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IL SUONO DELLA SOLITUDINE di Michele Marziani

IL SUONO DELLA SOLITUDINE di Michele Marziani

[Una recensione in forma di lettera]

“Da tutta la vita cerchi un sorso d’acqua pulita, un raggio di sole. Anche dov’è buio. Finora l’hai trovato sempre. Semplicemente perché c’è. Anche nei luoghi in cui sembra impossibile intravederlo. Più è buio, più bisogna immaginare la luce. Per questo gli inquieti, i malandati, i ciechi, gli storpi e i malati di solitudine sono da sempre i tuoi eroi. Perché quando incrociano la luce esprimono una forza tale da seppellirci tutti. Come la famosa risata del buon tempo andato” 

***

Caro Michele,
per recensire il tuo libro ho abbandonato il caldo tepore di casa e mi sono immersa nel caos cittadino. Ti scrivo al tavolo di un bar in pieno centro, è sabato mattina, è quasi Natale. La città sa già di festa e brulica di turisti che vagano alla ricerca dell’angolo perfetto da immortalare nei loro selfie, gioiosi d’aver trovato un luogo pieno di storia da toccare e cose buone da mangiare. Io, circondata dal vociare grasso del popolo mio, apro il taccuino e inizio a scriverti.

È qui che la tua storia sulla solitudine si fa viva, le tue parole prendono il volo e si caricano di significato, lottano con il mondo per farsi ascoltare, ma ci sono io ad ascoltarle e le faccio un po’ mie per cercare quel filo di luce nel buio che mi circonda.

Fa breccia il tuo pensiero che si insinua dolcemente tra i miei e leggendoti sembra facile poter vivere in solitudine pur stando abbracciati agli altri e alla vita. Ma vivere in solitudine non è da tutti e, soprattutto, non è per tutti, tu lo dici chiaro. Il problema non sono gli altri, il problema è capire sé stessi. Essere pronti a rinunciare per iniziare una lunga e paziente ricerca, costruire giorno dopo giorno un piccolo mondo. Ma in questo piccolo mondo “occorre imporsi regole precise, rispettarle, dargli motivazione e senso per poter vivere in solitudine” altrimenti diventa soltanto un modo banale per sfuggire dagli affetti e da te stesso.

La tua esperienza è profonda e si avverte quanta sofferenza hai dovuto affrontare prima di trovare la tua via. “Ma soprattutto la solitudine bisogna conquistarla, essere disposti a pagarla, amarla. Trovare il coraggio di stare in equilibrio su un abisso, su quel vuoto dove puoi precipitare in ogni attimo e finire laggiù, nel mondo dei soli, nel cuore più profondo dell’inferno. È un cammino su una fune, verso una vita che tu avverti più ricca, più autentica, per la quale vale la pena di spendersi, ma dove ogni passo va fatto con sorriso e consapevolezza. Se non sorridi non fa per te.”

Quello che racconti è pacato, lucido e intimo. Accogli il lettore e lo abbracci. E io l’ho sentito il tuo abbraccio fraterno e la tua voce bisbigliare di “ vedere la solitudine non come una nemica da combattere, ma come una coperta capace di proteggerci dal gelo dell’indifferenza. […] La solitudine, a volte, serve anche a salvarsi la vita”.

A molti sembrerà folle ciò che hai scritto, altri non ti crederanno. Ma a riempire gli armadi son bravi tutti è a svuotarli che ci vuole coraggio. Liberarsi del superfluo per viaggiare leggeri.

 “Pensi che ognuno debba trovare la propria strada e possa trovarla da solo. Proprio per questo stare appartati, acquattati, in silenzio, in disparte, aiuta a riflettere, a capire dove si vuole andare. Dove il tuo tempo chiama, qual è la tua inclinazione, il tuo desiderio, il motivo per cui stai al mondo”  

E com’è difficile trovare la propria strada, avere il coraggio di stare in disparte per capire qual è la via giusta da seguire. Io ci sto provando, il viaggio pare tortuoso e la strada è tutta in salita. Devo mettere le scarpe giuste e indossare maglioni pesanti perché l’inverno è lungo. Da qualche parte davanti a me so che c’è una vetta da scalare, non la vedo eppure è lì che mi aspetta.

Napoli, 1 dicembre 2018

***

“La vita è preziosa quanto avara. Meravigliosa e ingiusta” 

©MimmaRapicano_2018

La foto di Michele Marziani è di Davide Dutto

IL SUONO DELLA SOLITUDINE di Michele Marziani

IL SUONO DELLA SOLITUDINEMichele Marziani Ediciclo Editore 2018

4tet – mi sono fatta un giro tra i suoni dei Tanake

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

Perché dovrei parlare con te? Dimmi.

Non sapevo neppure esistessi fino ad un attimo fa ed è mezzo minuto che ti dico di andare.

E, sai, mi prude il naso. Proprio adesso. E devo scegliere se grattarmi o parlare. Se stare in me o non stare affatto.

E poi è morta Mary Ann, li dove è nata, a Macungie, Pennsylvania.

L’ho conosciuta un anno fa che aveva già 93 anni, e l’ho fotografata mentre le visitavano gli occhi.

Aveva una pelliccia di plastica tigrata, le mani profumate di qualcosa. Ha riso con me, tutto il tempo e poi è andata via. Proprio come ieri, quando la figlia mi ha scritto che il giorno prima le ha chiesto di cercarmi, che voleva ringraziarmi di averla fatta ridere tanto, per dirmi che quel giorno e i giorni che sono venuti era stata felice.

Hai capito? Sai di cosa parlo?

Hai ragione, nulla che ti riguardi, cose che prudono il naso.

Che domanda è? Ho pregato fno ai sette anni. Poi silenzio, ché il tempo vale.

Ah questo è il punto.

Non guarderò le tue foto. Cosa vuoi che ne sappia io, di fotografia, della tua, se non conosco l’odore della tua infanzia, se non so il suono che ti fa il mondo, se non ho amato il tuo primo amore, visto la tua prima luce. È solo che nulla vale e vale tutto. Soprattutto l’invisibile.

No, no, vai a fanculo tu, i maestri, la condivisione, la pace interiore.

Mary Ann? Lei non ha chiesto, ha parlato.

Tanake? Apologia del Quotidiano.

Cosa vuoi che ne sappia di fotografia, fuori dalla mia.

(Gianluca Vassallo – Apologia del quotidiano)

Tanake è musica improvvisa, è cuore polmoni sudore (il cervello c’è ma si tiene nascosto), è musica mentalmente fisica, è musica fisicamente mentale, è il crepuscolo all’alba, il miele amaro, la fresca decomposizione, la gioia del pianto. Tanake è musica generata dai tre suoi spasimanti…

Nel primo disco (tsu.zu.ku|2000) tanake attraverso l’improvvisazione arriva alla costruzione di brani, di pezzi finiti; col tempo però l’attitudine si sposta con sempre maggiore determinazione negli spazi claustrofobici e infiniti dell’improvvisazione pura (reazioni pilomotorie|2004). melodia e cacofonia, gli opposti che si incontrano in dissonanze melodiche capaci di generare atmosfere rarefatte e rilassantemente ansiogene, strumenti percossi quasi a creare dolci melodie, talvolta accarezzati ruggiscono di dolore… trepidanti, cupidi dell’altrui timpano da violentare e cullare….

Ulteriore sviluppo di questo processo è 3ree, disco prodotto da nipa.prodz, ebria records e fratto9 under the sky records e distribuito sul territorio nazionale da jazz today.

Tanake ha suonato in festival, club, centri sociali, associazioni culturali e gallerie d’arte con ulan bator (fr), kaffe matthews (uk), ovo, zu, sinistri, damo suzuki’s network, anatrofobia, giuseppe ielasi, tasaday, vonneumann, tiziano tononi, uncode duello, with love, inferno e molti altri.

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4tet, il quarto disco in studio firmato Tanake, vede la luce dopo varie vicissitudini, chi lo ha aspettato lungamente ne è consapevole!

Esce in vinile, 100 copie uniche, diverse per l’immagine di copertina.

Gianluca Vassallo aderisce al progetto con Apologia del quotidiano, un racconto fotografico intimo e influenzato dall’ascolto del disco che, a partire dal primo ottobre 2018 per 100 giorni, diventerà la copertina dell’album, ogni giorno diversa.

La stessa sarà pubblicata sul sito e sui social media dell’ensemble. Chi fosse interessato all’acquisto del vinile può scegliere la sua copertina preferita tra quelle disponibili, o se preferisce il numero progressivo da 1 a 100 copie, che verrà stampato in fine art grazie al prezioso contributo di Giuseppe Serra e del suo Artech Studio di Nuoro.

Al termine della campagna fotografica seguirà la mostra delle 100 copertine con un evento musicale di presentazione dell’album, da allora partirà l’invio delle copie prenotate.

