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Il simbolismo etereo e oscuro di Michaela Knizova

Michaela Knizova ( Hnúšťa, Slovacchia, 1982) inizia la sua carriera artistica come pittrice per poi dedicarsi alla fotografia (affiancandovi video e performance) sotto lo pseudonimo Nynewe.

“Gardener, nihilist, artist, photographer, chicken lady. 

Collecting fragments from different times and different planets. 

Sometimes a set photographer”

Così ama definirsi sui vari social, una visione molto diversa da ciò che si pensa guardando (e ammirando) le sue foto.

Nynewe usa principalmente il suo corpo e autoritratti per esprimersi.

Un’arte, la sua, che intreccia storie personali con una oscura  femminilità paranormale, piena di simbolismi attinti dalle fiabe classiche e dai miti popolari, reinterpretando alcuni archetipi mediante la sua visione.

I am working with contemporary myths (pop culture, comix, horror movies), urban myths… romanticizing things.

I let my body become part of the places I use and melt them together with classic themes like saints but also elements of pop culture like horror movies.

I want to create, with my body at the centre, a vision of unsettling shadows that still haunt the man in the civilized world.

Cresciuta in una piccola città di montagna, Michaela ha realizzato diversi suoi progetti immersa nella natura che circondava la sua casa e questa natura è oggetto del suo ultimo lavoro, ancora in fieri, “There is nothing new under the sun, but there are new suns.”

Titolo-citazione di un racconto “Parable of the Talents” della scrittrice femminista sci-fi Octavia E. Buttler.

Il progetto è una narrazione poetica, quasi un diario immaginario di un viaggiatore che scatta foto su un “pianeta diverso”, intatto e disabitato.

Le fotografie sono esemplari di paesaggi, mondi possibili o immaginabili. Questo lavoro può essere letto come una reazione poetica e romantica ai crescenti problemi ambientali della nostra epoca.

Per questo progetto Michaela utilizza la fotografia analogica in bianco e nero, sperimenta diversi filtri e ISO molto elevati per creare alti contrasti, cieli neri surreali ed erba bianca, conferendo un’atmosfera poetica e mistica; lavorando infine con le emulsioni direttamente in camera oscura.

Altro progetto recente e’ “The Trauma Of Birth”, iniziato nel 2015 e presto interrotto per mancanza delle polaroid nere non più disponibili sul mercato.

Il titolo prende il nome da un libro dello psicoanalista Otto Rank, nel quale egli espone sistematicamente tutte le emozioni umane intorno alla sua idea del trauma della nascita. Descrive la nascita come la prima morte nella vita di un essere umano.
La nascita e il suo specchio, la morte, sono fortemente collegati tra loro e si ritrovano spesso come antagonisti in superstizioni, miti e credenze.

La nascita, la morte e il lutto sono stati avvolti in cerimoniali e fortemente ritualizzati. Ne è derivata un’estetica intensa e spesso morbosa. È mio interesse e studiare quei luoghi dedicati alla “celebrazione” della morte come chiese, cimiteri, cripte, musei, ecc. e indagarne gli aspetti sociali. Direi che il tema della morte, la sua rappresentazione, il suo impatto e il suo significato appaiono di frequente nel mio lavoro.

Altri lavori di Michaela si possono trovare sul suo sito, instagram e tumblr:

www.michaelaknizova.com

@nynewe

https://nynewe.tumblr.com/

BlackHaus, the Dark side of CdR.

michaela knizova

Dark. Violent. Disturbing.

Anche Casa di Ringhiera ha un lato o-scuro. Nero, nerissimo e non solo. Inaspettato, pre-potente, bramoso, lussurioso, inquieto, disturbante. BlackHaus è un affascinante ammaliatore che affonda nella parte più nera della bellezza, la fa a pezzi e poi ci travolge, mostrandocela ogni giorno. Da due anni.

BlackHaus, infatti, fa la sua prima apparizione su Instagram il 18 giugno 2018. Il progetto nasce da un’idea di Andrea Bastian (già photo editor di CdR, ndr) e dall’esigenza di dare spazio alla fotografia in bianco e nero (e non solo) che, fino a quel momento era stata condivisa sporadicamente sul profilo di CdR.

“Il pubblico di CdR – ci spiega lo stesso Bastian – e’ un target giovane, tendenzialmente romantico e sognatore che considera il b/n come qualcosa di “antico” e poco appealing. Sui social, i contenuti b/n sono spesso ripetitivi e propongono immagini piuttosto scontate e stereotipate. Senza contare che l’approccio italiano é tendenzialmente focalizzato sul tecnicismo e la messa a fuoco.
Creo cosi’ BlackHaus. Black per il richiamo al b/n e Haus alla casa (Casa di Ringhiera, come casamadre). In tedesco, per una personale passione verso la cultura germanica, soprattutto in campo musicale contemporaneo.

Come CdR, BH si propone di far emergere e diffondere quegli artisti che creano arte fuori dagli schemi, trasgressiva nello spirito piu’ che nell’estetica. Un’arte che sappia emozionare, colpire lo spettatore, suggestionare.

