Latest Posts

Roxy Beat – La memoria, tra fotografia e poesia visiva.

Roxy Beat

Mi chiamo Rossana Battisti – aka Roxy Beat – sono nata a Terni nel 1978, ma da anni la città che mi accoglie è Bergamo.

“Cuore  pulsante della mia fotografia e’ mantenere e trattenere i ricordi dall’oblio, ma soprattutto cristallizzare le sensazioni che da essi scaturiscono.

Definirei  la mia una “fotografia emozionale” in quanto non fotografo il soggetto in quanto tale, bensì la sensazione che questo restituisce guardandolo.
Istintivamente mi volto indietro alla ricerca di valori perduti e amo rifugiarmi in luoghi pieni di vecchie cose e di vecchie foto che odorano di ricordi.

Sto realizzando una serie di foto con varie analogiche e stampate poi digitalmente su pagine ingiallite di vecchi libri e vintage efemeri. Il connubio tra fotografia e vecchi libri ben condensa il mio concetto di memoria e ricordi.

L’odore del passato mi tranquillizza e ammutolisce il frastuono della vita moderna, risvegliando in me il profondo desiderio di un ritorno alla vita naturale.

La mia è una fotografia crepuscolare che si aggira nel silenzio dei parchi, tra statue e odore di pioggia e il ricordo è il filo d’oro che unisce gran parte dei lavori che faccio.

Per me la  fotografia è malinconica e nella mia ricerca sviscero questo concetto in tanti modi differenti.

Tra i mie progetti vorrei citare “AZIONI URBANE DI FOTOGRAFIA: POESIA VISIVA, nato nel 2019 e tutt’ora in corso. 

In camera oscura, stampo un certo numero  di provini a contatto, li taglio  con forbici ondulate,  sul retro scrivo il mio tag #roxybeatphoto e con un biadesivo li attacco per le strade, sulle porte, sulle finestre, sui pali, ovunque. 

La strada diventa la galleria delle mie fotografie, un messaggio poetico che può essere lasciato là dove viene trovato oppure staccato e adottato.

Facebook: roxybeatphoto
Instagram: roxybeatphoto
500px.com/roxybeat

Distancing Diary

Distancing Diary - Valeria Dellisanti

di Valeria Dellisanti

In questi giorni caotici e spaventosi ho tenuto un diario visivo per tenere traccia del mio umore e sentimenti durante la quarantena.

Distancing Diary - Valeria Dellisanti


Di solito quando inizio un nuovo progetto tendo a curarlo in ogni dettaglio e a tenere tutto sotto controllo.
Questa volta è stato diverso: le foto non sono perfette, forse neanche belle.
Le pagine del diario sono sporche, e le parole scorrono da destra a sinistra in modo confuso e disordinato.

Distancing Diary - Valeria Dellisanti
Distancing Diary - Valeria Dellisanti
Distancing Diary - Valeria Dellisanti


Riguardando quello che avevo fatto dopo giorni di inattività e analizzandolo, ho pensato che forse andava bene così com’era, anzi che forse la forza di questo documento fosse proprio quello che io pensavo essere il suo lato negativo.

Distancing Diary - Valeria Dellisanti
Distancing Diary - Valeria Dellisanti
Distancing Diary - Valeria Dellisanti
Distancing Diary - Valeria Dellisanti


Penso che così com’è sia in grado di rispecchiare la situazione che stiamo vivendo in cui quasi più nulla può essere controllato. Ora come ora non ci è possibile fare piani per il lungo termine, si vive alla giornata, come scrivo nel diario: “vivo qui e ora” non più proiettata verso il futuro.

Distancing Diary - Valeria Dellisanti


Perché ho tenuto questo diario?


Magari per elaborare meglio quello che sta succedendo, magari per tenermi impegnata con qualcosa o magari per ricordarmi di ricordare come stavo e cosa ho provato e che alla fine è stato bello condividere le mie giornate con Luca.