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

4tet (Tanake) n.03 (03/10)

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

4tet (Tanake) n.15 (15/10)

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

4tet (Tanake) n.61 (30/11)

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

4tet (Tanake) n.18 (18/10)

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

4tet (Tanake) n.25 (25/10)

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

4tet (Tanake) n.53 (22/11)

Noi di Casa di Ringhiera abbiamo prenotato la nostra copia di 4tet.

La numero 53

Abbiamo ascoltato i pezzi in anteprima (lo ammetto), ma non vediamo l’ora di avere la nostra copia. Fisica. Tra le mani. Perché un conto è ascoltare con gli auricolari la musica e un altro conto è lasciare che la musica spazi nell’aria da un vinile. Dico bene?

Io i Tanake li ho ascoltati dal vivo, una volta, anni fa. E mi sono innamorata di quei suoni. Ci sono viaggi dentro i loro suoni che non ti aspetteresti mai. Minuscole schegge di musica altissima che ti trascinano in un luogo altro, a volte in modo lento e suadente altre volte in modo improvviso che il cuore, be’ il cuore ti salta in gola. Pura semplice emozione, sempre.

Che poi, in fondo, è quello che ci si aspetta dalla musica. Che sia capace di emozionare. E la musica dei Tanake ci riesce, tipo, sempre.

Noi qualche domanda gliel’abbiamo dovuta fare, giusto per capire chi sono questi ragazzi. Dopodiché vi lasciamo alle loro atmosfere sonore. E alle vostre intime emozioni.

(Siete ancora in tempo per prenotare la vostra copia di 4tet, se leggete tutto l’articolo in fondo in fondo in fondo ci sono tutti i Link necessari). 

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

Cosa significa il vostro nome, Tanake?

È una parola del vocabolario nuorese, ci piaceva la sua sonorità vagamente orientale, tanache è il picciuolo ovvero la struttura che sostiene e collega la foglia, o il frutto, al ramo. Per noi rappresenta il legame con la nostra terra d’origine.

Ho sentito che Tanake nasce dalle ceneri di un’altra band; quanto tempo è che suonate insieme e quanto è cambiata la vostra musica dagli inizi a oggi? 

Suoniamo insieme dal 1994, ma solo dopo cinque anni siamo diventati quelli che siamo ora. La nostra musica si è sviluppata insieme a noi, è sempre stata lo specchio delle nostre sensazioni ed emozioni, il frutto dei nostri ascolti e delle nostre percezioni del quotidiano.

Musicalmente siamo partiti da strutture semplici con arrangiamenti via via sempre meno scontati fino a destrutturare tutto con sessioni di improvvisazione pura, utilizzando gli strumenti in maniera sempre meno ortodossa.

Le vostre sonorità non sono di facile ascolto per chi non è avvezzo alla Musica. Molta improvvisazione. Molta musica colta. In un mix di suoni che ti trasporta davvero lontano lontano. 

Chi sono stati i vostri maestri, i musicisti che vi hanno ispirato? 

Qualcuno ci definì emozionali, ma non ricordiamo chi…

Inizialmente l’improvvisazione ci portava a creare la musica, session infinite si trasformavano in tracce definite: pian piano abbiamo acquisito una consapevolezza che ci ha portato a limitarci alla sola improvvisazione eliminando completamente la struttura musicale, per creare dei pezzi finiti in base agli elementi sonori, ogni volta diversi, che ci scambiamo durante le sessioni, sia in studio sia dal vivo.

In realtà non crediamo che sia necessario avere una certa cultura musicale per apprezzarci, quanto riuscire a emozionarsi per le atmosfere che creiamo. Forse per apprezzarci veramente bisogna essere empatici e con il giusto grado di concentrazione. A volte, per favorire l’ascolto, usiamo  proiettare un video, quasi fosse un film da musicare.

I nostri maestri sono molteplici, si va dal cantautorato al jazz più estremo degli anni ’60, dal post rock fine anni ’90 alla pura sperimentazione. Riusciamo a tradurre nel nostro linguaggio tutto ciò che vediamo e ascoltiamo, ciò che proviamo, in un susseguirsi di visioni e sonorità.

Com’è nata l’idea di quest’album e di farne 100 pezzi numerati con 100 copertine diverse. Un progetto lungo 100 giorni, certo anche molto di più.

So che siete tutti e tre  amanti della fotografia, ognuno di voi in modo diverso. Ma in che modo queste 100 fotografie sono correlate con 4tet?

Questo album nasce otto anni fa, nella provincia pisana dove ci siamo rifugiati tre giorni e per tre giorni abbiamo suonato e inciso in presa diretta e in totale improvvisazione. Purtroppo i fatti della vita ci hanno separato geograficamente e siamo riusciti a riprendere il progetto solo da un anno. L’album non vuole essere un ultimo lascito ma un punto importante della nostra maturità artistica, e pertanto bisognava necessariamente creare qualcosa di unico e forte che non fosse la sola musica ma che potesse raccontarci in modo più completo.

Per fare questo avevamo bisogno di un ulteriore contributo, un occhio di chi è parte del progetto 4tet come uno strumento aggiunto che racconta un’ulteriore visione non più e non solo musicale. Gianluca Vassallo ha subito sposato la causa con un preziosissimo lavoro che traduce in immagini la nostra musica, influenzato non dalle nostre emozioni ma da quelle che la nostra musica gli trasmette. Il lavoro fatto fino a qui è straordinario, siamo molto soddisfatti e non vediamo l’ora di vedere stampate tutte le 100 copie.

4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake 4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake 4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake 4tet - mi sono fatta un giro tra i suoni dei tanake

Sono copertine, quelle realizzate da Gianluca Vassallo, che sembra raccontino in modo discreto la vostra terra di origine. 

Quanto c’è della vostra isola nella vostra musica e in quest’album in particolare? 

In realtà raccontano del quotidiano, in modo sistematico e a tratti ossessivo. Molti degli scatti sono stati fatti oltre tirreno, non c’è e non vuole esserci un vincolo territoriale ma solo continuità narrativa fra immagine e libera interpretazione della musica. In un preciso momento, in un preciso contesto in cui accade qualcosa.

Noi tre siamo nati e cresciuti in un’isola e questo ha, volenti o nolenti, forgiato il nostro approccio alla vita e il nostro carattere, ma le influenze che poi traduciamo in suono sono comunque molteplici, il nostro modo di mettere in musica le nostre emozioni è viziato dalle nostre letture e dai nostri ascolti, dai paesaggi quotidianamente vissuti, dai contrasti della terra stessa.

Questo progetto si discosta dai precedenti. Una scelta di raggiunta maturità artistica oppure il volere creare un oggetto (d’arte) in quest’epoca dove la musica è quasi del tutto scomparsa dai supporti fisici? 

Il nostro sogno è sempre stato quello di poter licenziare un vinile, veniamo da un’altra generazione, siamo feticisti e abbiamo sempre cercato di curare il packaging e i layout dei nostri lavori. Da amanti, tutti e tre, della fotografia, già nell’album “reazioni pilomotorie” avevamo inserito una polaroid diversa in ogni cofanetto. Il legame tra fotografia e musica lo abbiamo sempre assecondato e sviluppato.

Vi ho visto in concerto, una volta sola, nella primavera del 2001 al CPA di Firenze. Mi piacerebbe riascoltarvi dal vivo. Quando sarà possibile? 

L’idea è quella di riuscire a fare un mini tour nella penisola nella primavera del 2019 toccando le città che hanno un significato per noi: Firenze perché è lì che siamo nati e cresciuti artisticamente; Milano perché nei nostri ricordi è il miglior posto dove abbiamo suonato e dove poter suonare; Roma perché un sacco di amici ci aspettano!

In ogni caso per il 26 gennaio è prevista la presentazione del progetto a Nuoro (dove siamo nati) presso il garage33, dove verranno esposte le 100 copertine e, a distanza di nove anni dall’ultima volta presenteremo un nuovo set dal vivo.

Adoro molti dei vostri titoli tanto quanto i vostri pezzi, ma da dove nasce l’idea dei titoli? (Solo una curiosità)

  La contessa abbandona le gare. 

– utilità sociale intesa come interesse della collettività alla manifestazione del pensiero

– could your brain be more reflective than a mirror

– sick music makes healthy dancers

– il mio autismo musicale (una discreta espressione del nulla)

I titoli  offrono un ulteriore livello interpretativo dei pezzi, quasi fosse il testo per i nostri brani esclusivamente strumentali. In questo Roberto è un abilissimo e visionario compositore.

Coi titoli si gioca ad ampliare lo sfondo immaginario che la musica crea (o vuole creare), il titolo nel caso nostro è l’appendice della fase creativa… a volte è suggerito dalla musica stessa, altre era già li che l’aspettava appuntato in un quaderno…
L’ironia senza dubbio è elemento fondante dei tanake… e quasi sempre è legata al tragico… spesso prende toni comici, benché probabilmente poco palesi, ma sempre su un fondo cupo o melancolico…. tutto questo fluisce con naturalezza, non ci sono forzature.