Art should comfort the disturbed and disturb the comfortable”

Ho fatto mie le parole di Cesar A. Cruz e riprese da Banksy che le ha immortalate sui muri di alcune citta’.
E sono queste le parole e lo spirito che condiziona la scelta delle immagini. Non bado ai likes e alle foto che creano engagement. Scelgo solo cio’ che mi colpisce profondamente. Il risultato di questo mio personale sentire si riflette nell’ estetica della gallery, coerente e armonica nello stile (tanto da sembrare a prima vista l ‘ account personale di un unico fotografo, se non fosse per i whitebox che separano tra loro gli artisti).
Il pubblico di Blackhaus e’ prevalentemente piu’ maturo e proveniente da paesi esteri. Guarda al progetto BH come fonte di ispirazione, consapevole di trovare foto più ricercate e meno “pop” o mainstream.
Non e’ facile spiccare il volo su Instagram. Di per se’ non e’ un luogo per promuovere l’ arte ma resta comunque il social piu’ diffuso.
Così sfrutto questa popolarità e dinamicita’ per condividere una fotografia piu’ oscura, disturbante e violenta. Una violenza estetica contro gli schemi perbenisti medievali omofobici razzisti e sessisti che permeano la nostra societa’“.

Seguite BlackHaus su Instagram.

Cover photo credit: Michaela Knizova

This is not Hollywood

Di Irene Caselli

Un viaggio ti cambia, sempre.

Un viaggio cambia le persone che viaggiano, le persone che restano e i rapporti tra di loro.

Mi piace viaggiare, mi piace la malinconia di casa, mi piace la valigia che non si chiude mai, mi piace il jet lag e mi piace la mia paura di arrivare tardi in aeroporto.

Mi piace quando non vorrei mai tornare.
Poi torno e sono felice.
E poi mi prende di nuovo la voglia di ripartire.
Mi piace quando torno tutta stropicciata e ho addosso l’odore dell’aereo.

Ho la fortuna, al momento, di poter viaggiare per lunghi periodi e di solito questi miei lunghi viaggi avvengono in particolari momenti della mia vita, in qualche modo

L’America è la mia India.



Ho intrapreso il mio primo lungo viaggio, da sola, dopo aver perso mia madre. Questo viaggio invece è coinciso con un periodo difficile per me. Difficile perché avevo perso la fiducia nelle mie capacità di giudizio verso me stessa, verso gli altri e nel mio lavoro. Difficile perché improvvisamente mi sono resa conto di dover rinunciare a un mio grande desiderio da sempre. Un classico brutto periodo, pieno di stress, rabbia, dolore e perdita.

Così ho deciso di prendermi questa lunga vacanza, questo lungo viaggio del quale avevo bisogno; non per fuggire ma per fermami e riflettere.

È stato un viaggio di tre mesi attraverso un’America così gigante e così piena di contraddizioni: bellissima e spietata al tempo stesso.



Un lungo viaggio da costa a costa, da grandi e luminose città al silenzio e alla solitudine del deserto. Un viaggio che, solo ora che sono tornata a casa, riesco a capire quello che è stato, quello che mi ha dato.
Una sorta di “Mangia, prega e ama”, anche se potrei benissimo chiamarlo “Mangia, mangia e mangia”, sono ingrassata tanto, troppo.

Un viaggio che mi ha permesso di conoscere e incontrare persone meravigliose, persone che mi hanno fatto sorridere di nuovo.
Persone che mi hanno fatto credere di nuovo nel significato di amore e rispetto. Persone che mi hanno fatto di nuovo credere nel concetto di famiglia e soprattutto nel valore delle parole…


Un viaggio che mi ha permesso di conoscere la parola “integrità” che è bellezza, perché le parole, come la musica, hanno potere e ti cambiano la vita.
Se esiste la parola ne esiste anche il concetto, se una cosa è detta o scritta, esiste.

Vorrei ringraziare ogni singola persona incontrata in questo viaggio, una per una, come non sono riuscita a fare. Soprattutto ringraziare una persona che, con la sua integrità e con la sua pazienza, si è presa cura di me facendomi vedere il mondo attraverso una nuova prospettiva e nuove parole. Grazie Elizabeth.


Ho vissuto a Los Angeles e ho attraversato il deserto della California, del Nevada, dell’Arizona, poi sono salita su un aereo per Nyc e sono ritornata di nuovo sulla costa californiana.

Los Angeles è una non-città.
Los Angeles è un’immensa zona residenziale, dove riescono a convivere sogni e incubi.
Lo senti, lo senti dappertutto… dove pare che alle persone manchi una rete di salvataggio o di protezione. Qui le persone rischiano il tutto per tutto e, se va bene, va bene alla grande e se va male… beh qui arriva l’incubo… non ci sono mezze misure.


Due cose mi hanno colpito: il Tempo, mi sembra passare più velocemente che in Italia, e il cielo che mi sembra più basso… ma a Los Angeles c’è una luce e un tramonto che è unico, non ho mai visto una luce cosi…

Non è certo la Los Angeles dei telefilm, delle commedie romantiche e dei cartoni Disney con cui sono cresciuta, ma è più la Los Angeles di “Mulholland drive” di Lynch o di “The Neon Demon” di NWR, o almeno lo è stata per me.
Ed è si, una città solare, nel senso che c’è sempre il sole e quella luce particolare che non ho mai visto in nessuna altra città ma in contraddizione, nel profondo, è una città dark e oscura.
È una città fabbrica di falsità e quindi di felicità, dove il tuo essere strano e folle è la tua unicità.

