C’è chi si accontenta del luogo dove nasce, delle abitudini, dei luoghi comuni e delle piccole cose che fanno della quotidianità un luogo sicuro. C’è invece chi non si sente al sicuro nella comfort zone e si sente soffocare nei piccoli paesi di provincia, pur amandoli per la loro bellezza e unicità. Little Stone (nome d’arte di Sara Barberio) appartiene a questi ultimi sognatori e amanti disperati del disequilibrio.
Giovane cantautrice di Sarroch, un paese in provincia di Cagliari, ormai un paio di anni fa, decise di lasciarsi alle spalle la sua isola per andare a trovare la sua strada a Dublino. Sebbene due isole con in comune una simile tradizione musicale antica, le differenze tra le due culture si sono fatte sentire. “Il trasferimento a Dublino ha avuto un impatto decisamente emozionante”, dice l’artista. Descrive il cambiamento dal suo paese d’origine alla capitale irlandese come uno salto eccitante, pieno di adrenalina ma anche spaventoso. I tempi frenetici della città l’hanno travolta fin dal primo istante, eppure si è sentita abbracciata dal calore irlandese.
Ha sentito fin da subito una connessione col luogo, come se avesse già vissuto lì in una vita passata. Aveva deciso di andare dove il vento l’avrebbe portata ed ecco che il suo vento, quello di cui parla il suo brano Where the Wind Takes, l’ha portata lì, in quella caratteristica città pulsante di musica che le sta dando tutto ciò che non si sarebbe mai aspettata: persone stimolanti, nuovi punti di vista, consapevolezza di sé e apertura mentale.
Where the Wind Takes è la canzone che ha scritto che più le sta a cuore, un pezzo di ciò che era a casa e che ora non è più, forse. Forse non è cambiata lei ma il suo modo di vedersi. La scrisse nel 2017 come sfogo, con il sentimento di chi desidera di più dalla vita ma non sa che forma, colore, nome dare a questo “di più”.
Questa canzone parla di futuro, incertezze e desideri, voglia di crescere e vivere a pieno ogni opportunità, aspettare qualcosa di nuovo e farsi portare dal vento altrove, dove è giusto che sia. A un certo punto questo pezzo risultò essere un peso, un sogno abbandonato o una disfatta personale. La canzone era lì, piena di speranze e nostalgia di un futuro che tardava ad arrivare, e lei di fronte, in balia della sua voglia di scappare e andare altrove per far sentire la propria voce ed essere capita.
“Scratch my skin
To see the truth
Blow all the leaves on me
And show what’s your way”
– Out of Breath
“Era un lunedì, andai al Whelan’s per un open-mic. Sentivo che era arrivato il momento di entrare in contatto con la realtà dublinese e far sentire la mia voce. Nel chiacchiericcio lieve sistemai il microfono e accompagnandomi con la mia chitarra iniziai a cantare. Diversamente dal solito non mi estraniai nel mio mondo. Sentivo di essere capita, sia perché le parole in inglese del mio pezzo venivano recepite al volo dal pubblico, sia perché chi era lì a sentirmi, era lì per ascoltare attentamente”. Questo il ricordo della prima volta su un palco a Dublino, indimenticabile.
“Il pubblico è sempre in grado di dare emozioni, ognuno può dare una propria interpretazione ai miei pezzi e questa è l’importanza di suonare davanti a un pubblico: l’empatia che si vive in quel momento”. Tra adrenalina, voglia di esprimersi e paura di non essere capita, Little Stone si è pian piano introdotta nel tessuto musicale di Dublino frequentando i pub più conosciuti e farsi conoscere.
Una voce profonda, introversa e al contempo sicura e forte. Il tocco delle sue dita sulle corde della chitarra graffia la pelle di chi ascolta, in silenzio. Non eterea, quanto piuttosto realistica e immersa nella melanconia, la sua musica si accompagna di metafore e immagini. È il mondo interno che si esteriorizza in fatti e situazioni, è il sentimento che prende forma e diventa quotidiano e universale.
Fortemente autobiografici i brani di Little Stone riconducono difficilmente ad altri artisti. Eppure l’ispirazione arriva da grandi nomi della musica: “Avendo iniziato il mio percorso studiando chitarra, mi sono molto fatta ispirare dalla tecnoca di Kaki King, una chitarrista statunitense fenomenale che sentii a Sarroch. Quello fu il concerto migliore della mia vita. Altri due artisti a cui mi ispiro sono Ben Harper, che mi diede l’input per iniziare a comporre brani miei, Ben Howard e Warpaint. Poi aggiungerei Lisa Hannigan, una delle artiste scoperte a Dublino a cui mi sono più affezionata.”
Out of Breath è il primo brano pubblicato da Little Stone sui propri canali social. Scritto dopo quasi un anno dal trasferimento a Dublino, racconta dell’oppressione di chi si tarpa le ali da sé, schiacciato dai propri limiti e la paura di non farcela. “Come per la maggior parte dei miei pezzi, anche qui il filo logico della composizione si è interrotto a un certo punto, poiché la storia raccontata non appartiene a un solo momento. Essa si costruisce, si stratifica, diventa un intreccio di sentimenti, sensazioni ed episodi sconnessi della vita. La linea base da cui si srotola la matassa si espande sempre di più, finché non sento che il pezzo è pronto a non appartenermi più ed essere ascoltato.”