Per soddisfare la tua curiosità relativamente ai titoli elencati:

La contessa abbandona le gare 

È ispirato a Maria Teresa de Filippis, prima donna pilota di una Formula 1 di altre epoche, che abbandona le gare al suo primo anno in Formula 1 dopo che in quella stagione muore l’ennesimo collega-amico in pista 

Amici con i quali avevo macinato chilometri […], vivendo insieme tra Europa e Sud America circondata dal loro affetto, spesso vittima dei loro scherzi, l’amica vera, la piccola da proteggere, il pilotino pieno di gioia di vivere e d’allegria. Non avrei più saputo ridere come prima senza di loro ed è finita così, con l’addio alle corse” 

utilità sociale intesa come interesse della collettività alla manifestazione del pensiero

È quella che ebbe l’affermazione di Piero Ricca quando osò dare del buffone all’allora premier Silvio Berlusconi nel palazzo di giustizia di Milano (sentenza 19509 della quinta sezione della Cassazione)… con nostra massima approvazione

could your brain be more reflective than a mirror 

Una visione in sala prove, una vecchia cascina con una bizzarra credenza curva e rivestita da strisce di specchi riflettenti porzioni di realtà fatta a pezzi… (da qualche parte abbiamo ancora la foto)

– sick music makes healthy dancers 

Difficile vedere ballare qualcuno ai nostri concerti, ma talvolta accade… e quelli devono essere proprio sani!

– il mio autismo musicale (una discreta espressione del nulla) 

L’approccio a suonare per bisogno porta a esplorarsi dentro e a non curarsi (apparentemente) del contesto, mostrando un paradossale effetto autistico ed empatico, che di per sé parrebbe un ossimoro ma che tale non è.

Una definizione per questo album, sotto quale genere possiamo includerlo?

Non amando i generi e le etichette, così come i confini e le bandiere, ma comprendendo che se ne deve parlare in qualche modo bisogna avere modo di raccontarlo… magari come farebbe un sommelier per il vino andrebbe bene… decidete voi 

free form rock – jazz core

Musicista (o band) preferito/a? 

Martino – Nick Cave

Maurizio – Nick Cave

Roberto – June of 44

Canzone preferita? 

MartinoOf information & belief – June of 44

MaurizioThe anarchist’s anthem – 4 walls

RobertoDidn’t We Deserve A Look At You The Way You Really Are – Shellac

Concertone preferito?

Martino – Nick Cave and the bad seeds – Barcelona Forum – 21/05/2015

Maurizio – Nick Cave and the bad seeds – Arezzo Wave – 06/07/2001 (folgorante!)

Roberto – Sonic Youth – Museo Pecci – 08/07/1993 (ha aperto nuovi mondi)

t a n a k e

MartinoAcciaro DrumsTypewriterNoise

MaurizioBosa BassDoubleBass AmFmwaves

RobertoAcciaro GuitarTromboneAmFmWaves

http://www.tanake.net

https://www.facebook.com/tanakeensemble/

https://www.instagram.com/tanakeensemble/

La Rivoluzione ai tempi della Brexit: Kate Tempest, la poetessa che ‘rappa’

[una disguida non convenzionale sulla spoken-word poetry incazzata nell’Europa che dorme]

di Disguido Luciani

 

 

Picture a vacuum / Immaginate un vuoto
An endless and unmoving blackness / Un buio immobile e senza fine
[…] it’s been a long day, I know, but look – / […] la giornata è stata lunga, lo so, ma guardate –
In now / Entrate, adesso
In / Entrate
Fast / Presto

A guardarla non lo direste che Kate Tempest è una dura, una ribelle. Anzi, la voce più dura e ribelle dei giovani d’Europa. A guardarla non direste neppure che Kate Tempest è una poetessa. Anzi, la poetessa più acclamata dell’ultima generazione di poeti inglesi. E no. Tantomeno direste che è una rapper. Anzi, la rapper più sorprendente della spoken-word poetry.

Eppure, Kate Tempest, capelli biondi da tipica ragazza inglese, carnagione pallida da tipica ragazza inglese, occhi chiarissimi, ancora una volta da tipica ragazza inglese, all’apparenza un’Adele come ce ne sono tante a Londra, certo, meno raffinata e attenta al make-up, a trentatré anni è stata definita dalla critica come la voce più forte delle nuove generazioni d’Europa, l’artista del momento. Con tanto di Ted Hughes Award, Herald Angel Award e una finale al Mercury Prize a confermarlo.

Cresciuta nei sobborghi di Londra, Kate Tempest scrive, canta, rappa di un’Europa d’emarginazione e spaesamento, d’alienazione e fallimento, di ricerca di senso e perduta empatia. Di deresponsabilizzazione, schermi tv, droga, alcol, ambizioni infrante. E di una vita che scorre mentre noi stiamo ancora dormendo.

Let Them Eat Chaos [Che mangino caos], il suo ultimo lavoro, sfugge a consuete categorizzazioni per farsi una strana opera fluida. Mille forme, o forse, meglio, nessuna. E’ un poema. Un Urlo Beat alla Allen Ginsberg, ma meno maledetto. Un romanzo in versi, il copione di una performance mai realizzata, lo spartito dentro cui si muovono, tra ninnananne ed elettronica, le 13 tracce del disco omonimo.

Ma non complichiamoci la vita. Let Them Eat Chaos è un capolavoro. Trascende il genere, le regole, le convenzioni. E persino la forma trascende. Per farsi flusso, prosodia, in una parola cara al rap, per farsi flow. O, per i più tradizionalisti, testo scritto e sonoro. Nel senso più ampio che conosciate.

Here, where the kids play and laugh until they fall apart, / Qui dove i ragazzini giocano e ridono fino a venir meno,
it’s kiss-chase and dancing / è tutto un inseguirsi di baci e di balli
till it’s mistakes and darkened rooms / finché arrivano gli sbagli e le stanze in penombra
Too fast too soon / Troppo in fretta troppo presto
too slow too long / troppo piano troppo a lungo
We move around all day / Andiamo in giro tutto il giorno
but can’t / ma non riusciamo
move / ad andare

on / avanti

E’ Londra il luogo alienante di cui parla Kate Tempest (Vi trovate in una città / Chiamiamola / Londra / E questa / è l’unica / epoca / che abbiate mai conosciuto). Ma potrebbe essere qualsiasi metropoli europea del XXI secolo, la New York di Allen Ginsberg, la Wasted Land di T. S. Eliot, l’America oggi di Robert Altman.

Sono le 4 e 18 del mattino e sette persone nella stessa via, nello stesso quartiere, nella stessa città (chiamiamola / Londra), sono sveglie. A dormire non ci riescono proprio. Intrappolati in pensieri privati. Disarmati. E c’è questa domanda inquietante, il fils rouge che li disarma; aleggia, fantasma su di loro. E sull’Europa che dorme:

What we gonna do to wake up? / Che faremo per svegliarci?

Tutti, stretti nella propria solitudine, si chiedono se, in quel momento, alle 4 e 18, ci sia qualcun altro che non riesca a dormire. E così, i pensieri privati si fanno pubblici, una richiesta d’aiuto, un appello all’empatia tra simili.

You’re feeling / State provando emozioni.
For The people. The life. / Per la gente. Per la vita.

You want to be close to them. / Volete essere vicini a loro.
Closer / Ancora più vicini. 
These are your species, / Sono della vostra stessa specie,
your kindred. / sono vostri parenti.
Where have you landed? / Dove siete finiti?

C’è Jemma, passato da bad girl, ketamina a colazione/ scarpe vecchie/ denti guasti/ testa infilata nella cassa dei bassi. Sogna qualcuno che la guardi e riconosca la presenza dei suoi fantasmi, qualcuno / così grande / da fare di me / tutto quel che non sono. Ma è disarmata, intrappolata:

Through the mud / Nella melma
of every wasted chance / di tutte le occasioni sprecate

and every / di tutti
bitter tastes / i sapori più amari

My heart is sprayed up / Ho il cuore ricoperto
with the names / di nomi scritti con lo spray
of all my friends / di tutti gli amici
who lost their way / che si sono persi per strada

Ether fa la badante, lavora di notte e, alle 4 e 18, non sa come togliersi il mondo, lo stato del mondo, dalla testa mentre, occhi stanchi, muscoli indolenziti, stappa una birra e se la scola d’un fiato. Eppure, nella fragilità della notte, nella precarietà della sua condizione di vita, inizia a percepirsi come minuscolo ingranaggio di un sistema gigantesco, sistema troppo ben oliato per fermarsi. E d’un fiato è disarmata. E’ perduta.

Europe is lost / L’Europa è perduta
America is lost / L’America è perduta
London is lost / Londra è perduta
And still we are clamouring victory / Eppure rivendichiamo a gran voce la vittoria.
[…] and now all we want’s some excess / […] e ora vogliamo solo un tuffo nell’eccesso
Better yet: a night to remember / Anzi: una serata indimenticabile
that we’ll soon forget / da dimenticare presto.