Un’amica mi ha detto che Nyc ti definisce, ma a Los Angeles se tu sai chi sei, puoi esserlo…

Forse non so ancora bene chi sono…

City of stars
Are you shining just for me?

City of stars
There’s so much that I can’t see

Who knows?
Is this the start of something wonderful and new?
Or one more dream that I cannot make true?

Las Vegas è piccola, la immaginavo più grande, ma è bella perché è una città in mezzo al deserto.
Ho avuto la fortuna di alloggiare al Bellagio hotel, che è una sorta di istituzione con il suo soffitto di vetro e con il gioco di fontane all’entrata. Non credo di poter dimenticare la stanza meravigliosa e il bagno dell’hotel con tv nello specchio e una vasca da bagno idromassaggio con vista sulla città… Naturalmente dopo il viaggio nel deserto ho fatto un bagno di tre ore.
Se non sei una giocatrice come me, possono bastare due giorni per vistare Las Vegas e le cose da non perdere sono: lo show “O” del Cirque du Soleil, la cena da Spago e la finta Venezia.

Il deserto americano (da Joshua Tree, Mojave, Coachella, Death Valley, al Nevada e Arizona) è spettacolare e immenso, triste e pieno di vita al tempo stesso.
C’è qualcosa di inspiegabilmente artistico nel modo in cui il paesaggio cambia in colori e vegetazione… e capisco perché sia stato meta spirituale di artisti, visionari, vagabondi e sciamani… ed è inaspettatamente pieno di arte (musica, cinema, teatro, arti visive).


Una menzione particolare va alla splendida Palm Spring, cosi retrò – chic che potrei viverci…


New york City è il cuore e la famiglia, sempre. La mia seconda casa. Non c’è nulla al mondo come Nyc.


Vorrei raccontare anche di una piccola piccolissima storia, che mi ha colpito molto.
Nel deserto della California, in mezzo al nulla in una cittadina di dieci abitanti, c’è un teatro dell’Opera.
Nel 1967, una ballerina di Nyc, Marta Becket si innamorò di questa cittadina, quando la sua automobile ebbe un guasto proprio nelle vicinanze.
Questa ballerina decise allora di costruire, proprio nella cittadina in mezzo al deserto, una Opera House, un teatro dell’Opera, dove per decenni ha intrattenuto i pochi abitanti, i curiosi e i turisti in spettacoli di danza e mimo.
A volte danzava da sola, senza spettatori, cosi decise di dipingere alle pareti del teatro il suo pubblico. Marta dipinse il pubblico che immaginava avrebbe assistito ai suoi spettacoli: nobili, zingari, suore, persone normali, artisti, gatti…
Ho sempre pensato che l’arte è di tutti e, forse, deve averlo pensato anche lei.
Marta purtroppo è scomparsa due anni fa, a 92 anni, ma il suo teatro è ancora meta di visite guidate e di spettacoli.

La sera prima della vigilia di Natale ho assisto a uno spettacolo di canzoni natalizie nella sua Opera House. Lo spettacolo è stato bruttissimo, ma l’atmosfera e il motel vicino credo che non li dimenticherò mai… originalità da vendere, persone eccentriche e un paio di fantasmi che vivono all’interno del motel.

Eravamo circa 30 persone allo spettacolo. Io ho parlato con un uomo che veniva da O.C. solo per rendere memoria al teatro e a Marta. Lui era cresciuto in quella cittadina e grazie a lei si era avvicinato all’arte.

Mi chiedo se sia stato il destino che ha fatto fermare quella macchina della ballerina lì, in quella cittadina di dieci abitanti in mezzo al deserto e ho iniziato a pensare che no, non ho mai creduto nel destino. Vorrei crederci, davvero. Ma ho sempre pensato che siamo noi che creiamo il nostro destino e la nostra vita cambia in base alle nostre scelte e questo ci regala momenti di grande gioia o anni di rimpianti.


Ho passato gli ultimi mesi chiedendomi cosa sarebbe successo se avessi deciso diversamente, con più saggezza. E senza fare così tanti errori… Poi ho pensato a Marta che danzava da sola in mezzo al deserto, con un pubblico che si era disegnato e immaginato… e allora forse l’unica cosa da fare è danzare… senza pensare… nel deserto…

Chissà.


Un ringraziamento speciale anche ad Alessandro Michele di Gucci, per avere creato una collezione cosi strana e cosi in voga a Los Angeles, che in tuta, giacca jeans e pigiama ero sempre quella vestita meglio.


Tempo di lettura: un po’
Luogo: scritto in volo e al volo
Errori grammaticali e “sgrammaticali”: perdonatemi
Canzone: First Aid Kit – America


Sometimes you leave home to find one.

It takes courage to go there.

I sogni e le visioni di Emanuela Cau

Emanuela Cau

Emanuela Cau, classe 71, è un’attrice, regista e fotografa di Cagliari.
La sua ricerca artistica conduce in una dimensione onirica profonda e particolare, come lei stessa ci racconta:

“Vivo la  fotografia come un’estensione di me,  la parte di me che vive nell’ombra, che liberamente e arbitrariamente ricama i sogni e le visioni.