È un brano violento e aggraziato che vive in uno spazio impercettibile tra i contrasti di luci e ombre. “La mia musica non la percepisco a colori. La sento bianca e nera, in continuo movimento e contaminazione tra i due opposti. È nera per la paura e l’incertezza che fanno parte di me. Bianca per la curiosità e l’estroversione che pure mi appartengono.” Little Stone riesce a dipingere il lato più oscuro e quello più luminoso dell’essere umano. Con onestà e trasparenza, con metafore ricche di realismo e pure, scarne. Fragilità e solidità si conciliano nel tocco abrasivo sulle corde e nella voce calda e profonda.
Sono nata in Russia e poi mi sono trasferita in Italia a 8 anni, dove ho iniziato a vivere un’altra vita.
“I was born, I was born in the blue desert, between the wind and the sand, I walked, I walked with heavy steps at midday, when the ground burned and the sun danced on my head. No path, where will I go? The sand hides the origins of thoughts duringthe tornados, they dissolve slowly leaving the remains, lying on a new path. I was born in the desert, where I met my unconscious, where will I go? And now I wait for the night, to rest, to rest my mind, to rest my soul, I was born in the blue desert.
(Blue Desert)
Alicka (il suo nome su instagram ndr) è una specie di soprannome, il nome originale è Alločka, derivato dal russo e trasformato in Alicka, è la parte inconscia di me.
Ho iniziato, con curiosità, ad avvicinarmi alla fotografia quando avevo 15 anni. In realtà volevo sempre comunicare i miei pensieri e i miei sentimenti, era necessario per me trovare l’arte che potesse aiutarmi a sfogare perché avevo lasciato così tante cose intrappolate in me dalla Russia, quindi la fotografia diventa la mia arte principale.
Les Yeux, la bouche, lʼintelligence, la spontanéité, la fragilité. Les nuages se dissoudre, l’arrivée du rêve, le bruit du dimanche, la consistance de jour. Les rayons du soleil sur la peau, la facilité dene pas voir le temps, sourire constant et se perdre dans le jour, la joie de vivre et la sérénité. Les Yeux, la bouche, lʼintelligence, la vie. Les nuages se dissoudre, l’arrivée du rêve, le bruit du dimanche, la consistance dejour. Les rayons du soleil sur la peau, la facilité de ne pas voir le temps, sourire constant et se perdre dans le jour, la joie de vivre et la sérénité. C’est la vie, mon ami, c’est la vie, ça sent son parfum, il faut toujours essayer de vivre chaque instant, la vie estici, mon ami. Les Yeux, la bouche, lʼintelligence et tant d’autres belles choses.
(Petit Joie)
Sviluppo varie arti come la scrittura e l’interpretazione. Scrivere per me è un’arte intima che non ho mai divulgato, ma negli ultimi anni mi sono interessata nel andare oltre le mie capacità artistiche.
Cher temps, je te trouve encore, mon ami. Je vous ai dediè tant de mots, mais ils ne semblent pas assez, pas assez. Derrière moi, il nʼy a plus aucune trace, ou presque, de ces fragites moments tremblants. Il apparait ètrage de te revoir, à la fin ici, avec moi. Tu me suis toujours et quelquefois tu disparais. Mon ami, dʼ innombrables fois, je tʼai demandè de courir et vousmarchais lentement, apportant avec vous une valise, de doutes et incertitudes et comment je tʼai demandè de lent, tu ne voulais pas mʼècouter. Notre passé est un insistant mal comprendre et ne pas ècouter, comme du reste dans chacun dètail de la viequotidienne.
Tu rest fidèle à moi, et puis la vie apparait de un seule nuance. Mon Ami, je vous demande de courir mais aussi de marcher.
(Cher Temps)
Nell’estate del 2019 ho iniziato a lavorare su “Procédure de Libération”, un progetto molto personale che va oltre la conoscenza e la tecnica di scrittura, è qualcosa di più di questo, può essere definito come una raccolta di pensieri, emozioni, poesie o interpretazioni.
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“Quelque part, je suis revenu à l’essentiel, auxorigines de la vie. Je me perds dans le vide et puis ça vient le sentiment,de voir clairement, et ça vient la libértion. Souffle lèger, la vision! que tu me suis de loin, le chevalier de la purification. Intouchable est l’humeur qui m’accompagne d’une robe blanche. Quelque part, je suis revenu à l’essentiel, à l’essentiel, peut- ètre je suis un bouleau, peut- ètre je suis mer, je suis ici. Un èquilibre constant. Je me trasforme en terre, pour accoucher un arbre aux racines solides. Je me perds dans l’ordre du désordre, dans lecourage, dans la persévérance que je suis revenu à l’essentiel, je suis revenu à l’essentiel.”
(Procédure de Libération)
Nel lavoro di Alla Chiara, oltre alla ricerca e all’espressione del se’ e dell’arte, emerge una sensibilità particolare verso la bellezza maschile, eterea e poetica.
Per scoprire di più sul lavoro di questa giovane artista, vi invitiamo ad approfondire sul suo profilo Instagram e il canale Vimeo”.
Stiamo già consumandoci vicendevolmente affamati e curiosi, bramosi d’informazioni; alla finestra a scrutare quanto più possibile di quel mondo che in un modo o nell’altro deve girare tu corpo steso che sogni continui a vorticare nel vuoto stando fermo ci pensi, stai viaggiando a 1700 km orari circa, adesso, e non te ne accorgi sbuffi il fumo e lento esso si innalza verso un vuoto spaziale che ruota nella galassia insieme a tutto il resto eppure, silenzioso multiforme quel fumo s’alza e lo segui con lo sguardo,
“devo smetterla di perdere gli accendini” ti ripeti; c’è una traiettoria precisa per ogni cosa, il pensiero stesso se accompagnato dalla ragione arriva, non si sa dove arriva, arriva. Il sapere di “sentire” le cose rende queste pregne di significati intrinsechi, collettivamente attribuiamo ogni cosa alla sua forma e la sua funzione individualmente quando nessuno ci interrompe una qualsiasi cosa diventa altro oltre il senso comune e generale. bravo, hai fatto la scoperta, Oh questo è forte, s’è letto Bertrand Russell e si crede… idiota.