E torna la domanda collettiva. D’un fiato. Come la birra che Ether si scola alle 4 e 18. Perché la preoccupazione sullo stato del mondo non ce la si toglie così, d’un fiato:

Here / Qua
In the land / nel paese

where nobody / dove a nessuno
gives a fuck / frega un cazzo
What am I gonna do / Che devo fare
to wake up? / per svegliarmi?

Alicia trema nervosa. Aggrappata alle proprie ginocchia, cerca uno scopo. Maschera di coraggio sul viso tutto il giorno, poi la notte parla con il suo compagno morto. Ho sentito la tua voce così forte che mi ha svegliata / Com’è lì dove sei andato? / Lo so che non puoi dirlo / ma sei stato con me tutto il giorno. Tira su col naso, annuisce e si asciuga gli occhi. Controlla l’ora. Sono le 4 e 18.

Everything is connected. Right? / E’ tutto collegato. Vero?
Everything is connected / E’ tutto collegato.
And even if I can’t read it right, everything’s a message / E anche se non riesco a leggerlo bene, c’è un messaggio in ogni cosa
We die. So others can be born. / Si muore. Perché altri possano nascere.
We age, so others can be young. / S’invecchia, perché altri possano essere giovani.
The point of life is live. / Il senso della vita è vivere.
Love if you can. / Amare se si può.
Then pass it on / E poi tramandare.

Alle 4 e 18 Pete, che in questa via di questo quartiere di questa città (chiamiamola / Londra) è cresciuto, è ubriaco lercio. La chiave nella toppa non vuole proprio entrare. E Oops. / La conosco questa sensazione / ingurgitare schifezze fino a fissare il soffitto. / Oops. / Ballando su musica di merda / mani in alto quando arriva la botta. Dietro di lui la tempesta. Ma la chiave nella toppa ancora non entra. 

Woops. / Oops.
Back here then’s pose / E allora mi sa che ci risiamo
Don’t watch the state of my nose / non far caso a come è ridotto il mio naso.
Woops / Oops.
I swear this person isn’t me / Giuro che io non sono così
We did have fun though, didn’t we / però ce la siamo spassata, non è così?

Didn’t we? / Non è così?

Vive nel palazzo nuovo, Bradley, giovane professionista (appartamento stralusso / single / Tinder / flirt effimeri / living The Dream). Eppure non dorme. Si rigira, cuscino freddo, corpo caldo. Ancora le 4 e 18…

Most days I’m dazed / La maggior parte dei giorni cammino
walking round / stordito
I’m working / lavoro
talking / parlo
perking up. / mi tiro un po’ su.
But always feel I can’t be certain / Ma sento sempre di non essere ben sicuro
That I’ve woken up / d’essermi svegliato
at all / del tutto.
Is this life? / Ma davvero la vita è così?
Will this pass? / Passerà mai?
This feeling / Questa sensazione
like I’m looking at the world / di star guardando il mondo
from behind glass? / da dietro un vetro?

Sono ancora le 4 e 18. Zoe, sigaretta accesa, va alla finestra e guarda Londra (è una fortezza murata / è tutta per ricchi / se non ce la fai / sei fuori), Pia guarda il corpo che dorme accanto al suo. E’ Rose. Ma Pia ama Spina. Hanno rotto da poco eppure Spina è ancora lì, intrappolata in un flow di shakespeariana memoria: E penso a te / e alle cose / che mi fai. Te ne sei andata / Come mai ti trovo ancora / in agguato? / Stringimi / la gola / con le mie stesse mani / E adesso vattene / ti prego / Vattene e basta.

It’s been 4.18 / E’ un pezzo che sono le 4 e 18
And dawn’s still / e l’alba è ancora distante
hours off yet / ore
[…] But watch now / Ma guarda ora come
as the breaking storm outside / lo scatenarsi della tempesta fuori
animates the frozen moment / anima il momento raggelato

I sette vicini, di via, quartiere, città,  Chiamiamola / Londra, si vedono per la prima volta e, in mezzo al rabbioso temporale, dapprima si riparano gli occhi / ma poi / tirano indietro la testa / offrono i corpi / alla tempesta. Vicini, sempre più vicini, non sono più soli. Fino all’alba.

They will be aware of this baptism in a distant way / Ricorderanno questo battesimo come lontano
It will become a thing they carry close like the photo of a dead parent / Diventerà una cosa che portano con sé come la foto di un genitore morto
tucked always in the inside pocket / riposta sempre in una tasca interna
Fading like the heartbeat / Che sbiadisce come il battito del cuore

Dai sette personaggi al narratore. Da Jemma, Ether, Alicia, Pete, Bradley, Zoe e Pia a Kate. Dal particolare, privato, intimo all’universale, pubblico, corale. Dalla prima persona singolare ad una singolarità che si fa plurale, la voce di una generazione.

L’ultima traccia, l’ultima poesia, l’ultima parte del poema, l’ultima amara, violenta, rabbiosa melodia è il vero manifesto di Let Them Eat Chaos.

Indigenous apocalypse / Apocalissi indigene
decimated forests / foreste decimate
We are nothing but eating mouth / Non siamo altro che una bocca divorante
Oesophagus colossal / Un colossale esofago
Will not stop until we’ve beaten down the planet into pellet / Non ci fermeremo finché non avremo ridotto il pianeta in pellet
[…]It’s killing me it’s killing me / E’ una cosa che mi uccide mi uccide
It’s filling me / mi riempie
I’m vomiting. / Vomito.
It’s still in me / Ma è ancora dentro di me

La visione corale si fa, in realtà una chiamata alle armi, le armi proprie dell’umanità:

all’empatia cosmica (Non siamo che scintille / particelle / di una costellazione più grande / molecole minuscole / che formano un corpo solo);

alla solidarietà tra simili e pari (la tragedia e la sofferenza / di una persona che non hai mai incontrato / è presente nei tuoi incubi, / nell’attrazione che provi / verso la disperazione / il malessere della cultura / e il malessere nei nostri cuori / è un malessere inflitto / dalla distanza / che condividiamo);

al senso di responsabilità (Sono state le nostre bombe a scatenare questa guerra / Infuria lontana / e perciò non teniamo conto delle sue vittime, sono stranieri / ma sono genitori e figli / resi cani dal pericolo / Sono stati i nostri barconi a salpare, ammazzare, depredare e indebolire / sono stati i nostri scarponi a calpestare / i nostri tribunali a spedire in galera / e sono state le nostre cazzo di banche a essere salvate);

all’amore universale (Il mito dell’individuo ci ha lasciati scollegati smarriti / e in stato pietoso / La fiducia è / la fiducia è una cosa che non vedremo mai / finché l’Amore non sarà incondizionato).

E un invito. A guardarsi. A vedersi come parte di un tutto. Più forti perché meno distanti, più vicini perché uguali (Credi che io e te siamo così diversi? Ti perdi nei dettagli. / Io e te, separati, siamo più facili da limitare). A svegliarsi. Ma sono ancora le 4 e 18. Anche per Kate Tempest.

I’m out in the rain / Me ne sto sotto la pioggia
it’s a cold night in London / in una fredda notte londinese
Screaming at my loved ones / Urlando ai miei cari
to wake up and love more. / di svegliarsi e amare di più.

Pleading with my loved ones to / Scongiurando i miei cari di
wake up / svegliarsi
and love more. / e amare di più.

La bellezza violata ha interrotto la festa

La bellezza violata ha interrotto la festa. - Lulu Withheld

La bellezza violata -c’era scritto sul retro- la bellezza violata ha interrotto la festa.

(La bellezza violata – Massimo Volume)

Di storie ne ho sentite. Di bellezza violata. Di feste interrotte, dico, tante. Troppe.
Tante sempre diverse sempre uguali. Con lo stesso finale di merda.


Le ho sentite come si sentono tutte le cose che non ci riguardano, non personalmente almeno, con leggerezza. La superficialità data dalla distanza dei fatti, abituati a sentire tutto di tutto ormai. Con fatica. Con riluttanza. Con un’indignazione adeguata, che ci consente di andare avanti.


Anche se forse no in realtà non è vero, mai con leggerezza. E forse a guardare meglio l’indignazione provata diventa rabbia. Anche quando è la pelle degli altri a vacillare.


La rabbia.
La senti la rabbia?
Io sono incazzata.

“In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come normale il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia un fatto della vita, inevitabile come la morte o le tasse”.

(Emilie Buchwald, Pamela Fletcher, Martha Roth; Transforming a Rape Culture)

Non posso che fare riferimento a quello che è il mio di ambito. In mezzo ai set. Dietro alle luci di scena. Tra uno scatto e un altro e durante gli shooting ci sono fotografi che non dovrebbero fare quello che fanno. Fotografi che si spingono oltre.


Oltre.


