Ho alzato gli occhi verso i terrazzini impilati sulla facciata del palazzo che ingloba il supermercato. Al primo piano, dove il sole batteva senza pietà, c’era questa ragazza abbarbicata su una sedia di legno.
Aveva le ginocchia, più che incrociate, articolatamente incastrate tra loro, la testa piegata sullo schienale e un braccio che penzolava, trasmettendo un imbattibile senso di organica desolazione, come se, dopo aver portato fuori i quaderni e i libri, animata da un sincero spirito combattivo, avesse smesso di chiedersi il perché delle cose, a partire dalla sua stessa posizione innaturale.
Indossava una felpa con stampe di orsetti che le lasciava scoperta la pancia e, a un tratto, qualcosa deve averla convinta a rientrare in casa, perché ha risolutamente afferrato tutto, libri e quaderni, ed è scomparsa dietro la tapparella alzata a metà.
A quel punto, dopo un’ora di fila – una fila da me inizialmente interpretata in maniera ingannevole come affrontabile – avevo finalmente conquistato la prima posizione, di fronte alle porte scorrevoli del supermercato.
Un magazziniere è uscito e mi ha fatto un cenno di saluto con la testa, poi si è acceso una sigaretta. La sua espressione è cambiata all’improvviso.
“Non ci credo”, ha detto guardandomi. “Si è accesa di lato”.
“Questo è un brutto segno”, gli ho risposto.