//ogni volta che vedo uno specchio che riflette un altro specchio mi emoziono, riflessi infiniti si perdono nel vuoto, mi sono chiesto tante volte dov’è che vanno a finire… insomma dovrà pur esserci una fine che non sia la superficie che li contiene; chissà il presidente del Consiglio cosa pensa quando si taglia le unghie dei piedi. insomma, siamo tutti d’accordo sul fatto che stando spiaccicati sugli schermi spesso ci dimentichiamo com’è la vita vera… tap,tap e tap il gioco è fatto sei on-line on-life senza “line” sei fuori dai giochi, nemmeno in panchina, non sai nemmeno a cosa stanno giocando, ma forse è meglio così, d’altronde meglio vivere piuttosto che respirare il tempo perso in macro mondi di giochi pixellati,
thè verde e miele di agrumi zenzero e cannella latte e menta carta igienica Casalpusterlengo, fanno dei buoni latticini da quelle parti. Daje che ce la facciamo, daje che? Fretta di ritornare ad avere fretta, tossici dei secondi, tiri su un paio di minuti (roba da mandarti al delirio) una paglia e vez vedi come albeggi su sti visi spenti. Vabbè, ma quindi hai detto che le api, l’insetto più smart che c’è, crea zero emissioni? ma dai figata, guarda ora vado a farmi un rogi e magari rimedio del mofu cosi we, quando torno a casa me ne parli.
cinese o indiano? mangio tofu e fegato di merluzzo un avocado prima di andare a dormire e una spremuta di mandorle. Ora faccio sul serio: il reddito pro capite ormai da quanto si evince dalle analisi di mercato non ha più nessun valore l’Italia è lo stato con più… low battery shutting down see you soon. Spegni quell’affare Salvatore, dobbiamo andare a trovare a papà.
Che nebbia fitta, sembra Silent Hill. o forse Silent Hill sembra Rogoredo. Tra i neon appannati si agitano le sagome dei soliti sbirri coi soliti tossici. Da quando ci sono loro le puttane sono sparite, i loro clienti clienti ormai vanno dai tofa, mezzo punto di nera per un pompino staccato. Uno spruzzo bianco per una spruzza in vena.
Ho fame e tre ore di treno. Seguo una luce viola fino al mini market, prendo pane e una busta di speck. Il Ritter rosso con marzapane mi chiama. “Auguri”, mi fa la cassiera. Non andrà da nessuna parte per le feste, dice. Le passerà qui, in cassa, con tossici e sbirri. Credo voglia un abbraccio caldo, qualcuno che le dica andrà tutto bene, la scopi forte e poi la ammazzi. Amo quando gli sconosciuti mi donano le loro fragilità, – mi fa sentire speciale – le custodisco, pietre preziose di lacrime e dolore. Ma non ho dimestichezza con gli abbracci, nessuno mi abbraccia. Pago e vado verso il mio treno.
Pieno come al solito, e come al solito un coglione occupa il mio posto. Averti davanti è un valido motivo per essere scortese e mandare via quel tizio dalla mia poltrona in prima fila. Appoggio pesanti i miei occhi su di te, penserai che sia un maniaco. I tuoi occhi stronzi mi scrutano. Mi vuoi morto o vuoi essere uccisa? Occhi celesti, molto bionda con le tue tette grosse strette sotto il maglione, e le cosce piene, bianche da DNA slavo. Allarghi le gambe. Ti lecchi le labbra. Ti accarezzi. Non è che ti piacerebbe essere soffocata nel cesso del treno dal tuo Renato? Non lo conosci? lo avresti amato, ora però ama me. Io e lui siamo vicini di casa, gli dirò che vuoi conoscere il suo segreto. E quando ci incontriamo di nuovo, per caso te lo racconterò in quel cesso lurido del regionale, quello dove mi hai mostrato le tette, e mentre ti masturbavi mi fissavi dritto negli occhi. “sono una troia esibizionista”, mi hai detto all’orecchio. “se mi guardi così, mi bagno”.
E quando hai chiuso le gambe sei sparita, mangiata dalla nebbia che mi ha sempre offuscato.
Composition Book | Storia Rossa. Testo e artwork: Luca Mata Progetto editoriale: King Koala
Distillare un’intera stagione di temi, storie e idee in una sequenza molto breve. È tutta lì la magia di una sigla. Ce ne sono di memorabili, di premiate, di osannate. C’è chi le adora e chi le skippa. Le cinque di questo articolo non sono le migliori in assoluto nell’olimpo delle sigle tv. Ma hanno quel qualcosa che invoglia a saperne di più, a scoprire cosa c’è dopo.
Iniziamo con True Blood.
Il team della Digital Kitchen, studio di produzione creatore anche degli opening credits di Six Feet Under e Dexter, scelse la canzone di Jace Everett, “Bad things”, e viaggiò proprio in Louisiana per effettuare le riprese per la sigla di True Blood. Quello che spunta infatti, nei suoi primi fotogrammi, è una chiarissima ambientazione umida e paludosa da profondo sud degli Stati Uniti. E appaiono lampanti due tematiche fortemente presenti nell’intera serie: fanatismo religioso ed energia sessuale. Il tutto tenuto insieme dalla costante presenza della morte.