C’è un confine nella ricerca dell’equilibrio delle cose.
Un confine sottile quello sul set per via del gioco delle parti che si mette in atto a prescindere.
Il confine, quel confine che è impietosamente labile tra l’essere guardato e l’essere guardato in quell’altro modo.


E tu, tu lo sai qual è il limite?
Io sono una donna, il confine lo conosco bene.
Tu lo sai? Qual è il limite?
Dimmelo se lo sai.

Questo è il confine.


La libertà se la prende sempre e solo chi oltrepassa il confine per violare la libertà di qualcun altro.

“Quando la porta che apri è la porta dietro cui ti nascondi”.

Poi succede questo. Succede che intorno fai silenzio. Perché il silenzio ti protegge, non ti espone, non ti rende più vulnerabile di quanto tu già non sia. Il silenzio ti fa scudo insieme alla paura. Il silenzio ti isola dalle minacce, dalle accuse, dai sensi di colpa.


Danneggiati ormai lo si è, già.
Feriti a morte. Lo si è già.
Silenzio. Quello fai intorno.


Perché forse hai capito male, perché forse è così che succede quando si è adulti sui set e fuori dai set, perché forse non era una carezza ma hai inteso male con malizia un’innocenza.

La verità è che No, non hai capito male. Perché lo capisci subito quando il confine viene oltrepassato. Un’attenzione di troppo la riconosci, fidati.


I maiali puzzano anche da lontano.

La bellezza violata ha interrotto la festa. - Lulu Withheld
Millenium – David Fincher

E la verità è che i No loro non li vogliono sentire.
E dicono «Lei non ha detto no, non l’ha detto, o se l’ha detto era troppo tardi».
Troppo tardi?
Troppo tardi un cazzo.

“Conoscete il monologo interiore che accompagna chi ha subito un abuso sessuale. Avete letto qualche libro, avete visto persone parlare su uno schermo con la faccia nascosta: sapete tutto. La mortificazione bruciante, se non ci siete passati, vi manca, ma le parole le conoscete.
È colpa tua. Te la sei andata a cercare. Cosa pensavi che potesse succedere. Sei una troia.
Al mio monologo possiamo aggiungere: sei stata tu a entrare in quella casa. In realtà ci stavi. Non hai detto niente. Perché non hai detto niente? Prima sì e poi no? Non vali niente.
Tu non sei niente”.

(Violetta Bellocchio – Dove credi di andare)

La bellezza violata ha interrotto la festa. - Lulu Withheld
Nome di donna – Marco Tullio Giordana.

E quando le ragazze dicono «Io sono stata ferita a morte».
Dovete crederci.
Non si vede? Dite?

Dal di fuori non si vede?
Fingere che nulla sia successo questo è. Per questo non lo vedete.
Un silenzio intorno che è un fossato di coccodrilli che pensi ti proteggerà per tutta la vita.
Un fossato così fragile.


Per arroccare una ferita invisibile. Che se ci guardi dentro vedi tutta la miseria.
«Non la mia, la loro. Di chi mi ha fatto male. Di chi ha oltrepassato il confine».

Mysterious Skin – Gregg Araki

“E mentre ce ne stavamo seduti lì ascoltando il coretto natalizio, avrei voluto dire a Brian che era tutto finito e che ora tutto sarebbe andato bene, ma sarebbe stato una bugia…e comunque io non riuscivo a parlare.


Avrei tanto voluto poter tornare indietro e cancellare il passato… ma non era possibile, non potevamo farci più niente.


Perciò rimasi lì in silenzio, cercando di comunicargli telepaticamente il mio dispiacere per quello che era successo. Mi venne anche da pensare al dolore e alla tristezza di questo mondo di merda, e mi venne voglia di scappare”.

(Gregg Araki – Mysterious skin)

A questo dovete credere.

“Adesso cosa devo dire.
Adesso cosa succede.
Che fine farò”.

(Violetta Bellocchio – Dove credi di andare)

E poi sai cosa c’è? C’è che gli altri lo sanno.


E qui monta ancora di più quella rabbia che dicevo.
Tutti hanno visto. Tutti sapevano.
A volte il nome di chi oltrepassa il confine è un nome conosciuto. Conosciuto a tutti. A volte invece è il nome di un perfetto sconosciuto.
Ma in entrambi casi è un nome, e i nomi io non li dimentico.
I nomi. Ah già il beneficio del dubbio.


Passano per mentori professionisti santoni. Con autoinvestitura del loro stesso potere.
Ne ho conosciuti diversi. Con quel carisma, quello deprecabile, quello che riesce a soggiogare le persone più fragili. Che non ha più nulla a che fare con la Bellezza.

“Lo stupro altro non è che un processo più o meno consapevole di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”

(Susan Brownmiller – Against Our Will)

Ma vogliamo discuterne?
Ma da che parte state?

Io sto dalla parte di chi è stato danneggiato, ferito, oltraggiato, abusato.
Perché sono una donna e perché sono incazzata.

E perché sono stufa marcia.

“Io con gli stronzi che picchiano le donne non ci lavoro, anche a costo di dover annullare concerti e pagare penali”.

(post di Federico Fiumani)

Che #losapevanotutti non riguarda solo il mondo della musica dell’editoria nel caso che è esploso in questi giorni, che il #metoo investe ogni cazzo di angolo di questo pianeta. #Quellavoltache fa parte di ogni macrosistema ogni ambito ogni interno domestico e lavorativo.


Spero non quasi ogni donna, spero non quasi ogni uomo.

Obbligo o verità. A questo punto?

Quello che succede dopo è che lui mi prende la mia mano e me la infila dentro i suoi pantaloni pigiandomela contro la sua erezione e poi mi caccia la sua lingua in bocca e mi bacia e le labbra sono secche le sue e impastata la mia bocca e mi insinua le sue dita così, straight, nelle mie mutandine. E io mi ricordo solo che erano fredde le sue dita dentro di me. Freddissime.


Che non era piacevole.
Io non volevo toccarlo.
Io non volevo baciarlo.
Che volevo andare via.


Ma che le cose non potevano andare diversamente. Perché le cose avevano semplicemente seguito il loro corso naturale e io non lo so cosa avrei dovuto aspettarmi. O cosa avrei dovuto fare.
Cosa avrei dovuto fare.
Io non lo so.

Ma so anche che non avrei voluto questo finale.

Anne Noun – una vasca da bagno con l’universo dentro

Oleandri e siccità

oleandri e siccità

Oleandri e siccità è la seconda parte di “When in Sardinia”, progetto letterario e fotografico di Ilaria Sponda

 

Oleandri e siccità

D’improvviso, 

All’orizzonte, il mare,

Tavola blu del desinar dei monti.

 

Non un fil di vento,

Non un cinguettio d’uccello.

 

Non c’è assuefazione 

In questo mio cuore blu

Lieve e statico affetto

Per chi carezza,

Come lo Scirocco

 La mia libertà.

 

Ilaria Sponda

Léon was here [ilford F plus 50 – 08/2000]

Léon was here - Lulu Withheld

Léon was here 08/2000 – Ilford 50 b/w

(testo e foto di Lulu Withheld)

 

Léon.

Lui che sorride con gli occhi prima che con le labbra. Quegli occhi neri nerissimi tagliati. Stretti. Che suona il basso e arrangia canzoni che gridano e squarciano l’aria. Lui che fuma Chesterfield aspettandomi fuori da scuola. Che applaude prendendomi in braccio dopo avere letto le mie poesie. Lui che mi chiama Mia principessa.

Poi. I baci nel sottopasso. I litigi furiosi sul corso. Le fughe con il motorino su per le salite.

Lui che mi chiede di fare l’amore. La mia prima volta. La sua prima volta. 

Il copriletto ricamato, gli specchi con le cornici dorate, l’odore di saponette. Il sapere di averlo fatto senza la coscienza di averne goduto.

Quattordici anni io. Sedici lui.

Diventeremo due Rockstar, diceva. Aveva quella luce negli occhi. Quella bella, proiettata nel futuro. Creeremo cose belle Léon, dicevo io. Per sempre, principessa. Rispondeva lui.

Mano nella mano, una sera ci siamo detti addio.

Il mio grande amore finiva con una scopata al chiaro di luna sulla spiaggia. Il romanticismo sporcava di sabbia le mie mutandine di adolescente.

Casa di Ringhiera - Léon was here - Lulu Withheld

© Léon was here – Lulu Withheld

 
 
 
Poi ci si rivede, io e lui, una sera a Firenze. Mi chiama e mi dice Sono qui.
 

Io ho diciott’anni, lui venti.

 
E abbracciati stretti strettissimi, balliamo sulle note di Nuotando nell’aria sussurrata da Cristiano Godano sul palco della Flog.Lui mi racconta che lui e la sua ragazza hanno avuto dei problemi, seri. E che si sono lasciati, mi dice baciandomi. Con questa cupa leggerezza continuiamo a ballare. Come due ragazzini. Senza un domani.
 

Intanto l’aria intorno è più nebbia che altro

l’aria è più nebbia che altro.