Quando realizzo i miei scatti non è la razionalità a guidarmi, non la tecnica, non metto paraventi e non cerco sicurezze: mi rendo fragile e da questa crepe emerge la parte di me che poi fisso in una fotografia.

Non mi interessa creare immagini facilmente interpretabili  o con  chiare e univoche chiavi di lettura, mi interessa di più fotografare aspetti inconsci della vita e che chi le guarda ci trovi qualcosa per sé – solo per sé – qualcosa di intimamente e irrazionalmente suo”.

Per conoscere più approfonditamente l’arte di Emanuela Cau – con i suoi sogni e le sue visioni – seguitela sui social:

Instagram: Emanuela Cau
Facebook: Emanuela Cau Photo
Etsy: Emanuela Cau Art

Isabelle, Matthew e Théo: “The Dreamers”

Isabelle Matthew

“Ora che siamo usciti e guardiamo là fuori, che cosa sogniamo?”.

Forse è una domanda che si son posti anche Isabelle, Matthew e Théo, protagonisti di uno dei film più controversi di Bernardo Bertolucci, l’evocativo “The Dreamers”, rilasciato nel 2003 tra tante polemiche.

Cosa sognava dunque quel trio così extra-ordinario? La libertà, intellettuale, sessuale, interiore, sullo sfondo di una Parigi in tumulto nel famoso maggio francese del ‘68. I tre si incontrano per caso, come nella migliore delle tradizioni, e tra loro esplode un’onirica, conturbante relazione. Isabelle, Matthew e Théo si isolano volontariamente, contraddicendo le loro ideologie politiche e rivoluzionarie. Sì perché mentre denudano la loro smaniosa giovinezza in ogni modo, fuori dal loro appartamento sta succedendo qualcosa di grande.

Isabelle, Matthew e Théo

Non uscivamo quasi più di casa ormai. Non sapevamo né volevamo sapere se fosse giorno o notte. Era come se stessimo andando per mare, lasciando il mondo lontano, dietro di noi. (Matthew)

È un isolamento ovattato che ha come cornice l’arte a 360°. Il trio la respira, discute, interpreta e reinterpreta in una sorta di film dentro al film, di vaso di Pandora delle arti, con citazioni e rimandi illustrissimi a Godard, Bresson, Hawks, Keaton, alla Venere di Milo, a Mao, a Marilyn Monroe, ai trittici di Francis Bacon e alle voluttà di Ingres. 

Vagamente naïf, ormai diventato un culto per i cinéphiles del nuovo millennio, “The Dreamers” racconta, nella maniera più pura ed estrema, l’irripetibilità di un momento storico che i tre protagonisti decidono di affrontare facendo leva sulla solidità e la spavalderia della loro giovinezza. I tre infatti diventeranno amanti e il loro fragile idillio sarebbe durato all’infinito o sarebbe morto tragicamente se, in una perfetta metafora della vita che irrompe senza preavviso nell’esistenza di ognuno di noi, la rivoluzione che imperversava a Parigi non fosse letteralmente entrata dalla loro finestra.

Forse lo schermo era veramente uno schermo, schermava noi, dal mondo. Ma ci fu una sera nella primavera del ’68 in cui il mondo finalmente sfondò lo schermo. (Matthew)

Il finale è amaro: sottolineato dalle note di Non, Je ne regrette rien di Edith Piaf i tre si separano. Isabelle, fedele al suo gemello fino alla fine, si getterà nei tumulti parigini mentre Matthew, svegliatosi da un sogno sì bellissimo ma finto, abbandonerà Parigi e il suo perduto pudore.

E del sogno cos’è rimasto? Resta l’amore declinato in ogni sua forma, amore per la settima arte, amore per la musica, amore per l’amore, amore per l’incompiuto. Isabelle, Matthew e Théo lasciano tutto in sospeso: la rivoluzione, le loro vite, il sesso neo scoperto, la relazione con i propri genitori, la maturità mai completamente raggiunta.

Isabelle, Matthew e Théo

Sostanzialmente è un’utopia annunciata, resa credibile però dal fuoco della giovinezza e dei sogni dei protagonisti. È chiaro che Godard e la rivoluzione sessuale all’epoca della Cinémathèque française di Langlois non avrebbe cambiato il mondo ma, per un po’, grazie a loro tre, qualcuno ci ha creduto.

Isabelle, Matthew e Théo

L’irripetibilità di quel momento che trova un compagno anche nella nostra personale battaglia odierna, nella nostra ricerca di compiere l’incompiuto, di recuperare sogni e rivoluzioni.

La domanda allora resta aperta: “Ora che siamo usciti e guardiamo là fuori, che cosa sogniamo?”.

O forse, alla luce del film di Bertolucci, si potrebbe dire: “Ora che ci siamo svegliati, riusciamo ancora a ricordare quello che stavamo sognando?”.

“Prima di poter cambiare il mondo, devi renderti conto che tu, tu stesso fai parte del mondo. Non puoi restartene fuori a guardare dentro”. (Papà di Isabelle e Théo)


Fonte immagini: https://www.imdb.com/title/tt0309987/mediaviewer/rm1669107969

Storia Nera

di Luca Mata.

Sono a spasso con il cane nero quando il telefono mi suona.
Mi hai mandato un tuo video, in una stanza d’albergo. Specchi alle pareti, specchi al soffitto, due culi che si muovono, che si moltiplicano all’infinito negli specchi. 
Un vespaio di culi che si scontrano.

