In Sons Of Anarchy ho scoperto un microcosmo che contiene tutto quello di cui siamo fatti. Dai rapporti umani sino alle caratteristiche individuali che ci abitano, facendo una lunga sosta in quello che potremmo definire come lo stereotipo del fuori legge americano, proveniente direttamente dagli scenari western composti da coloro che assalivano i convogli ferroviari nel pieno del deserto rovente.
Quando ho visto le sei stagioni disponibili su Netflix — la settima ed ultima stagione è ancora fuori dalla lista, vi consiglio di trovare altre fonti streaming — sono stato subito colpito dal fatto che ai miei occhi si ripresentava l’immagine di qualcosa che avevo rimandato tempo prima per i giorni migliori. Naturalmente, dopo essere rimasto a bocca asciutta con l’ultima puntata di Narcos, qualcosa me la dovevo pur inventare. Quello che offre Netflix in Italia è imbarazzante rispetto a quello che è presente nel catalogo statunitense, ma la cosa non ha destato le mie intenzioni nella ricerca della Serie Tv che avrebbe portato in auge la mia vena di binge watcher. Tra una cosa e l’altra, davanti alla proposta di cimentarmi in questa odissea californiana, mi sono detto: «è arrivato il momento giusto, Sons Of Anarchy fatti sotto».
L’episodio pilota ha fatto il suo dovere, catturando la mia attenzione di classico diffidente ormai pronto a qualsiasi sorpresa. Tutto ha inizio a Charming, cittadina immaginaria creata ad hoc da Kurt Sutter. Quella della serie trasmessa dal canale americano FX è la storia dei SAMCRO (Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original), banda di motociclisti invischiata in loschi affari che scorrazza per gran parte della California. Insomma, tutto da copione. Alla guida del club c’è Clay Morrow, personaggio interpretato da Ron Perlman, affiancato dal suo vice/figliastro Jax Teller, interpretato da Charlie Hunnam.
Quello che sembra un gruppo di uomini determinati dalla loro stessa ferocia, imbevuti di quella buona dose di fallocentrismo d’altri tempi, soccombe ai dettami di una donna, e della sua potenza, che tutto gestisce — anche laddove non appare evidente la sua mano di abile manipolatrice. Il ruolo di Gemma Teller Morrow, interpretata da Katey Sagal — moglie rocker dello stesso Sutter — è più di quanto si avvicina alla definizione di matriarca. Una donna, da quello che emerge durante tutta la serie, che sembra sottostare al volere del marito, ma che non smette mai di agire secondo le proprie necessità pur di tenere al riparo il suo amore smodato per la famiglia. Per il resto dei personaggi è la madre che non hanno mai avuto, la mamma dell’intero club — fu il suo primo marito John Teller a fondare il Sons Of Anarchy.
Ogni stagione segue i suoi percorsi magistralmente orchestrati da Kurt Sutter e il suo gruppo di sceneggiatori. Sono gli stessi percorsi che, una volta conclusi, consentono la nascita di nuovi, ripresentandosi poi nei momenti meno opportuni. Per le strade di Charming scorre il sangue degli omicidi, delle vendette e dei colpi di scena. Tutto avviene mentre i motori delle Harley Davidson sussultano come solo il cuore dei personaggi riesce a battere. Il rombo è il sottofondo a cui è difficile porre rimedio.
Quella di Sons Of Anarchy è una serie che si spinge oltre la linea contrassegnata dai limiti che la finzione e la realtà riescono ad edificare. Indaga le dinamiche di gruppo, mostra come gli uomini si ritrovano a coalizzarsi e ad appartenere ai colori rispecchiati in uno stemma che varrà più di ogni altra cosa. Jax, il protagonista indiscusso, si fa portatore del macigno raffigurato da un club che non è più capace di tornare alle origini che successivamente gli consentiranno di prendere la retta via descritta da suo padre nel manoscritto lasciato tra le scartoffie di una vita. È lo stesso Jax che compie tutti gli sforzi impensabili pur di sistemare il percorso di quello in cui tutti i sons credono, e per farlo si ritroverà costretto a sfruttare la solubilità di cui è composto il sangue. Tutto è tenuto in vita dal sangue, così come lo è il corpo umano lo è anche il Motorcycle Club di Charming.