Casa di Ringhiera - Léon was here - Lulu Withheld

© Léon was here – Lulu Withheld

 

Un’altra notte ci diamo appuntamento, durante le vacanze di Natale, per andarcene a fumare erba in collina per guardare le luci della città e le nuvole scorrere veloci, tinte di viola. Mi chiede se sono felice, gli dico che no, nessuno lo è mai. E che qualcuno mi ha ferito a morte, gli dico. Lui mi guarda serio, con quella luce che è diventata violenta negli anni, Lo ammazzo, mi dice.

Lo ammazzo. Chi è. Dimmelo

Non gli dico della miseria di certi eventi, gli dico Niente, Léon. Non è successo niente.

Quella stessa notte, tornando a valle, la nostra macchina sbanda sul selciato ghiacciato. E, completamente sballati, ci abbracciamo fuori al freddo dicendo Moriremo insieme. La nostra cupa leggerezza, le nostre inutili stronzate. 

Promettimelo, mi dice. 

Te lo prometto, gli rispondo. 

Io e lui ci rincontriamo, che sono le nostre ultime volte, nei pomeriggi assolati di un fine agosto, del cazzo. Mio padre è morto da poco, una settimana dieci giorni. Da poco. Io non lo so cosa è la morte, non lo so adesso e non lo sapevo allora che di anni ne avevo venti. Ci incontriamo per caso e finiamo a scopare, in quella stessa stanza delle nostre prime volte. Nulla è cambiato. Il copriletto le cornici l’odore delle saponette. 

Tutto lì. Fermo. 

Come se il tempo non fosse mai passato. 

Exit Music (for a Film) copre i nostri gemiti mentre sudati lasciamo cadere quel copriletto. Ci raccontiamo le nostre storie, chi saremo chi vorremmo essere. Gireremo dei film pazzeschi. Dice. E così inquadratura dopo inquadratura ci raccontiamo il film delle nostre vite. Raccogliendo nelle carezze gli ultimi centimetri di pelle dei nostri giovani corpi. 

Wake From your sleep. The drying of Your tears

Today

We escape, We escape

 

 
Casa di Ringhiera - Léon was here - Lulu Withheld

© Léon was here – Lulu Withheld

 
 
 

Uno di quei pomeriggi di fine agosto siamo davanti alla spiaggia vicino alla foce, parcheggiati a fumare a baciarci e a sentire il rumore del mare. Lui mi chiede Vuoi farti con me? Lo guardo, è serio, la luce negli occhi è una roba inguardabile, triste e sincera. La voglio anche io quella luce, Léon. Dico. La tua è sempre stata così, mi risponde. Mi appoggio sulle sue spalle, nell’abitacolo della macchina, e gli dico Perché no? Non ho niente da perdere io.

Le mattonelle verdi della cucina mi portano lontano lontano. In un dolce dolcissimo limbo. Mentre lì ci facciamo di merda tutto tace. Ogni cosa diventa un piacevole niente, sembra di essere a casa. Di essere finalmente a casa. E la morte e la tristezza e la noia e la violenza cedono il passo a questo infinito meraviglioso silenzio.

Moriremo insieme, mi dice ancora. Lo so, rispondo.

Trust I seek and I find in you. Every day for us something new

Open mind for a different view… and nothing else matters

 
 
 
 
 
Casa di Ringhiera - Léon was here - Lulu Withheld

© Léon was here – Lulu Withheld

 
 
 

L’ultima volta, la nostra ultima volta, è che siamo ubriachi di Jack Daniel’s alle due del pomeriggio. I suoi sono al mare. La casa è vuota. E ricordo Soderbergh in televisione. Ricordo noi sdraiati nudi sui divani di pelle marrone, le tapparelle abbassate, l’odore del fumo, Beethoven che saturava l’aria.

E ricordo che mi è venuta la nausea. Una nausea pazzesca.

Mi sono alzata per vomitare ma lui mi ha trattenuto, mi ha detto Resta, mi ha bloccato sotto di sé e mi è venuto dentro. La luce nei suoi occhi non c’era più.

Io ventidue anni, lui ventiquattro.

E tutto l’amore era andato perduto.

 
 
Casa di Ringhiera - Léon was here - Lulu Withheld

© Léon was here – Lulu Withheld

 
 
 
Così me ne sono andata, la nausea, il disgusto, la voglia di piangere. Lui che diceva Moriremo insieme eh mia principessa. Promettimelo. Promettimelo…Io ho chiuso la porta. Era il tramonto fuori. Io ho sempre odiato i tramonti. Vedi sono la fine delle cose. Sono la luce che scompare dagli occhi delle persone.


Me lo hanno detto stamattina che non c’è più.

 
Quarant’anni io, quarantadue lui.
 
Ho cercato di recuperare nella memoria in mezzo ai ricordi le emozioni di quei baci rubati sulle panchine stretti contro i muri nei sottopassi lontani dagli sguardi e la sensazione di eternità nell’incidere i nostri nomi sul legno di quelle stesse panchine sull’intonaco scrostato dei muri sotto Campo di Marte. Sui muri. Sulla nostra pelle, Léon. 

 

Let the bed sheet soak up my tears

And watch the only way out disappear

Don’t tell me why, kiss me goodbye

 

 

Casa di Ringhiera - Léon was here - Lulu Withheld

© Léon was here – Lulu Withheld

 

Fargo I: Il riscatto dell’antieroe borghese

fargo I

«Avrebbe scrollato le spalle se gli avessero detto che la sua vita sarebbe cambiata di punto in bianco.»

Georges Simenon

fargo I

FARGO — Pictured: Martin Freeman as Lester Nygaard — CR. Matthias Clamer/FX

Quanto sarà alto Lester Nygaard? Più o meno quanto il suo spessore morale o la sua fortuna nel farla franca. Un metro e cinquanta circa. Né troppo, né troppo poco, una statura media. Come medio è il personaggio che incarna, come nei limiti della medietà risiede la sua grandezza nel diventare, velocemente, assassino. Uno che era solamente assicuratore.

La vicenda mi ha ricordato tanto un libro che non mi è piaciuto molto o che non mi è piaciuto quanto Fargo: L’uomo che guardava passare i treni, di Simenon, che racconta la storia di Kees Popinga, gentiluomo di Groninga, che da un giorno all’altro diviene ricercato in mezza Europa. Lester agisce più o meno secondo gli stessi meccanismi mentali e con la stessa cristallina lucidità. Ma non viene ricercato nell’immediato, perché di lui si comincia a sospettare tardi, perché lui è intoccabile dentro le mura della sua blanda quotidianità, dei suoi cortesi buongiorno e buonasera, dei suoi sorrisi luccicanti; è un piccolo uomo pulito, i cattivi sono altri.

A Fargo, che in realtà Fargo non è – perché è in parte Bemidji, in parte Duluth – c’è sempre la neve.

 

Tutto è permeato da un sottile ma denso strato di bianco. Un bianco che non è sinonimo di purezza ma solo il colore che meglio riesce a far saltare all’occhio il rosso del sangue. Lester è il nostro antieroe borghese, ciò che di più lontano c’è dal working class hero cantato John Lennon e ricantato dai Green Day, in tempi più o meno recenti.

Ma è anche un personaggio ironico, divertente, adorabile nella sua mancanza di consapevolezza prima e nel suo panico dopo, che però diventa subito un dolce menefreghismo, irresistibile nella sua splendida lucidità. Rappresenta tutto quello che noi vorremmo fare ma che non abbiamo il coraggio di fare. Le nostre pulsioni che in genere vengono sempre ostacolate dal buonsenso e dalla ragione, sono finalmente libere, grazie a Lester. Il riscatto delle piccolo antieroe che diviene efferato assassino.

Ma. Non è colpa sua. È stato quel Malvo e mandare tutto a puttane, nella gloria dei cieli del Minnesota, in pace, tra i cumulonembi portatori di tempesta. È stato un po’ il clima un po’ la brutta compagnia e lui si è fatto trascinare nel vortice, dolcemente.

Ho rivisto Fargo nelle sere d’estate, a metà luglio, quando impietosi i gradi del termostato di casa salgono e i climatizzatori non bastano. Allora c’è solo un luogo dove andare – se già si sono esauriti gli scenari di Grande Inverno – quel posto è Fargo, che seppur solo idealmente, stempera quell’imperturbabile afa e ci fa sentire freschi. Ma non esagerate con le dosi, se si stringono amicizie un po’ malsane con alcuni personaggi, freschi equivarrebbe a troppo freschi, oltremodo gelati, ergo morti. In Fargo la morte è trattata come i Fratelli Coen sanno fare, come evento tragicomico e divertente.

Lester, maldestro e un po’ rammollito, è un perdente. A questo si aggiunge una frustrazione inarrestabile provocata dalla sua scontenta moglie piccolo borghese, casalinga a tempo pieno, una gran rompicoglioni. Con una raffica di estenuanti lamentele lo colpisce ogni giorno, cercando di inghiottirlo con la sua invidia che divampa durante le loro cene dense di rammarico e delusione.