Ripenso a quel giorno, sdraiati in quel prato in collina, lo stupido cane scavava buche che sembrava un becchino Newyorkese al tempo del COVID.
Ti toccavo tra le gambe e ti leccavo la lingua, poi un guaito e quello stupido cane ci salta addosso.
Il muso gonfio che pareva un meme, scavando ha sfasciato un nido di vespe, proprio ai nostri piedi.
Una grossa vespa si scrolla di dosso la terra agitando il suo culone latino e vogliosa di vendetta inizia la sua danza di morte, twerka, afferra il pungiglione per poi sbattertelo sulle pallide piante dei tuoi piedi.
Guaisci come il tuo stupido cane.
Io raccolgo la Vespa inerme, la osservo morente contorcersi nel palmo della mia mano, “ti ringrazio cara vespa”.
Chiudo il pugno mettendo fine al suo dolore.

So cosa ti serve, tiro su una canna, fuoco, un tiro profondo e te la passo.
Aspiri e soffi sul muso del cane.
Prendo il tuo bel piede “Ringo”, tolgo il pungiglione e lo bacio, hanno un buon profumo e sono così morbidi, ci struscio la mia testa di cazzo, li lecco, tiro fuori l’uccello e i tuoi piedi mi segano. Li usi meglio delle mani, tanto allenamento. Ci vengo sopra mentre me lo tieni stretto, sfiorisco, ballerina te li porti alla bocca, li lecchi, mi guardi “buono, è dolce perché hai smesso di bere e mangi sano”.
Mi ripassi la canna “sa un pò di cazzo adesso”, un tiro forte l’ammazzo e collasso vicino a te. 

Le nuvole sembrano delle vespe grosse, vespe che viaggiano lente, grazie vespe, grazie anche a te stupido cane nero.
Sai cane, è meglio che continuo a guardare il cielo, ora a terra c’è solo la tua merda da raccogliere, cadaveri, sborra e quel video della regina delle vespe che danza sporca di terra.

Composition Book | Storia Nera.
Testo e artwork: Luca Mata
Progetto editoriale: King Koala

Italo Calvino: sogni e città visionarie

Le città invisibili

Nel 1972 Italo Calvino pubblica Le città invisibili, un libro molto importante per lui in quanto, come egli stesso scrive nelle Lezioni americane, è riuscito a concentrare in un unico simbolo, quello delle città, tutte le sue riflessioni, le esperienze e le congetture di una vita. Il libro è nato un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che metteva su carta, seguendo le più varie ispirazioni: dalle città e paesaggi della sua vita alle città immaginarie fuori dallo spazio e dal tempo. Così si è portato dietro il libro delle città per molti anni, scrivendo saltuariamente, passando per fasi diverse. Un giorno immaginava solo città tristi, un altro città felici, un altro ancora si sentiva di scrivere della spazzatura che dilaga nelle città ogni giorno e il successivo paragonava le città a un cielo stellato. Era diventato un po’ come un diario che seguiva umori e riflessioni proprie; tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: le mostre che vedeva, le discussioni con gli amici, i libri che leggeva. 

Come i sogni, il libro risulta essere uno spazio senza inizio né fine, senza coordinate spazio-temporali precise, dove il lettore un po’ sognatore entra, si perde, prende una strada invece che un’altra. Una serie di relazioni di viaggio, quelle di Marco Polo a Kublai Kan, imperatore dei Tartari, dove le città, al pari dei sogni, sono contrarie a ogni regola e logica.

“È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.”

Così nel bel mezzo del mio viaggio onirico arrivo a Zobeide, che appare bianca e candida, accecante, come la luna durante le eclissi e da essa infatti viene costantemente illuminata. Le vie girano su se stesse “come un gomitolo”, così che della sua fondazione si narra che uomini di diverse nazioni ebbero avuto un egual sogno: videro una donna correre, nuda, dai capelli lunghi e illuminati dalle stelle. Sognarono di seguirla ma nessuno di loro riuscì a scoprirne il volto e addirittura la persero di vista. 

Dopo il sogno andarono a cercare la città con le stesse caratteristiche di quella del sogno, nella speranza di trovarvi la donna misteriosa. Non trovandola, decisero di costruirla. Nella disposizione delle strade ogni uomo realizzò il percorso dell’inseguimento ponendo un muro dove la donna fu persa di vista, così da non farla scappare se si fosse ripetuta la scena. Eppure nessuno di loro la rivide più e se ne dimenticarono.

Nuovi uomini arrivarono a Zobeide avendo avuto lo stesso sogno e riconobbero nella città le stesse vie, gli stessi portici e ponti, e cambiarono posto a scale e cancelli perché somigliassero di più al cammino della donna fantastica. Di Zobeide non si può dire ora nulla se non che è una trappola, un desiderio insoddisfatto e malinconicamente abbandonato a se stesso. 