Il microcosmo di cui vi parlavo all’inizio è servito su un piatto d’argento: il concetto arcaico di famiglia, il rispetto nei rapporti umani, le discriminazioni razziali, la scarsa emancipazione della donna — che Tara, seconda moglie di Jax, pagherà con la vita –, la vita da fuori legge condotta dai membri del club e tutte le vicende ad esso interne — dall’affiliazione sino alla crudeltà dei metodi di espulsione dal gruppo. Il concetto classico di nucleo famigliare viene contrapposto a quello di famiglia allargata, che vede gli stessi membri coinvolti una volta entrati a far parte del club. Tra di loro si crea un legame viscerale che segna la nascita di una fratellanza assoluta che non lascia spazio al perdono.
Il perdono è un concetto che poco ha a che fare con Sons Of Anarchy. Lì dove viene a mancare la parola, il principio su cui si base l’intero rapporto fondato sul rispetto tra i vari membri, assistiamo al crollo definitivo di un legame saldato sopra un’ottima base che a tutto resiste, ma non al tradimento. Ad invocare il perdono siamo esclusivamente noi spettatori per via delle sorti che di lì a poco toccheranno al fratello di turno. Nell’errore si affaccia poderosa una grossa forma di coscienza che guida il traditore verso l’accettazione della punizione, diffondendo — per quel poco che ormai gli resta — valore alla sua stessa immagine di guerriero.
Guardando tutta la serie, stagione dopo stagione, mi sono reso conto di avere sotto i miei occhi qualcosa che porta dritto il nostro interesse alla natura che avvolge ogni essere umano, indipendentemente dal genere. Scindendo il microcosmo di Sons Of Anarchy si riesce ad intravedere l’intera storia umana, quella che va dalle prime forme di homo fino ad oggi. Sono bastate le vicende di un club di motociclisti — tra l’altro inventato di sana pianta da Kurt Sutter — a portare la nostra attenzione su quello che siamo e su quanto ancora c’è da fare. Come può una Serie Tv impersonare l’intero mondo che abitiamo nel giro di sette stagioni composte in media da tredici episodi l’una e che hanno una durata tra i 45 e i 90 minuti? La stessa obiezione potrebbe valere davanti ad un libro, ad un film, ad un brano musicale, ad una fotografia, ad un dipinto. Quello che emerge, a conclusione di tutti i 92 episodi, è la forza che compete ad una Serie Tv come questa di divenire trasmittente di una piccola fetta di realtà — quella americana — che poco conosciamo, e che si diverte ad andare in giro per lo stato della California a stringere accordi, alleanze e a concludere affari per il sostentamento dell’intero SAMCRO.
Lo scopo di Jax è quello di portare il club oltre i confini dell’illecito, lasciando una volta per tutte il traffico di armi in cambio di una nuova fonte di guadagno — ad esempio la casa di produzione di film hard, o l’agenzia di escort –, eliminando una volta per tutte le diatribe con le bande rivali, la polizia, lo sceriffo e i federali. Mettere fine alle vicende legate alla criminalità che minaccia le loro vite, le vite dei propri cari e le sorti di un’intera città. Un volere che nel corso degli episodi si trasforma in un sogno, metafora ormai di qualcosa che sembra irraggiungibile ma che si realizzerà nelle ultime battute.
L’abilità di Kurt Sutter nel creare questo contenitore è stata elevata. Una storia avvincente che ha stregato milioni di spettatori oltre oceano, ma che da noi è rimasta incatenata alla grossa zattera affollata da tutto quello che resta in secondo piano — eravamo tutti concentrati sulle sorti di Walter White, mica poco. L’interpretazione di ogni singolo attore ha reso gli stravolgimenti, le perdite delle mogli, dei fratelli e degli amici uniche e incredibili. Se una Serie Tv è buona ti prende, se è ottima ti cattura senza nemmeno darti il tempo di capire quello che sta succedendo. Ecco, con Sons Of Anarchy mi è successo questo: sono stato catturato, scaraventato in una realtà cruda e secca come solo lo è il deserto californiano, fino a rimanere con quell’amaro in bocca che ti trasmette un degno 92esimo episodio, nonché finale di serie. Con un accenno di sorriso mi sono detto «ok, è finita», lasciando Charming, Jax e tutto il resto. Il fascino di quell’America mi ha segnato proprio come è riuscito a fare quello per la Louisiana della prima stagione di True Detective. Un’ottima Serie Tv, oltre a catturarti, diviene il veicolo ideale per narrarti la vita che si svolge altrove. Trovarla è una fortuna, rimandarla è un errore.