Estremismo esplicito. Immagini di decomposizione. Un degradato bar di quartiere in cui donne e uomini flirtano senza pudore. Uomini in vesti da Ku Klux Klan, vecchie auto abbandonate nei pantani dei bayou. C’è religione e tutto ciò che va contro la religione. E la sigla rappresenta perfettamente questa lotta, sia attraverso le immagini che il montaggio: fotogrammi velocizzati o rallentati ah hoc, alternati da flash di corpi nudi e contorti che lampeggiano in modo talmente rapido che quasi ce li si perde, fotogrammi che si increspano e gorgogliano come pezzi di rullini rovinati.
La perfetta metafora degli impulsi, sessuali e sanguinari, degli abitanti di Bon Temps. I peccati che nascondono nell’ombra. Tutte le “bad things” di cui canticchia Jace Everett. La sigla di True Blood è un’allegoria: una nuda lussuria dipinta come bancarotta morale di fronte alla fervente preghiera che appare in tutta la sequenza. Il bigottismo e la discriminazione contro la presenza di Dio. Perché Dio c’è eccome, ma c’è anche l’odio. E forse in misura maggiore.
Persino le tecniche scelte per le riprese contribuiscono a enfatizzare la forza presente nella sigla: trasferimento Polaroid, caratteri tipografici ispirati alla segnaletica stradale degli stati del sud, fotogrammi tagliati di netto, per dare sensazione di nervosismo, o sporcati da goccioline di sangue. E i colori: fangosi, lomografici, con forti dominanti di verde salvia, rosso sangue e nero fumoso.
Ci ho sempre visto del Tarantino in questa sigla. E qualcosa di Harmony Korine e David Lynch.
Molto simile, per scelta delle immagini rappresentative, è la sigla di Penny Dreadful.
E no, la serie non prende ispirazione da un personaggio con quel nome ma dai “penny dreadful”, popolari pubblicazioni diffuse nel XIX secolo nel Regno Unito, che raccontavano dozzinali storie dell’orrore per la classe povera del paese. Costavano un penny e, nonostante fossero caratterizzati dalla scarsa qualità sia di forma che di sostanza, a loro dobbiamo il merito di aver spianato la strada al romanzo horror gotico e a molti dei luoghi comuni di cui pullula tuttora la letteratura sui vampiri.
Gli opening credits di Penny Dreadful sono il perfetto riassunto di questo genere gotico vittoriano ma non hanno nulla di dozzinale. A partire dalla colonna sonora di Abel Korzeniowski, maestosa e lirica nel suo crescendo. È grazie ad essa che il pubblico riesce a sopportare immagini da incubo e fioriture insanguinate. La musica classica come sinonimo d’intellettualismo nobile che trascina lo spettatore nel macabro, nel livore, creando una sorta di morbosa attesa da cui ci si vorrebbe allontanare ma no, non si può, non senza guardare fino alla fine.
I soggetti, ragni, serpenti, crocifissi, e qui la similitudine con True Blood, simboli religiosi contro brutalità animale e peccato, sono ripresi in modo talmente ravvicinato da anestetizzare quasi lo sguardo, in una voluta intenzione di ammansire la paura di chi guarda. L’illuminazione cupa, inoltre, gioca a favore della sensazione onnipresente di malvagità ed enigma che percorre tutta la serie.
C’è del gore grottesco. C’è il nero, il blu notte, il rosso del sangue di una tazzina stracolma. E poi c’è il viso candido della protagonista, Vanessa Ives. Il focus è su di lei, sui suoi demoni interiori.
I secondi finali della sigla, un nugolo di pipistrelli che, eccezionalmente, vediamo volare verso il sole, fanno sorgere una domanda spontanea: questi personaggi tormentati riusciranno a salvarsi dalle tenebre e saranno meritevoli di redenzione e amore alla fine?
Completamente diversa in tematiche, stile e contenuti, ma sempre firmata dalla Digital Kitchen, è la famosissima e osannata sigla di Narcos.
Avevo letto da qualche parte che non ci si poteva definire dei veri fan della serie se la si saltava. Certo è che la canzone “Tuyo” di Rodrigo Amarante ha fatto battere più di un cuore.
La prima e la seconda stagione di Narcos hanno una sequenza di immagini identiche, sulla quale la DK e Nick Kleverov, direttore della fotografia, hanno tessuto i fotogrammi in modo che dessero l’aria di appartenere ad un filmato dell’epoca. Doveva sembrare un diario, un quaderno intimo, confondere le acque tra quello che è stato effettivamente estrapolato da veri video e foto d’archivio e quello che è stato filmato ad hoc per la sigla.
Quello che accade è una separazione dei livelli, quasi come se fosse un proiettore per diapositive a trasmettere le immagini: persone in aereo con i visi oscurati, in stile “video di sorveglianza”, Miss Colombia a Santa Monica con francobolli di Bogotà, delle labbra, simbolo del fascino e dei vantaggi che provengono dal vivere quella vita, l’Hacienda Nápoles dove visse Pablo, chiaramente un filmato originale ma enfatizzato nella velocità e nel movimento per dare l’illusione di essere ripreso proprio in quel momento. E poi la scena del vero omicidio, lo schiaffo che fa tornare alla realtà, alla crudeltà del protagonista che, finora era stato tutto coca, armi e valigette di soldi, ma che inizia a mostrare il rovescio della medaglia.
Una metafora della strada verso la distruzione di un mondo che, da principio appare come irresistibile, ma che alla fine si rivela sadico e masochista. Però, che dire? Tutto è addolcito e reso accettabile dalla canzone di Amarante. Indimenticabile.
E veniamo al quarto titolo di testa. È la magnifica sigla di American Gods, serie che mette in scena l’omonimo romanzo fantasy di Neil Gaiman.