“C’è un inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”, nel momento in cui le città e le megalopoli in primis appaiono solo come l’altra faccia della medaglia della crisi ambientale. La megalopoli, città continua e uniforme, cela le ragioni di fondo che han portato l’uomo ad aggregarsi nelle città, il bisogno naturale che l’ha portato a sognare un luogo collettivo in cui abitare. In realtà le città non nascondono nulla, sono solo dinamiche a tal punto da non riuscire a capirle fino in fondo, ad averne una visione completa con un unico sguardo. Come non soffrire in questo inferno? Accettandolo fino a diventarne parte e non vederlo più, oppure cercare e saper riconoscere in mezzo al caos ciò che si distingue e non è inferno e dargli spazio, farlo crescere e irrobustire. 

Prendiamo ora ad esempio una città. Non una città qualsiasi ma la mia, la tua, quella dove siamo nati, quella segnata lapidariamente sulla carta d’identità. Quella dove siamo cresciuti, quella da dove, prima o poi ci tocca partire verso nuovi orizzonti, per scelta inquieta o disperata necessità, per strani casi sfortunati o fortunati che siano, o ancora per una serie di motivi segreti o sulla bocca di tutti. 

Si nasce in un inferno piuttosto che in un altro. Alcuni, più fortunati, si accontentano del proprio e lo vedono come un paradiso da non lasciare mai, per nessuna ragione. Questi ultimi li lasceremo da parte, tanto sono felici di vivere nel proprio sogno perfetto e ogni giorno uguale a se stesso. Invece i primi, hanno storie di sogni diversi da raccontare ogni giorno. Sono quelli che viaggiano instancabilmente per trovare quel luogo dove un dejá vù dopo l’altro sentono di essere al posto giusto nel momento giusto.

“Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta nè fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie.”

Lost Transmission by Lily Zoumpouli

This is a photography slideshow, accompanied with a sound piece I made for it, in 2020.

Questo progetto Lost Transmission prende il titolo dal nome del brano che ho utilizzato come soundtrack, brano composto da me in quest’ultimo anno. 

Lost Transmission è un racconto visivo su un lungo periodo della mia vita, una raccolta di momenti catturati dal 2010 al 2020. 

Questo viaggio personale, attraverso quest’ultimo decennio, è come una specie di esplorazione del sé. Di come a volte per trovarsi bisogna riscoprirsi attraverso l’altro, gli altri in questo caso. Il legame che si crea con le persone che incontri, volti sconosciuti che poi diventano familiari, intimi quasi. E poi tornano a essere sconosciuti. 

A project about the familiar strangers I met along the way , who became my friends or my partners or strangers once again

Le altre persone attraversano la nostra vita, vi entrano e ne escono. Ed è come se le loro storie si sommassero alla nostra storia. Una esplorazione del sé che avviene anche mediante i luoghi dove abbiamo vissuto, che abbiamo attraversato. Mediante le emozioni che abbiamo sperimentato, attraverso le luci e le ombre che sono dentro ognuno di noi. Attraverso i ricordi che ci hanno resi ciò che siamo, ricordi che ricreano loro stessi. 

The beast within us as well as the beauty. Memories that made us who we are, recreating themselves. 

Come se coesistessero due mondi: uno dentro di noi e uno che creiamo per noi, come se fossero universi paralleli. 

Come se ci fossero dei segnali perduti che creano altre frequenze, uno spazio altro dove esistiamo.

Lost transmissions form another frequency, another place where we exists.

La mia fotografia è basata sull’auto-documentazione. Fotografo e riprendo la mia vita, il posto in cui mi trovo e le persone con cui la condivido quando sento il bisogno di catturare un determinato momento. In altri casi pianifico una foto per ritrarre qualcosa che ho bisogno di esprimere in un attimo preciso della mia vita. Mi interessano gli autoritratti e la rappresentazione di situazioni che condivido con gli altri.  

Per fotografare qualcuno o qualcosa ho bisogno che ci sia una connessione, che è ciò che permette di mostrare nel risultato finale l’atmosfera che si crea tra me e loro, un miscuglio di personalità in una sola immagine.

Il nudo è un elemento molto intenso nella mia fotografia e considero il corpo tanto quanto l’anima. Credo che quando qualcuno si mostra nudo nelle mie foto sta mostrando la sua interiorità, tornando a un’innocenza in cui sentirsi a proprio agio mentre si mostra se stessi e la propria ombra in modo del tutto naturale.

Spesso tendo a interpretare i sentimenti fotografando soggetti non umani, ma in generale fotografo qualsiasi cosa sia in grado di intrigarmi. 

L’obiettivo del mio lavoro è catturare momenti di esplorazione del sé, mi focalizzo in particolare su antropologia, psicologia, poesia, simbolismo, intimità e ricordi. 

Mi interessano anche le relazioni, interpersonali e non, con i luoghi che ci circondano e concetti come il tempo, il cambiamento, la morte.

Altre foto e video di Lily Zoumpouli: https://lily-z.com

Instagram: Lost Transmissions

Venti metri pt4: Il sogno

Il sogno

La risposta è stata sì. Semplice. Come in quel sogno in cui va sempre tutto bene, il cielo è sempre azzurro e i pompieri australiani sono sempre pronti per il calendario duemilaventi/duemila-tutte-le-volte-che-vuoi.

Visto da quassù, il mio balcone sembra minuscolo. Non so come abbia fatto Miguel a fare centro con il suo aeroplanino. Fatto sta che la mia reclusione non è più così triste. È proprio vero come la compagnia di qualcuno, compagnia che abbiamo dato così per scontata, sia talmente indispensabile da dover essere per forza condivisa.