Distancing Diary - Valeria Dellisanti
Distancing Diary - Valeria Dellisanti

Il diario completo lo trovate qui

Storia verde

di Luca Mata

Dormo poco, quando si fanno le 5 mi sveglio,
dicono che ho il disturbo del sonno.
Questa mattina combatto, la muffa è all’attacco,
si insinua tra le crepe, mi attacca al tavolo, mi prende e mi sbatte,
mi fa precipitare da un quinto piano sul tetto di una cabrio.
Il proprietario è gentile, tutti i giorni viene in ospedale,
mi porta le sigarette che mi scaldano i polmoni pieni di amianto,
mentre sono qui in questo letto con le ossa e i denti rotti, vivo,
con il mio ossigeno per la notte.
Sono qui e ti faccio piangere, nel bagno, mia bambolina russa.
Ricordi quando ti tagliavano le orecchie e le appendevano in piazza,
così potevi ascoltare discreta, dicono che sei sovietica e razzista.
Dicono anche che sei fidanzata
ma ti piace scopare con tutti quelli che ti trattano male e ti umiliano.
Io gli credo e mi piace.
Vorrei un bocconotto, di quelli con il cioccolato,
da ingoiare tutto d’un fiato.
Scusa se ti ho fatta piangere, sono nervoso, arrabbiato,
tu sei stanca o moscia, io sono teso o appeso.
Mi farò perdonare,
andremo al mare,
salteremo tra le onde,
con il buio e le stelle,
tra meduse e pesci elettrici.
Voglio farti vedere i grossi uccelli rosa.
Raccoglieremo sassi e conchiglie,
ci faremo collane con cui strozzarci quando tutto finirà.
Portati la crema, perché andremo sulla mia barca veloce,
ho preso la patente
e in mare non ci sono semafori.

Storia verde.

Testo e artwork: Luca Mata

Progetto editoriale: King Koala

L’estate che sciolse ogni cosa – Tiffany McDaniel

Il caldo arrivò insieme al diavolo. Era l’estate del 1984 e il diavolo era stato invitato.


Quando hai tredici anni l’estate è un periodo senza confini, che si estende davanti a te in tutta la sua potenzialità e in tutta la sua noia. Sono i mesi della possibilità, dove ti immagini che tutto cambi ma dove, il più delle volte, non cambia nulla.
Tranne che tu non viva a Breathed, Ohio e che il tuo nome non sia Fielding Bliss, figlio di Autopsy Bliss, che ha deciso, dalle colonne del giornale cittadino, di invitare il diavolo a venire in città. Proprio quell’estate, quella del 1984.

Egregio Satana, Diavolo chiarissimo, esimio Lucifero, e tutte le altre croci che siete costretto a sopportare, vi invito cordialmente a Breathed, in Ohio. Terra di colline e di balle di fieno, di peccatori e di uomini capaci di perdonare.
Che possiate venire in pace.
Attestandovi la mia fede,
Autopsy Bliss


E il diavolo risponde.
Ha l’aspetto di un ragazzino; nero, occhi verde smeraldo, un ciotola e un cucchiaio con sé, e la saggezza di un anziano.
L’arrivo di Sal, così dice di chiamarsi dalle iniziali di Satana e Lucifero, sarà l’inizio dell’estate più torrida che la cittadina ricordi e l’inizio dello scioglimento di ogni sicurezza, vincolo e ipocrisia in un pantano appiccicoso che resterà sulla pelle anche dopo la fine del libro. Anche
dopo una vita passata a cercare la redenzione.

L’estate di Breathed, Ohio ci viene raccontata da due narratori.
C’è un tempo in cui la storia è raccontata da Fielding, un tempo futuro, di deserto, solitudine e incapacità di comprendere e perdonare il passato. E c’è un tempo in cui la storia è raccontata da Fielding, sì ancora lui, un tempo passato, quello dell’arrivo del diavolo, quello del caldo, quello della divisione della comunità. Della rivelazione dell’umanità.

