposizione di chiunque volesse incontrarla. Lo spettatore si sedeva, osservava l’artista, magari sorrideva. Lei restava immobile, come sempre, e osservava a sua volta. Un giorno però, è arrivato Ulay. Loro due non si vedevano da quando nel lontano 1988 con The Lovers si erano separati dopo dodici anni insieme, al centro della Grande Muraglia cinese. Dopo essere partiti ognuno da un’opposta estremità, la Abramović da quella orientale, chiamata “Testa del Dragone”, Ulay dalla provincia occidentale del Gansu, e a seguito di novanta giorni di cammino, i due si sono incontrati a mezza strada e lasciati, in teoria per sempre. Ventidue anni dopo è successo che in quella stanza piuttosto luminosa e affollata della 53ª strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue di Midtown, lui si è seduto, si sono guardati, hanno sorriso, pianto, si sono stretti le mani per un po’. E alla fine lui è andato via.

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© 2010 Scott Rudd – The Artist is Present, 2010

Tra il 21 settembre 2018 e il 20 gennaio 2019 a Palazzo Strozzi di Firenze sarà possibile confrontarsi con questo ed altro. Nella grande retrospettiva – curata da Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, e Susanne Kleine, Bundeskunsthalle Bonn – dedicata all’artista serba verranno mostrati, in un centinaio di opere e attraverso fotografie, video, dipinti, oggetti, installazioni e riesecuzione dal vivo di celebri performance, i lavori più importanti realizzati tra gli anni Sessanta e i Duemila da colei che ama definirsi la “Grandmother of performance art”.

Allora, ci si chiede, che cosa ci resta addosso, di questa mostra. Sicuramente resta l’idea di quanto possiamo fare con i nostri corpi, di quanto il corpo non è semplicemente un corpo inteso come un insieme funzionante (si spera) e ben architettato di ossa, muscoli, organi, cellule, cartilagini, sangue e pelle. Il corpo è qualcosa di più, è congegno per costruire storie, più o meno pericolose, più o meno belle, violente, nostalgiche, dolci, ambiziose. È il luogo della messa in scena del sé, mezzo per veicolare idee, valori, principi morali. È strumento di lotta, resistenza, tempio di sentimenti tragici e pacifici. È un iceberg del quale i più riescono a vedere solo la punta; luogo che fa da tramite tra le nostre identità e il mondo, un mondo che incessantemente invecchia, muore e rinasce, che costantemente si rinnova e nello stesso tempo segue la propria rotta verso una qualche fine.

__Scrive Paul Auster in Diario d’inverno: «Quando sei perso, guardati intorno. Dubita di tutto e cancellalo. Hai una sola certezza: tu sei lì. Lo sei perché c’è il tuo corpo e tu sei il tuo corpo. Il tuo corpo è lo spazio che hai attraversato, ma anche il tempo che ti ha reso ciò che sei».__

© Iole Cianciosi