Si deduce facilmente che il tema principale sono gli dei e, nello specifico, la lotta tra antichi e nuovi e quello che essi rappresentano: il vecchio e il nuovo, la tradizione e l’innovazione, la devozione e la tecnologia.
Gli antichi dei li conosciamo. E i nuovi? Internet, i social media, l’industrializzazione, la droga, le armi, l’inquinamento. Anche qui, una metafora.
Sulle note tribal-techno della canzone di Brian Reitzell, va in scena uno spettacolo psichedelico di demoni e divinità che si mescolano tra simbolismi e iconografia moderna e antica, tinta di neon, di verde chartreuse, fucsia, azzurro e cremisi.
L’autore di questo marasma visuale è Patrick Claire, creatore di sigle per True Detective, Westworld e The Night Manager. Uno che se ne intende, insomma. È così che sullo schermo ci appaiono diversi fotogrammi, veloci ma densissimi di significato: l’albero vichingo della vita, riferimento piuttosto sottile alla vera identità di Mr. Wednesday; una testa capovolta della gorgone Medusa, i cui serpenti vengono sostituiti da cavi di fibra ottica; tre ninfe che al posto degli occhi hanno un obiettivo, chiara allusione alla moderna ossessione della gente per gli autoscatti.
Una Madonna, celata da un velo, non di seta, ma di tecnologia realizzata da fili di silicio, l’ennesima metafora della religione tradizionale “oscurata” dal nuovo dogma; e poi il Buddha, strafatto di droga, l’antitesi della medicina orientale contro quella occidentale, e Ganesh, la divinità indiana per eccellenza, il “Distruttore degli ostacoli”. Nella sequenza compare sornione, seduto su un fiore di loto circondato da siringhe e tubi. È sottile il rimando alla fecondazione artificiale. L’evidenza schiacciante che Ganesh sia occupato a controllare gli smartphone che ha in mano dichiara la sconfitta della preghiera a favore della ricerca all’avanguardia per la risoluzione di un problema.
Quasi in chiusura, appare un cowboy in neon con una protesi al posto della gamba. Eccolo, il fallimento del sogno americano, che finisce che per avere come cavallo un centauro meccanico con una parabola satellitare invece del collo e la faccia di una bambola gonfiabile, e un astronauta crocifisso, teorica concezione della divinità classica venuta al mondo per salvarci e di un essere terreno che lascia la terra alla conquista dello spazio. L’uomo che conquista il cielo, che conquista Dio.
Infine, in cima al totem, l’aquila. Il Simbolo. Gli Stati Uniti d’America. Gli indiani d’America. Zeus. L’impero romano. Il nazismo. Un caos incasinato di religioni, credenze, messo insieme in modo sexy, appiccicoso e sporco. In pieno stile American Gods.
La visione per la sua realizzazione fu chiara fin da subito: descrivere il contesto geografico in cui è ambientata la serie, la Louisiana degli anni ‘90, territorio fortemente violentato dalla presenza di infrastrutture petrolchimiche e inquinamento del paesaggio, attraverso la divisione e lo spaesamento interiore dei protagonisti. E viceversa.
Per rendere attuabile questa ambiziosa idea, l’unica scelta stilisticamente e graficamente possibile fu l’uso della doppia esposizione, insieme alla post-produzione dei colori con Photoshop e all’aggiunta di forme vettoriali tramite Illustrator. Il risultato, trasportato dalle note della canzone “Far from any road” del gruppo The Handsome Family, è una frammentazione fisica e psicologica delle figure umane protagoniste della serie, usate come finestre attraverso le quali si intravedono paesaggi quasi apocalittici, fabbriche, discariche, fiumi inquinati, tralicci, pompe di benzina, raffinerie. Una traslazione del personaggio nella location e della location dell’animo del personaggio.
Gli stessi colori scelti danno la sensazione di sporco, di sotterrato: giallo pallido, verde, blu scuro, inceneriti e bruciacchiati. E sono proprio il fuoco e la cenere alcuni degli elementi chiave dello spettacolo: nei tagli finali, infatti, il fuoco svolge un ruolo sia costruttivo, ai fini della creazione della sequenza, sia distruttivo nello spingere la stessa verso il suo climax.
Come in true Blood, e ci torniamo per chiudere il cerchio, anche in True Detective si rende presente, anche se in maniera meno sfacciata, l’uso dell’iconografia cristiana: la connessione tra vizio e ambito religioso, enfatizzato dalla presenza nella sigla di forme femminili, di nudità e sensualità, in contrapposizione con la durezza delle forme di una croce o del moralismo imperante di quegli anni, rimanda ad un moralismo forzato e ambiguo che condurrà i suoi abitanti verso l’abuso, la criminalità e l’omicidio.
Come premetteva l’articolo in apertura, queste cinque sigle tv non vogliono ergersi a migliori in assoluto. Sarebbe una partita persa in partenza, perché molto soggettiva. Hanno però molto in comune tra di loro: fervenza religiosa, bigottismo, perversione, confini emotivi, lotte interiori, sessualità esplicita. Ogni titolo li interpreta a modo proprio, perfetta condensazione in pochi secondi di tutte le loro sfumature. Che possano piacere o no è legittimo.
Quello che è indubbio è che non possono lasciare indifferenti.
“Photography for me is a way to reflect on reality and at the same time to create it: I work between the real and the imagined.The human body provides infinite shapes and forms and is endlessly fascinating to me. “
Arnoldas Kubilius (1982) è un fotografo nato in Lituania e residente in Lussemburgo.
La fotografia di Arnoldas celebra ogni forma, ogni sfumatura e ogni astrazione che un corpo nudo maschile può esprimere in bilico tra realtà e immaginazione, giocando con luci, ombre, specchi d’acqua ritrovando in alcune echi alla fotografia di Arno Rafael Minkkinen.