L’estate di Breathed, Ohio, quella nella quale si sciolse ogni cosa, anche l’amore, è l’estate del 1984 l’anno in cui verrà isolato e identificato un retrovirus che prenderà il nome di HIV, in cui l’Apple lancerà il Macintosh, in cui Michael Jackson si ustionerà nel far pubblicità alla Pepsi, in cui accadranno tante cose belle e brutte. L’estate in cui il diavolo deciderà di mettere ognuno di fronte alla propria verità, di scoprire cicatrici, recidere rami, mostrare il deserto morale. E sarà il nano Elohim, uno dei personaggi più riusciti del romanzo, a farsi carico di tutto questo cancellando la responsabilità individuale e portando avanti un unico, violento, drammatico atto collettivo.
Si esce spezzati da questa lettura. La narrazione è ricca di riflessioni morali e teologiche. Ci si interroga, continuamente, insieme ai personaggi sul libero arbitrio, il bene e il male, il dolore e il suo senso (ma poi, per parafrasare Pavese, soffrire serve a qualcosa?)

La gente chiede sempre perché Dio permette che ci sia tanta sofferenza nel mondo. Perché lascia che un bambino venga picchiato, che una donna pianga, che succeda una strage? Che un buon cane muoia soffrendo? La verità è che vuole vedere cosa facciamo noi. E’ lui che ha tirato fuori la candela, ha messo il diavolo allo stoppino, e adesso vuole vedere se noi la spegniamo o aspettiamo che si consumi. Dio è il più grande spettatore della sofferenza.

Tiffany McDaniel, nativa di questo Ohio che tanto ci descrive bene, nei suoi campi e nei suoi cieli, riesce a tratteggiare i personaggi con un tale acume psicologico e tale amore da far sentire, chi legge, parte della comunità, con i suoi silenzi, le sue urla, i suoi freak e le sue storture.
Si esce spezzati da questa lettura. Ho smesso di respirare per tutte le ultime settanta pagine. Il diaframma bloccato. Il vuoto tutto attorno.
Una narrazione lirica, un prodigio di belle parole. L’umanità, la diversità, il fato e l’ineluttabilità. Scivolare sul pavimento e perdere la fede. La mancanza che riduce tutto in pezzi. La cattiveria che da questi pezzi genera milioni di ombre. E la redenzione che, a volte, non c’è.

Nota:
Nativa dell’Ohio, Tiffany McDaniel, con questo suo primo romanzo ha vinto il The Guardian’s 2016 “Not-the-Booker Prize, l’Ohiana Library Readers’ Choice Award ed è stata finalista per il The Women’s Fiction Writers Association Star Award for Outstanding Debut. La McDaniel ha scritto un romanzo di rara bellezza, strano e inquietante.
Un grazie enorme alla casa editrice “Atlantide” e alla traduttrice Lucia Olivieri.

Do you love me?

do you love me? Paolo Coppolella

Foto: Paolo Coppolella – Testo e Musa: Giovanna Gentilomo

She had a heart full of love and devotion
She had a mind full of tyranny and terror
Well, I try, I do, I really try
But I just err, baby, I do, I error
So come find me, my darling one
I’m down to the grounds, the very dregs
Ah, here she comes, blocking the sun
Blood running down the inside of her legs
The moon in the sky is battered and mangled
And the bells from the chapel go jingle-jangle
Jingle-jangle, jingle-jangle, jingle-jangle
Do you love me?
Do you love me?
Do you love me like I love you?

Do You Love Me? Nick Cave
do you love me? - Paolo Coppolella

È strano essere visti.
Non capita spesso. E, nella mia esperienza, è ancora più raro il desiderio di farsi vedere. Ci vuole una buona dose di coraggio per farlo.
Ed essere visti da qualcuno che sa guardare può essere un atto d’amore. E fa paura, una paura fottuta, perché cosa può vedere uno sconosciuto? Come posso fare in modo che il mio atto d’amore, il mio desiderio di essere vista non venga frainteso?
Non potrò mai saperlo, non posso averne il controllo.
Ma posso provare a essere coraggiosa, a lasciare che il brutto scivoli via, e lasciare a chi sappia vedere di guardare.
Come dice Nick Cave “I let love in”.
E io lo voglio lasciar entrare, brutto o bello che sia.