È una marea di sangue, Lester, questa nostra vita. La merda che ci fanno ingoiare giorno dopo giorno, il capo, la moglie, eccetera, sfinendoci… Se non ti opponi e non gli spieghi che sei ancora una scimmia, nel profondo, lì dove conta, alla fine vieni spazzato via.

 

Un bel momento, il nostro antieroe – preso non tanto da una rabbia cieca e improvvisa, quanto da un malessere covato progressivamente e diventato troppo grande ormai, incontenibile per quel corpo così piccolo in cui risiede – sarà costretto a compiere un’azione un po’ grottesca, lontana eticamente dalle regole stabilite da una società funzionante. Commesso il tragico gesto e dopo essersi fatto una risata a metà tra l’isteria e la liberazione da un fardello troppo pesante, precipita in un panico angosciante.

Questo atto si connette alla rappresentazione della morte pensata dai Coen: la morte non è oscena, ovvero posta fuori dalla scena, la morte è spassosa, sembrano urlare i Coen. E oltre ad essere spassosa è anche banale, consueta, strana. Molto strana. Un evento più comico che tragico nell’ordinario corso dei giorni, delle settimane, dei mesi. La suddetta scena, avviene subito, alla fine della prima puntata. Ma sembra che in realtà avvenga molto, molto tardi, quasi alla fine della serie, per quanto è bramata e per quanto la situazione sia esasperante, nel contesto ordinario abitato dal protagonista.

Ogni cosa, a questo punto, diventa una questione di scelte e libertà.

«What if you’re right and they’re wrong?»

Fargo

Forse Lester è l’unico assennato, in un mondo di idioti. Ma nessuno lo capisce, Lorne Malvo lo intuisce. Malvo però è una specie di serial killer, il cattivo della storia, ed è questo il problema. Lester stringe un’amicizia pericolosa che combinata alla sua sbadataggine lo mette in guai grossi, ma lo libera anche. Il punto è: quanto siamo disposti a pagare per la nostra libertà personale? E la seconda domanda è: ma che cos’è davvero, questa libertà?

Se provassimo a leggere la situazione di Lester mediandola tramite il pensiero di Camus, applicando la famosa citazione «la libertà non è che una possibilità per essere migliori» la questione si fa difficile. Perché, dopo l’assassino, Lester diventa davvero una persona migliore, ma l’atto per cui lui stesso è riuscito a raggiungere questo miglioramento non è per niente corretto moralmente.

 

Il mezzo usato per diventare migliori è in fondo molto sbagliato e l’antieroe non sembra rendersene conto, perché davanti a lui si spalancano sin da subito orizzonti bellissimi di possibilità. È il sogno americano raggiunto da un uomo che è tutt’altro che sognatore. Il riscatto di Lester, tuttavia, è molto sentito dallo spettatore, che si schiera sin dalla prima puntata dalla sua parte perché l’antieroe è un perdente e fa un po’ pena, perciò tendiamo a tifare per lui. Perché lui ci ricorda tanto noi.

Che dire allora di questa serie, senza cadere nell’errore di raccontare molto, di raccontare male non garantendole giustizia, di raccontare troppo poco? Senza cadere nell’orrore di descrivere le sue oscenità, di poggiare per un tempo poco consono l’occhio sul sangue che scorre lento, che tinge i muri, i marciapiedi, gli interni delle case nordamericane? Si potrebbe partire dalle musiche, bellissime, di Jeff Russo. Composizioni che ascolto in macchina, quando guido nella notte e che a volte, causa anche l’oscurità, mi terrorizzano, in parte perché le associo agli eventi della serie, in parte per il loro essere pregnanti in modo autentico, misteriose nella loro strumentale bellezza.

Cosa aggiungere dei personaggi, senza soffermarsi troppo sul protagonista? Si potrebbe dire, riducendo tutto ad una visione semplificata ma non eccessivamente semplicistica, che Lester ha tutti alle calcagna, tranne il cattivone, Malvo. Tuttavia anche il cattivone, un po’ incazzato, sarà ad un certo punto contro di lui.

E lui, Lester, agendo per paura, verserà ancora altro sangue sulla sua coscienza e quando alla fine crederà di essere redento e salvo, beh, non ve lo posso dire cosa succede alla fine. È il protocollo che me l’impone. Ma guardatela questa serie, perché se solo sarete capaci di andare oltre la bonaria stupidità di alcuni protagonisti, saprete apprezzate il bello della mediocrità, il fascino dell’antieroe borghese, figura della quale in questi tempi si sente la mancanza, perché è facile essere un eroe, ma antieroi, con stile, non è da tutti.

 

Soundtrack 

Jeff Russo ‎– Fargo (Original Television Series Soundtrack)

 

© Iole Cianciosi

Case di cartone ed entomologie da strapazzo.

Casa di Ringhiera – Case di cartone ed entomologie da strapazzo. - Cristina Rizzi Guelfi

Nelle case il tempo passa più lento, i capelli sul pavimento diventano più scuri e senza la cornice del linoleum. Qualcosa di torrido infesta gli appartamenti. Si tratta di movimenti studiati nei particolari, occorre fare attenzione alla posizione delle sedie, ai movimenti delle tende, ai soprammobili superflui. Le case sono popolate da donnine spuntate per caso, ai piedi di una collina di feci, oppure montate alla rovescia, con viti troppo piccole infilate nelle giunture più importanti e con voluminosi cavi e lacci metallici collocati direttamente nelle minuzie, sulla pelle di velina, nell’attaccatura dei capelli, sulla pellicina delle unghie. Mostri macchinosi, vestiti di veli e scarpette leggere. Tra i vapori delle tinture per capelli che si mescolano all’aroma della brodi di pollo, tirate per i capelli dalla routine, sedute su una poltrona verde delle ambiguità. Quel filo dorato e noioso dei giorni infilati, dei mercoledì banali e feriali, dello stesso posto a sedere tavola, degli amici dai nomi conosciuti e dai volti stranieri. Case con pareti troppo colorate dall’odore della paura e dal richiamo della fuga. Tutto porta a  un dislivello ulceroso, uno stancante declinare, quella strana emorragia da singhiozzi e pagliuzze di stagno. Le case mutano la consistenza delle persone fino a diventare liquide, senza corpo e il fiato è così basso da non permettere eco. Le case nascondono ogni segreto.

Casa di Ringhiera – Case di cartone ed entomologie da strapazzo. - Cristina Rizzi Guelfi

© Cristina Rizzi Guelfi

YOUniverse s2: l’eterno presente di Lulù Withheld.

YOUniverse, un progetto di Lulù Withheld.
In mostra fino al 4 novembre a Paratissima, Torino.

 

Feeling different. L’invito dell’ultima edizione di Paratissima è quello di mettere in scena il cambiamento, l’evoluzione, quel senso di straniamento, l’altro da sé che muta e si manifesta e risveglia nuove consapevolezze. Sensazioni che diventano materia, “risultato di un’esperienza catartica alla scoperta di sé, in cui il creare diventa l’unico modo per mettersi veramente a nudo“.  Ludovica Romano e Gabriele Pantaleo, i curatori del progetto “Mettersi a nudo” inserito nella sezione N.I.C.E., New Indipendent Curatorial Experience di Paratissima, hanno selezionato diversi approcci alla ricerca dell’identità.
Quello di Lulù Withheld è tra questi, qui, a Torino.

Lulù Withheld e il suo mondo fatto di racconti per immagini. Quasi sempre fuori fuoco, le sue. Rarefatte e sfuggenti come la sua natura, drammatiche e piene di poesia.  Qui a Paratissima con un dittico, un’installazione claustrofobica con cui si interroga sul senso del sé – vero o presunto – sulla percezione alterata e distorta della presenza, la non-esperienza, la ricerca spasmodica del riconoscimento del proprio personalissimo universo: YOUniverse.

Uno schermo nero, uno specchio oscurato, un monitor spento. Simile allo specchio che detesto guardare che riflette una me che non voglio più ri-conoscere. Simile al nulla.
Poi guardo meglio, mi avvicino di più, il bagliore ancora.

Due figure in un fermo immagine si stagliano nell’oscurità e sembrano prendere vita. Immobile e mutevole, come un grido muto che il corpo pronuncia senza parole. Attraverso una tensione struggente che non si esaurisce, ma si cristallizza in quell’istante in-finito. Eterno presente, in loop.