Una rappresentazione virile del corpo, libero da clichés e da visioni ambigue o – come afferma lo stesso Arnoldas – “la nuda e cruda seduzione della carne”.
“dreamy images of bodies drowning in luscious colours with raw, carnal close-ups..”
I suoi soggetti sono muscolosi, atletici, plastici ma troviamo anche rughe, cicatrici, vene rigonfie, arrossamenti, il morso degli abiti sulla pelle.
Realismo e celebrazione del corpo maschile che trova realizzazione nel libro fotografico (H)ombres, un gioco di parole tra lo spagnolo “hombres” (uomini), e il francese “ombres” (ombre) che si esplica chiaramente nella scelta di mostrare quasi esclusivamente corpi senza volti.
Questa era una cosa nuova, era nata da quando c’era il monito di rimanere a casa per evitare i contagi. LEI aveva imparato ad usare le narici, e odorava tutto: l’aria i ricordi, il sole, il tempo, i pensieri. Aveva scoperto cosa vuol dire “assaporare dal naso”. Non è una cosa che fanno tutti (almeno non da adulti). “Quando non permetti all’aria di entrare per intero dentro di te… la magia non si svela”. La mattina aveva il suo rito: “sedia rossa”, finestra, sole, libri, carte, computer e passava il tempo come se la vita fosse tutta davanti. I progetti nascevano da soli come un onda. Quando l’odore sapeva di buono, non aveva dubbi, doveva assecondarlo. Un giorno, quando era divenuta consapevole della magia del suo naso, le era capitato di avvertire un odore più penetrante del solito. Un fresco strano che l’aveva riportata subito all’infanzia in un luogo pieno di alberi, era un odore così forte e definito che lei pensò subito fosse qualcosa di piu importante del solito pizzicorio, era una cosa più grande, come un quadro. Lei non vedeva bene l’immagine, ma percepiva un odore di libertà. Il suo quadro sensoriale era lì un po’ indefinito ma c’era ed aveva in se la fragranza del tempo SOSPESO. Un tempo simile a quello della pandemia, ma nel quadro era senza restrizioni: il tempo era un tempo scelto! Lei ebbe la netta sensazione che, se voleva mettere a fuoco il suo quadro sensoriale, doveva prima trovare il suo tempo più comodo, capirlo, indossarlo, metterlo su come un cappotto e portarlo a spasso. Mentre fantasticava questa idea, le si avvicinò un odore diverso, inquietante che pungeva al naso. Le sembrò di intravedere qualcosa di scuro, era lo scorrere dei giorni prima della pandemia. Entro’ dentro l’immagine, era titubante ma voleva capire da dove venisse la paura. Entrò dentro e guardò, guardò con attenzione e vide una cosa che le strinse il cuore….vide un grande enorme caos di gente e di pensieri. Vide un groviglio di cose e persone, tutti che correvano con il fiato corto, cortissimo, correvano intorno a un vortice di impegni e c’erano urla e c’era fracasso e c’era anche allegria, ma tutto troppo forte e la travolgeva e lei senza accorgersene smise di respirare! E’ questo che accade quando hai paura, smetti di respirare. E lei aveva paura, paura di perdersi di nuovo, di correre dietro a cose senza senso, di ricominciare una vita col fiato corto! Allora, istintivamente alzò le spalle, nervi contratti e le spalle arrivarono fin quasi alle orecchie, strette strette. Strinse tutto come faceva quando aveva paura, per proteggersi e mentre era così assurdamente contratta scoprì che in quel movimento istintivo e anche un po’ doloroso ora c’era una cosa che si era aggiunta, lei indossava qualcosa, era come un cappotto. Stringendo le spalle il bavero le era arrivato sotto il naso e lei ne sentiva l’odore, sentiva l’odore del suo tempo. Lo annusò e lo riconobbe, era il suo tempo. Era un po’ lento a dire il vero, lento, forse più lento di quello di molti altri e lei non lo sapeva. Lei faceva sempre tante cose in un solo minuto, ma il suo tempo comodo era un tempo lento. Lento e pienissimo, era un tempo ripieno, morbido e aveva un odore tiepido di casa, di pane. L’odore le entrò nelle narici e lei inspirò piano. Prese una pausa e buttò fuori! Le spalle scesero, si rilassarono e il cappotto si sistemò meglio sulla sua schiena ma rimase lì, elegante e comodo ad abbracciarla. Sorrise, il suo quadro cominciava a prendere forma. Lo guardò meglio e intravide una cosa, una cosa molto familiare che la rassicurò: era la sua sedia rossa.
I know this much is true di Derek Cianfrance con Mark Ruffalo in onda su HBO, un episodio a settimana. Alla vecchia nostalgica maniera. (Per il terzo episodio ci tocca arrivare al 24 maggio).
Quando finisce il primo episodio succede che ti manca il fiato. Una coltellata dall’inizio alla fine questo primissimo episodio, ma anche il secondo. Probabilmente anche il terzo. Senza tregua senza luce tutto immerso in un grigio verde anni novanta (epoca di ambientazione). Tutto sottoesposto, come i sentimenti. Nascosti. Inviolati. La luce, il sole, solo una volta farà capolino in 59 minuti di storia. In quella scena straziante in cui “Domenico” Dominick/Mark Ruffalo cerca di recuperare suo fratello gemello, Thomas/Mark Ruffalo, nell’acqua del fiume.
Adesso posso avere il mio panino al McDonald’s?