Giovanna Gentilomo
do you love me? Paolo Coppolella

I let love in

Do you love me?

I found her on a night of fire and noise
Wild bells rang in a wild sky
I knew from that moment on
I’d love her till the day that I died
And I kissed away a thousand tears
My lady of the Various Sorrows
Some begged, some borrowed, some stolen
Some kept safe for tomorrow
On an endless night, silver star spangled
The bells from the chapel went jingle-jangle

Nick Cave

Model: Giovanna Gentilomo
Ph: Paolo Coppolella
Tutte le foto sono scattate con una Pentax Espio 738 e rullini Fuji 200.
No post produzione, no filtri.


Il mio terzo shooting con Giovanna: una delle poche persone che non mi stancherò mai di fotografare.

Paolo Coppolella

do you love me? Paolo Coppolella

La ricerca della libertà di Era Enesi

“Provavo un piacere selvaggio a correre sotto il vento e a stordire il mio spirito conturbato”

Charlotte Brontë 

Vento.
come Era, il suo nome in lingua albanese.

 Ossessivamente ricerco all’interno del mio subconscio il significato della  parola libertà che si esplica attraverso il nudo.

La sensazione di mancanza e sconosciuto mi muove verso la ricerca di un rapporto sincero e intimo con le persone che fotografo, rivedendomi ogni volta in loro.

Attraverso la macchina e i soggetti mi annullo, spogliandomi di tutte le realtà della mia vita”.

“I ricordi intrecciati alla fotografia esprimono il mio tentativo di liberazione verso me stessa e gli altri.

Era Enesi

www.eravento.com

Instagram: @eraenesivento

Mind Travel

Mind Travel - w/Google Earth

Mind Travel w/Google Earth di Manuela Pace

We’re all afflicted with a heinous curse

Metacognition, now what could be worse?

Than to constantly question the meaning of life?

Eternally asking for answers to “Why?”

What will become of us? Will we evolve?

We seem to create more problems than we solve

Will we be angels above endless sky?

Or do we decay from the moment we die?

Will we become slaves

to machines we create?

Will we succumb

to our penchant for hate?

Will we destroy

our own genetic code?

What will become

of us years down the road?

Can we undo the deal that we struck out of fear?

Raping the globe, sobbing “the end is near!”?

Can we stand to look towards blinding light?

Or will we extinguish it out of spite?

When we kill ourselves off, will all species join?

Does their fate even rest on the flip if a coin?

Or are we already collectively doomed?

Walking-dead marching towards our final tomb?

Even if we erase all the damage we’ve done

Is there any hope left for us under the sun?

For anyone who ever dared to ask why–

For Sweet Love of Planet Earth must we all die?

We’re already dead or never were alive

This life’s an illusion–it’s all just a ride

Why?

Why are we here in the first place to ask ourselves “Why?”

What is the purpose, and what is the prize?

Is there some greater goal towards which to aspire?

Do we exist just to fulfill desire?

It’s possible the reason we exist

Is to give subtle texture to times endless mist

It’s possible, that we’re only here

To live, die, evaporate and disappear

Nothing is permanent

We’re only here til we die

There’s no greater answer

To any of life’s questions why

We’re on our way out, we’re going

We’re going to die

There is no grand reason or purpose for being alive

We’re here til we’re not, that’s the end, that’s the nature of life

We’re already dead if we don’t realize this is life

We may as well be dead if we don’t accept this is life

We’re as good as dead because this is what we’ve done with life

We’ve chosen to do nothing greater than this with our lives

Sweet Love For Planet Earth – Fuck Buttons

For Sweet Love of Planet Earth all human beings must die

Rebibbia Quarantine – Zerocalcare

rebibbia

Le parole, qui sotto, sono quelle di Giancane e il motivo che molti di voi riconosceranno è quello che apre ogni episodio di Rebibbia Quarantine.