È una sensazione che avverto nell’aria, come un profumo. Il suo: di lenzuola stropicciate e tango argentino. Oh, a proposito, Miguel è argentino. E sì, il suo cognome è proprio Luna. Pare sia piuttosto comune dalle sue parti. Come il cliché tanto sdoganato della passionalità degli uomini latini. A questo proposito, non vorrei scendere nei dettagli (anche se so che sono quelli la cosa più divertente).

D’improvviso mi sento avvolgere da un paio di braccia. Senza voltarmi, perché so che è lui, gli appoggio la nuca sulla spalla. Sospiro forte. E sorrido. Poi però mi viene da tossire. Ma tossire fortissimo. Sarà l’allergia, maledetti pollini di primavera. Tossisco, tossisco, tossisco, finché non starnutisco che quasi mi viene fuori il fegato, e quando apro di nuovo gli occhi tutto è sparito e il mio balcone appare improvvisamente sulla mia destra.

Mi metto a sedere, scattando su come un burattino di legno. Mi guardo intorno. Fa caldo. Da quand’è che ha iniziato a fare così caldo? Dov’è Miguel? E dove diavolo sono i miei croissants?

Mi stropiccio gli occhi. Questo deve essere proprio un brutto sogno del cazzo.

Un momento. Perché sto dicendo cazzo?

Mi alzo dal letto, la nuca e il solco in mezzo al petto sudati, e percorro casa imbambolata. Miguel non c’è. I croissants nemmeno. Quando però mi volto a cercare qualcosa da mettere ai piedi, quasi mi piglia un colpo. Le ciabatte coi pompon. Sono lì. Sul tappeto ai piedi del letto.

Io le avevo buttate. Me lo ricordo. L’avevo promesso e le avevo buttate. 

Un colpo feroce alla porta mi fa sobbalzare. “Agata! Mi senti? L’affitto! Sei in ritardo…di nuovo!”.

La mia vicina. Quella delle bollette e dei biscottini. Un attimo, però: perché l’idea della mia vicina che mi passa un vassoio di biscotti, tutto a un tratto, mi repelle? Io odio la mia vicina e la mia vicina odia me. Me e il mio essere sempre così cronicamente disordinata e insolvente. Una volta le ho persino versato dell’acido muriatico nelle sue gardenie di merda.

Merda, c’è qualcosa che non va. Qualcosa di gigantescamente inadeguato.

Mi infilo le ciabatte coi pompon, una vestaglia e mi precipito sul balcone.

La mia strada, quella poetica strada silente e abitata solo da Vito il cane, è immersa in un sole accecante e brulica letteralmente di gente. Nessuna mascherina. Né guanti. Né distanziamento sociale. O negozi chiusi. Niente di niente. C’è vita là fuori. Una vita che mi sembra fastidiosa, ingiusta. Una bugia.

Una bugia che vuol dire solamente una cosa: che ho immaginato tutto, che la reclusione, la pandemia, l’angoscia e Miguel sono stati tutto un sogno. Anche il sesso. Dai, cazzo, non è giusto!

Quasi mi viene da piangere ma un secondo colpo alla porta mi impedisce di cedere. “Agata! Sei in casa? Passerò più tardi e vedi di farmi trovare i soldi!”.

Era tutto troppo bello per essere vero! Le stelle, gli aeroplanini di carta, il profumo di tango argentino, nessuna persona a tormentarmi! Avrei dovuto capirlo.

Mi siedo sul letto, esausta, e mi metto a fissare il pavimento. È tutto così confuso, una specie di sogno dentro a un sogno. Qual è la verità? La mia è un’angoscia per la convinzione di essere stata sola per due mesi o per non esserlo stata? E Miguel? Possibile io abbia immaginato anche lui?

Mi volto verso la finestra, lo sguardo diretto in alto, al suo balcone. Sulle corde tirate, vedo stesi dei reggiseni, un paio di tanga e un lenzuolo a cuori che tutto mi pare tranne che suo.

Mi viene voglia di bestemmiare. Però decido di uscire. Mi vesto in fretta e furia, attraverso il pianerottolo di soppiatto, e metto piede fuori dal palazzo. È una sensazione stranissima, come di estraniamento. Eppure sono sempre più convinta che quello della pandemia sia stato tutto frutto della mia immaginazione.

Nel dubbio, mi accendo una sigaretta, riparandomi gli occhi dal sole con l’altra mano.

Ho bisogno di un caffè. Grazie a Dio i bar sembrano aperti.

Mentre cammino, mi guardo intorno furtiva. Sono anche piuttosto sicura di sembrare un po’ pazza. Automaticamente, mi dirigo verso il mio bar di fiducia. Mi sento un robotica, come se fossi nel mio corpo ma non veramente del tutto. Prendo il mio caffè americano da asporto, mi accendo un’altra sigaretta e vago, di qua e di là.

Tutto mi sembra normale: la gente fa schifo come sempre, la città è monotona come sempre, l’inquinamento copre il cielo come sempre. L’unica differenza sono io: io non mi sento affatto come sempre.