Quasi religiosa questa sequenza, come del resto lo è anche il sacrificio iniziale quel religious act, di una morte di un volere di una morte di un non accettarla la morte. E poi il sole, eccolo, che inghiotte in controluce i due fratelli, un Caino e un Abele moderni.
“Sono forse il guardiano di mio fratello?” chiede Caino al Signore, nella Genesi.
Prenditi cura di tuo fratello, gli dice sua madre.
Mi prenderò cura di mio fratello. Risponde lui. Ripete lui. Tra le lacrime.
I due gemelli: la notte e il giorno. Dice in auto, a tal proposito, Ray, il loro patrigno.
C’è un momento, fuori dal racconto filmico, uno zoom-in lentissimo sulla foto che ritrae Domenico Onofrio Tempesta, autore del manoscritto in italiano, dal contenuto conturbante. Che se avessi dei figli… quest’uomo non lo farei avvicinare a loro. Volevo solo dirti di non farlo leggere a tua madre, se non prima di averlo letto tu. Dice Nedra/Juliette Lewis.
Ed è così che Dominick comincia il suo viaggio alla ricerca delle sue radici. Così lontane nel tempo, che quasi si sono perse.
Ma chiunque fosse mio padre, mia madre mantenne il segreto. Ci convisse. Lo seppellì. Lo seppellì dentro lei, per tutta la vita.
La performance della Juliette Lewis che scimmiotta Juliette Lewis è una perla dentro una perla. Una bellezza tristissima accompagna tutta quella scena. “Non c’è bellezza senza ferita”, come insegnava Francis Bacon. Il contraltare alla ex-bambina di Natural Born Killer sono i piani di ascolto di quel mostro di bravura che è Mark Ruffalo, intrisi di imbarazzo e allo stesso tempo di desiderio incompiuto. Di tristezza cupa, desolante. Senza rimedio.
Derek Cianfrance, maestro di umanità, insiste sui primissimi piani senza lasciare mai i due gemelli, senza lasciare la madre, senza lasciare l’ex-moglie senza lasciare nessuno. Le lacrime, le sopracciglia che si aggrottano, le smorfie, l’assenza dello sguardo, i pori la pelle i peli. Il dolore. Sempre.
La fotografia, per me eccelsa nel suo non essere e non voler essere spettacolare, sottolinea i paesaggi interiori dei protagonisti. Con garbo. Umiltà. E bellezza. Una luce naturale piovosa insistente grigia. Le luci al tungsteno contrappongono uno strano calore, fittizio. Lo si vede in quelle poche lampade che si irradiano sulle distese fredde freddissime delle inquadrature.
Il direttore della fotografia Jody Lee Lipes, lo stesso di Manchester by the Sea, filma in 35 mm. E lo fa con eleganza e maestria.
Anche quel bacio, come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere in questo momento, che parte con una correzione di macchina su una pan laterale, è sublime.
Ogni momento di questa serie è cinema. Puro cinema.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e rientrare di quelli… Sicuramente Manzoni – Alessandro – ti stava guardando mentre sulla spiaggia di Port Douglas saltavi su quel grosso pezzo di aborigeno, al sole di mezzogiorno. Anche le mamme ti guardavano, coprivano la vista ai loro figlioletti curiosi coprendolo con gli asciugamani dei Minions. Ai mariti, invece, toccava uno schiaffone tra capo e collo, perché, arrapati dalle tue grazie mezze di sudore mostravano un barzotto, oramai vago ricordo per le compagne. Tu alle altre donne stai sul cazzo, forse perché invidiose del grosso palo nero che ti stavi lavorando. Forse perché la tua sfacciataggine non hanno mai avuto il coraggio di avere. Una schiera di guardoni riprendevano il tuo corpo con una mano, con l’altra affondavano veloci estringenti colpi alle loro tristi mazze solitarie. Eri contenta. Come quella volta che a Como sei salita sul minareto, il filo del tampax spuntava dalle labbra e tu mimavi un rapporto orale degno di Liam Gallagher senza vergogna. Ci hanno arrestati, abbiamo ricevuto una fatwa e ci hanno lapidati in piazza, cazzo di arabi senza senso dell’umorismo. I Curdi invece ci sono simpatici. Ci hanno sempre salvato il culo. Salvo rompercelo il giorno dopo sul cesso, quando asciugavamo la nostra chimica con i loro Kebab da due euro e mezzo. Ad un tratto ti sollevi, sfilando il palo nero dalla tua carne gonfia, e girandoti verso di me urli “stronzo, sto godendo” facendo partire un copioso schizzo che lava me e i miei RayBan. “Per te niente happy ending, cornuto”. Mi butto in mare, so di piscio e cazzo nero, preferisco l’acqua al sole di mezzogiorno, tira brutti scherzi ai voyeur pallidi come me.
Composition Book | Storia Blu. Testo e artwork: Luca Mata Progetto editoriale: King Koala
Personaggi strambi, dagli improbabili vestiti che provengono da mondi e tempi lontani.
Oggetti che sovrastano i protagonisti, il denaro che detiene il potere. Se non paghi la porta che si apre, tu non esci di casa. Li hai 5cents amico? La porta ti parla, muovendoti accuse, sei un fallito dice. Per entrare e uscire da ogni luogo dobbiamo pagare il conto. È un modello, questo, un sistema, che crea un certo disagio. Ci sentiamo il qualche modo incastrati, tagliati fuori o bloccati dentro. È un elemento significativo, un pretesto quotidiano che però si carica di un significato simbolico che ci fa riflettere sul fatto che senza denaro siamo come topi in trappola. Il potere del denaro sulle nostre vite e la sua pericolosità, il potere di un denaro che tramite gli oggetti, le macchine, i marchingegni tiene sotto scacco l’umanità. Ma cos’è esattamente Ubik?