E adesso cosa farò?
Son certo che morirò
In questa stanza di merda, non a casa mia.
La fame d’aria che sale
L’ansia cresce e fa male
Lingua asciutta, è partita la tachicardia
È solo ipocondria questa mia nostalgia
Ma è solo ipocondria questa malinconia.

Di cosa si tratta? Per i pochi che non abbiano ancora subito il fascino indiscreto della narrativa di Zerocalcare, al secolo Michele Rech, stiamo parlando di una serie di cortometraggi animati con i quali il fumettista romano ha voluto raccontare questo periodo di quarantena e di cambiamento dei nostri meccanismi sociali e comunicativi.

La serie pare essersi conclusa con il settimo episodio “Ep. Bah: ENDGAME” andato in onda venerdì 1 maggio, come tutti gli altri, durante il programma di La7, Propaganda Live, condotto da Diego Bianchi e che vede spesso, tra gli ospiti, oltre a co-conduttore Makkox, anche un altro grande autore italiano: Gipi.

Zerocalcare sembra avere un dono innato per la narrazione. A prescindere dalla tecnica utilizzata le sue animazioni sono perfette. Brillanti nella satira, puntuali nel ritmo, dirette e in grado di sintetizzare, in pochissimi minuti, i sentimenti comuni e di arrivare, tra lacrime e sorrisi, dritti allo stomaco di ognuno di noi.
Non manca nulla in quelle immagini, sia rispetto a ciò a cui ci ha sempre abituato sulla carta, sia rispetto a quella palla di sensazioni, angosce e paure che ci lanciamo l’uno con l’altro da ormai due mesi sperando che, prima o poi, un vicino dispettoso ce la buchi, perché tutti stanchi di giocare.

Ci sono i decreti, le code al supermercato, l’invidia verso il prossimo; le spie dai balconi, un governo nel caos, le chiamate di gruppo e i sotterfugi per farsi una corsetta. E le riflessioni, quelle che creano una crepa, quelle sulla condizione dell’uomo, sulla solitudine e sulla goffaggine di ognuno di noi nel tentativo di prendere il buono da questo momento storico.

Quello che disegna, e come lo disegna. Ciò che dice, e come lo dice.

Tutto qui. Non mi interessano le analisi stilistiche, i pipponi semantici, la lettura dello spazio compositivo. Non mi interessano proprio. Quando leggo, o come in questo caso guardo, una produzione di Zerocalcare quel che mi succede è secondo solo a ciò che sento quando leggo per l’ennesima volta il mio romanzo preferito (IT, di Stephen King, per i più curiosi): rido certo, e tanto, ma provo anche quella strana sensazione, quel groviglio senza capo, di dolori, sorrisi, amarezze, strette al cuore che la parola nostalgia non riesce a rappresentare. Perché è qualcosa di più, è tutta la vita di una generazione, quella nata negli anni ‘80, a cui è stato promesso il mondo ma, si è resa conto della bugia.

E così tra citazioni, pubblicità, film, cartoni animati, rimandi culturali pop e una comicità a tratti disarmante nella sua semplicità, a tratti dolorosa, con Zerocalcare si trova qualcuno che sa parlare con te e per te.

Per la prima volta mi sento parte di qualcosa. Di appartenere.
Di essere radicata. Avere delle radici. Così difficili da trovare, in tutta la mia vita. Così difficili da riconoscere tra la confusione del vivere. Del dimostrare. Del cercare di capire chi essere e come essere.
Muoversi nelle macerie, muoversi nella quarantena, nel tentativo di trovare una propria identità sotto le pietre e arrivare a capire che, l’identità della mia generazione (o di molte delle menti della mia generazione) è proprio non averla un’identità. Spogliati di tutto.
Cresciuti con la convinzione che tutto sarebbe andato bene per poi scoprire che il futuro è una trappola (cit.).
Ma nonostante tutto, trovare il modo.