YOUniverse S2 - © Lulu Withheld

YOUniverse S2 - © Lulu Withheld

Un uomo e una donna. I corpi nudi che emergono dal nulla, come una si muovessero nell’oscura consapevolezza della natura mutevole e oscena che deve necessariamente compiersi e, in qualche modo, trova la via. Del compimento. O della fuga. Apparente. Effimera. Fragile.
Corpi che si muovono in quell’oscurità e perdono coscienza della realtà. Aspirano in qualche modo ad essa ma non riescono a raggiungerla. Immersi in un liquido amniotico scurissimo che li protegge ma  offusca la vista e preserva dal contatto con l’io. Dal contatto con l’altro. L’altro è Io. Il Corpo, se stessi, nell’ossessione della resa. L’arrivo all’origine, infine. Al doppio. All’altro mediante l’unica arma concessa. Ed è come una lotta. Brutale.

Due figure escono fuori dal buio. Attraversano il disfacimento di quel nero per giungere alla luce. Le guardo le figure, sembrano delle figure esiliate. Come se fossero me stessa. Lontane anni luce dal qui e ora, ma allo stesso tempo qui e ora. Immobilizzate nella loro rovina. Che è anche la mia.
Le figure mi guardano da dietro questo simulacro di specchio. Sono certa che mi stiano guardando. Claustrofobicamente incastrate nel loro mondo. Che è anche il mio.
Bloccate nel loro eterno presente. Come il mio eterno presente.
Incapaci di relazionarsi nell’intricato selvaggio deserto di relazioni. Come me.
Nude. Come lo sono io.
Tutto so di te. Tutto sai di me.

Un’illusione, l’unica certezza di questi corpi esposti. La pelle, gli sguardi negati, la carne offerta e rifiutata, divorata e mortificata nella negazione, il nero dei tatuaggi che incide la pelle e disegna traiettorie possibili che non vengono percorse, ma raccontate tra ombre e bagliori artificiali che non danno scampo. La ricerca spasmodica del compimento che non può esserci. Non dietro un vetro. Non dentro quel nero crudele.  

Uno accanto all’altra: i due corpi vicini tanto da potersi quasi sfiorare, ma intrappolati in una dimensione individuale che non lascia altro spazio. Né scampo.

Quello che resta è un corpo.
Alla ricerca di un altro corpo.
Per sempre.
Senza requie, per sempre, la ricerca.
Ma essi, i corpi, non possono toccarsi, non possono sfiorarsi.
Blindati dentro loro stessi.

Nel loro singolo UNIVERSO.

YOUniverse S2 - © Lulu Withheld

YOUniverse S2 - © Lulu Withheld

YOUniverse S2 - © Lulu Withheld

YOUniverse S2 – © Lulu Withheld

soundtrack: Red Queen – Coil 

Oltre l’onda: immagini del mondo fluttuante

la grande onda di kanagawa

Le opere esposte al Museo Civico Archeologico di Bologna in occasione della grande mostra Oltre l’onda – Capolavori dal Boston Museum of Fine Arts [12 Ottobre, 2018 – 3 Marzo, 2019], sono tantissime, almeno duecentocinquanta, e camminare tra le stanze del quattrocentesco Palazzo Galvani, ex “Ospedale della Morte”, circondati da silografie policrome tanto antiche, che tuttavia nulla invidiano alla contemporaneità, è un atto quasi religioso, come se stessimo percorrendo la strada che conduce al Nirvana.

È la sensazione, molto rara in questi nostri giorni contemporanei, di cessazione del tempo, di languida stasi, di equilibro sospeso. Sembra di ritrovare la pace interiore persa in luoghi lontani, il respiro si fa più calmo, i battiti più lenti, le onde cerebrali procedono ad una frequenza ribassata. I muscoli si distendono, la pressione diminuisce. Eppure, in questa sorta di sogno, siamo svegli. È una veglia ricca di curiosità, carica di stimoli, densa di colori. Le pennellate sono decise, le tinte vivide, la mano di chi ha realizzato tutto questo era ferma.

Si aprono davanti ai nostri occhi dei paesaggi ampi, degli scenari orientali fatti di ritmi quotidiani – animali, fiori, genti, monti – e basta un niente per ritrovarci a danzare, cautamente ma con allegro trasporto, tra le silografie di Hokusai e Hiroshige e le pellicole di Miyazaki. Perlomeno questo è quello che ho provato io: è stato come vedere un sottilissimo filo teso in un dialogo proficuo, tra le opere dei due pittori giapponesi ottocenteschi e le languide atmosfere che emergono dai film del regista di Tokyo.

Katsushika Hokusai, La grande onda di Kanagawa, 1830-31

Proprio questa città è una delle protagoniste onnipresenti della mostra, nella sua versione di centosettant’anni fa, quando si chiamava Edo. Un posto magnifico dove storie e strade s’incontravano. Dove c’erano pace, sfarzo, momenti di meditazione, ore lussuriose, giornate intere da dedicare alla produzione di immagini del mondo fluttuante, ukiyōe, le preferite dell’aristocrazia del tempo.

In un ordine più o meno sparso, tra la produzione di Hokusai e Hiroshige, ci si immerge in un contesto dove mancano appigli sicuri per far ritorno nella nostra realtà. Una circostanza nella quale affiorano, come spiriti da un mondo sommerso, uomini su ponti traballanti che trasportano sulla schiena covoni di paglia, alberi sacri, vecchie e dimenticate leggende, figure umane in paesaggi innevati, bollitori del tè sui rami antichi di robusti aceri, case abbarbicate su coste rocciose, uomini che in giornate ventose rincorrono i loro cappelli di paglia (kasa) e poi carpe, tartarughe giganti, delicatissimi fiori.

Katsushika Hokusai, Il pescatore di Kajikazawa, 1830-31

Katsushika Hokusai, Ejiri nella Provincia di Suruga, 1830-31

È difficile tornare indietro perché in quei posti ci si resterebbe volentieri, tanto si sta comodi. Molti non sono tornati, come succede con Bangkok, alcuni sono ricomparsi più forti e coraggiosi, come la carpa di Hiroshige, un drago delle nuvole che risale il torrente, altri ancora sono riemersi come persone nuove, tanto che hanno deciso di cambiare nome per la nuova fase della loro vita che si è aperta a seguito della mostra. Anche Hokusai ha cambiato spesso nome, in linea con una tipica tradizione giapponese. A inizio carriera si firmava come Shunrō che significa splendore di primavera, ma è ricordato come Hokusai, che vuol dire studio della stella del nord.

«Conosci il nome che ti hanno dato, non conosci il nome che hai» direbbe Saramago.

Questa non vuole essere la descrizione puntuale di una mostra, questo scrivere si vuole porre solo come un tentativo di indagine su quello che resta dopo tutto e alla fine di ogni cosa. Non è facile fornire una degna risposta a quella che è una domanda piuttosto ingarbugliata. Ci si chiede che cosa ci sia al di là dell’onda, ma ci si dovrebbe domandare che significato ha, nella sua essenza più pura, quell’onda. È una cura per lenire le nostre ferite? Un solvente per i nostri peccati?

È l’immagine di quella fine auspicata da Pavese ne La Luna e i falò quando scriveva «Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci»? Un’onda, insomma, per ricominciare. Come quando il mare di fine settembre si trascina via di nuovo i detriti delle mareggiate che lui stesso aveva portato a riva. Il mare che si riprende ciò che gli appartiene.

Utagawa Hiroshige, Acquazzone sul ponte Shin-Ōhashi ad Atake, 1857

Utagawa Hiroshige, Carpa, 1840-42

Cosa troveremo, allora, oltre l’onda? Che ci sarà dopo quegli spruzzi di spuma densa, oltre le note di contorno sfrangiate di quella che è unicamente acqua marina incisa su legno, impressa su carta e poi colorata? Al di là della montagna di vita – perché la vita è un evento acquatico – troviamo l’Immenso nella sua rappresentazione più umana e nell’opera di Hokusai più frequente e abusata: il monte Fuji, che vuol dire L’Infinito.

Attraversiamo così, onda dopo onda, le nostre esistenze. E alla fine ci ritroveremo naufraghi su qualche isola deserta. Con niente tranne che una manciata di sogni e alghe in testa che ci coprono la vista.

In questo momento le parti si ricongiungono in questo orizzonte in trambusto con più di una barca in un instabile equilibro. Imprigionata tra onde come artigli, per dirla à la Van Gogh. «Quelle onde sono artigli, la nave vi è imprigionata, lo si sente». Ci sentiamo in qualche modo al sicuro, come se in mezzo alla tempesta perfetta, fossimo salvi, redenti dalle nostre colpe. Pronti per una qualche fine, a faccia a faccia con l’Eterno. Non abbiamo paura, perché la paura è inutile in questa circostanza. Siamo unicamente consapevoli e procediamo, nell’orizzonte fluido, colmi di un consenso languido e forse osceno.

Avremo dei ricordi, probabilmente, oltre l’onda: ricordi di speranze, sorrisi, qualche canzone, qualcosa in cui credere, stendardi da portare, dolori con i quali confrontarci. Oltre l’onda resteranno i pensieri belli, la risacca pericolosa e magnifica e un leggero vento di Scirocco, da sud-est.

 

Some songs

The Tallest Man on EarthLove is AllThe Dreamer, Rivers

 

© Iole Cianciosi