Sempre, all’interno del testo, sopra ogni capitolo aleggia la sua ombra sinistra, che fino a pagina 98 non sappiamo ancora cosa sia davvero, mentre siamo consci delle sue potenzialità. Pare sia tutto e nulla, un innocuo je ne sais qua che a volte ha la fragranza del caffè appena tostato, altre ci salva dai debiti economici, in certi contesti è un prodotto per la cura della cucina, in altri un condimento per le insalate, una crema anti-secchezza per capelli o un intruglio – che io francamente e non so voi, non mi sognerei mai di bere – che rimette lo stomaco in sesto dopo un’abbuffata.
Cosa diavolo è Ubik?
Molte volte, nel corso della lettura mi sono chiesta cosa potrebbe essere il vero significato di questa parola e altrettante volte non ho saputo rispondere. Probabilmente Ubik è Dio, il grande fratello che ci spia continuamente, è la pubblicità che ci condiziona, sono le lobby, è chi detiene il potere e muove le trame del mondo. Ubik è una sottocultura intrisa di modernità, è al contempo l’eccesso di un mondo globalizzato, la sua frattura e il nostro spavento. Una e tante cose, apparentemente insignificanti ma sostanzialmente fondative di un certo universo, di un tipo specifico di realtà.
È il primo Philip K. Dick che leggo e non me ne vergogno. La vicenda biografica di questo scrittore mi ha profondamente colpita e la sua bibliografia farebbe impallidire chiunque, almeno per quantità. Per valutare la qualità bisogna aspettare di leggerne almeno i testi fondamentali. Non valuto la qualità della scrittura, considero la genialità di pensiero, la stravaganza creativa, il saldo contesto spazio-temporale plasmato, gli immaginifici mondi, gli assurdi universi, il terreno che frana sotto le scarpe del lettore e che si ricompone altrove, in altri tempi. Il concetto ambiguo di morte, l’esistenza che continua oltre la vita, in un dialogo verosimile tra vivi e trapassati. Considero tutto questo e a tutto questo mi inchino. Philip K. Dick è stato precursore e profeta, un sognatore e un visionario.
Alla fine l’ho scoperto che cos’è Ubik, ma non ve lo dirò. Semplicemente ammetto che, in parte, mi ero sbagliata. Vi parlerò di altro comunque, delle potenzialità della scrittura di Philip K. Dick di narrare in modo autentico allucinati mondi, di descrivere il 1992 (che rappresenta il futuro nel testo!) balzando qualche riga dopo nel 1939, con automobili sferraglianti e maledettamente lente, con case antiche, palazzi arcaici, vite prive di qualsiasi comfort.
Quale insegnamento possiamo cogliere tra queste pagine?
Possiamo seguire almeno tre piste, la prima, quella forse più ovvia è che uscire ogni tanto dalla nostra comfort zone ci fa solo bene. La seconda è che il futuro, quello che avevano immaginato agli albori del ‘900 o negli anni ‘70 è ancora lontano. Ubik è ambientato nel 1992. Descrive quest’anno come un inimmaginabile futuro, con navi spaziali che viaggiano in ogni dove e a tempi minimi, filetti brasati di grillitalpe marziane, congelamenti rapidi di morti che riportano i defunti a una semivita attiva. Nel 1992 io avevo un anno e non potrei ricordare comunque, ma non mi risulta che una qualche organizzazione di previdenza abbia condotto i propri lavoratori sulla Luna per un qualche misterioso progetto. Il terzo insegnamento è: mai fidarsi degli sconosciuti e questa equivale a legge universale, in qualunque universo, in ogni epoca.
Le mie parole sono sicuramente influenzate da una quarantena della quale non ancora bene si vede la fine. Oggi 19 marzo, mi manca camminare, mi manca la luce del sole. Oggi è tempo di parlare di viaggi interstellari, è tempo di parlare di evasioni, di rincorse nei più estremi spazi, di decadimenti della materia verso stadi procedenti. È un modo per evadere restando fisicamente dove si è. La letteratura tutta, del resto, ha questo potere, tutto il mondo letterario, nella sua corposità di generi e nella variabilità di stili e autori, assolve, consapevole o meno, questo oneroso compito.
Le evasioni di Philip K. Dick
Nello specifico Philip K. Dick, non si occupa unicamente di evasioni, si impegna piuttosto ad indagare quella che è la condizione dell’uomo quando certe varianti dello spazio-tempo lo conducono “altrove” rispetto al suo quotidiano. Lo scrittore di Chicago si domanda come possa reagire un individuo medio davanti a fenomeni inusuali. La sua è una fantascienza di stampo esistenziale. I luoghi, il contesto che racconta sono sempre delle fantasmagorie, sono illusioni, sono permanenze astratte e fallaci. Sono prodotti di una mente altra, elementi riflessi dal mondo delle idee platonico, ingranaggi di un grande sistema dove il tempo è contemporaneamente fermo e in decadimento continuo. Luoghi dove tutti sono uomini ciechi dentro caverne che credono mondo, uomini che si nutrono di ombre e riflessi pensandoli come qualcosa di autentico.
Tutti noi, dalle spelonche delle nostre vite, dagli anfratti delle nostre esistenze, dai silenzi delle nostre stanze in penombra condannati a una lenta quarantena, dovremmo leggere almeno un libro di questo grande scrittore americano, di questo genio filosofico dal pensiero soverchiante, perché, per dirla con le sue parole, drammatiche ma al contempo rassicuranti:
riteniamo che al momento la situazione sia piuttosto minacciosa, seppure non disperata. La disperazione non è indicata… mai, in ogni caso.