Cammino senza una meta, sentendo anche fame. Guardo l’ora: le due meno venti. Mi fermo nel primo posto che mi capita a tiro, una specie di libreria/caffetteria/negozio d’abbigliamento. Entro ed ordino un piatto di pasta al ragù. Da queste parti, sono famosi per la pasta al ragù.

Poi, d’improvviso, mi cade l’occhio su un volantino appiccicato al tavolo. Un nome fiammeggia a tutto campo: Miguel Luna.

Per poco non mi strozzo con le tagliatelle.

“Hey!” esclamo, chiamando la cameriera. Prendo due sorsate d’acqua, un paio di respiri mozzi e coscienza del fatto che, probabilmente, sono davvero pazza. E questo non è affatto un sogno ma un delirio dovuto all’eccesso di psicofarmaci.

No, aspetta. Non conosco alcun Teodoro Cinquepalle. Oh Dio, ti amo, sei il migliore di tutti noi.

“Hey, chi è questo tizio?” chiedo alla cameriera, puntando un dito febbrile sul volantino, “Qui, Miguel Luna”.

La ragazza mi fa spallucce. “Uno che viene a suonare stasera” risponde.

“Il pianoforte, per caso?”.

“Sì, com’è scritto anche sul volantino”.

“Ed è argentino?”.

“A saperlo!”.

Niente. Non so come spiegarmi questa cosa. Il mio sogno su Miguel (e sul fantastico sesso che abbiamo fatto) era tutta una palla ma lui esiste. O quantomeno, qualcuno con il suo stesso nome. Che suona il piano. E che sarà in questo buco di locale, stasera, proprio stasera.

Non può essere una coincidenza, no? Altrimenti le medicine che mi stanno dando sono davvero potenti.

Mi pizzico un braccio fortissimo. Ahia, cazzo, mi spunterà un livido. Però no, non sto dormendo. Tutto quello che devo fare è tornare qui stasera, parlare con Miguel e cercare di cavarci un ragno dal buco.

Mi alzo, pago, prenoto un posto per stasera ed esco.

Mi pare tutto così assurdo. E mi viene un dubbio atroce: era meglio quando credevo di essere in quarantena, all’oscuro di tutto, oppure ora che so che era un sogno ma la realtà in cui vivo non mi piace affatto? Era meglio non sapere? Vivere in un sogno onirico che, per quanto irreale, era pur sempre un sogno? Cercare di avere Miguel o avere per davvero Miguel? E i croissants? Io non sono capace nemmeno di accendere i fornelli…figurarsi, i croissants.

Mi viene da ridere. Ma sì, chi se ne frega. Inutile rimuginare. La vita trova sempre il modo di farti fare una risata amara, in un modo o nell’altro.

Il bello sarà scoprire chi riderà per ultimo stasera. Se io e lei.

Oppure lui.

Storia Gialla

di Luca Mata.

In questa città ci sono troppe lucine colorate, troppo rumore e troppa gente colorata.
Mi disorienta, io che sono famoso per l’orientamento.
Per le strade scivolano, agili e ribaltanti, delle macchinette dal nome impronunciabile.
Compatte precise pulite timide, tanti difetti di linea che Giugiaro schiatta, di quelle che un giro ce lo fai ma non lo dici in confessione neanche a Don Sandro. Buono lui, si scopava la figlia minorenne del vicino, con il benestare della madre, forse anche lei si genufletteva davanti al suo calice.
Qui son buddisti e santificano il cazzo fertile. Alzo la mano e in un attimo fermo un taxi – giallo – semplice, non come capirsi quando gli spiego l’indirizzo di casa, ma in un attimo arriviamo. Saliamo in camera, in un attimo sono nudo, tac.
Lei no, ci penso io, e mentre la spoglio vedo la mia pelle e la sua vicine.
Penso che il mio amico Luca, con la sua cirrosi alcolica, è molto più giallo di lei. E la sua fica – labbra piccole e compatte si chiudono una sull’altra per trattenere ogni goccia – come un bocciolo.
Ho ripensato all’impatto dell’ombrello impugnato come un legno 5 sulle rose della Piera, quel pomeriggio d’estate in montagna.
Me la sbatto, sbatto su una lapide, e mi scheggio un dente, il labbro sanguina.Vilipendio di cadavere, questo è stato.
Caldo cazzo, sudo, dormo, russo, mi rigiro nel pavimento del loculo.
Il Dragoncello mi fa sputare fiamme, inquina incubi di cani con il vello color cammello.
Mi parlano una lingua strana che comprendo, messaggi nefasti di cui non ho memoria, minacce che scottano.
Vado a fuoco da dentro, chissà se morirò per autocombustione. Rutto. Mi prepara un tea, verde, lenta, smettila con ‘ste cerimonie, fai veloce io arrivo dalla pianura del Po, anche noi abbiamo riso e zanzare, nutrie da pelliccia e bisce d’acqua dolce, rane fritte catturate a colpi di zoccoli con la fibia in pelle di talpa.
Erano giorni di fuoco quando passava il Pippo, noi ci si nascondeva, c ’era il Carlo che è rimasto appeso, a pezzi, come d’autunno sugli alberi le foglie,una granata inesplosa che martellavi, altro che Napoli.
Canten tucc lontan de Napoli se moerma poi moeren chi a Milan

Composition Book | Storia Gialla.
Testo e artwork: Luca Mata
Progetto editoriale: King Koala

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