Rebibbia Quarantine per me è stato questo. Zerocalcare è ormai un affetto stabile.
E non è poco. 

Chissà se sono più le cose che guadagni o quelle che perdi, quando impari a campare. (Macerie prime – Sei mesi dopo, Bao Publishing 2018)

Parole, opere e mai omissioni – Lettere (poco) ordinarie di Enrico Pantani.

Enrico Pantani è un artista, un illustratore, uno che per caso si laurea nel 2002 in Storia del Teatro francese. Parallelamente inizia a dipingere e disegnare, ad appuntare storie su piccoli blocchetti neri. Lavora per anni chiuso nel suo studio, poi (sempre per caso) inizia ad esporre i suoi lavori in Italia e all’estero. Vive e lavora a Pomarance, un piccolo paese in provincia di Pisa. 

Lo seguo da tempo sui social, lui coi suoi disegnetti a cazzo (cit.), estremi, i personaggi surreali, le scritte irriverenti. Un flusso creativo continuo dallo stile – forse – indefinibile ma inequivocabilmente riconoscibile. 
È difficile, infatti, descrivere quello che esce dalla mente e dalle mani di questo eclettico artista dallo sguardo truce e il pensiero veloce che ogni giorno lascia un segno. Una parola. Un disegno. Su fogli sparsi, quaderni, taccuini e timbrini, shopper e spillette. Piccoli capolavori spiazzanti che sono lì così, nati per Caso, e allora penso che questo Caso è davvero fortunato se in suo nome certa brava gente come il Pantani riesce a creare tutto questo mondo stra-ordinario.

Lui lo fa da anni, e sono parecchi. Sempre sul pezzo – guarda caso –  naturalmente sboccato, un anticristo, un intransigente (cit.). Seriale, implacabile, Enrico Pantani è una sorta di artista-analista-tuttologo-commentatore dell’apparente nulla cosmico che talvolta ci circonda e ci attanaglia. Smonta, ribalta, rimanda. Con quel suo tratto essenziale apparentemente improvvisato, arriva a cogliere il centro di certe questioni contemporanee – e talvolta future – di attualità, politica, società e altre amenità in modo tagliente, quasi chirurgico. Con parole, opere e mai omissioni.

È sempre in grazia di questo famigerato signor Caso che poi centra sempre il segno. Nerissimo. Lo fa anche in quarantena, con una serie di cartoline illustrate per illustri destinatari. Ché lui, mica gliele manda a dire. Le scrive e le dipinge personalmente, una a una, dal suo studio a Pomarance.  È da lì che sono partite come un razzo missile le sue mini-missive, lapidarie, sarcastiche, visionarie in giro per il cosmo dell’internet e pregne di domande, (s)comode verità e profezie dissacranti da un futuro post-quarantena prossimo (e riservatissimo) che come quello del sig. Lapo Elkann – “te non lo sai ancora e non dirlo a tuo fratello“.
Enrico Pantani ne ha per molti, ma non per tutti. 

Si rivolge al signorino Gesù di Nazareth – carissimo – quello famoso e privilegiato, che chissà dove si sarà nascondendo, in questi giorni di assurda quarantena … “mi sembri quasi Di Maio, prima ci sei e ti impegni, poi stai zitto, sei introvabile”. E infatti lo scrive pure al postino, che questo è difficile da trovare. Più facile, invece, recuperare Enrico Mentana, che tanto negli studi de La7 ci dorme pure. O il Paolo Crepet, psicoterapeuta prezzemolino che da tempo immemore giunge nelle case degli italiani attraverso non meglio precisati programmi in diretta, tra drammi famigliari e vip sull’orlo di una crisi di nervi dalla D’Urso. Dedica un messaggio alla Susanna Messaggio – appunto – “che solo a nominarla tutti sarebbero ispirati”. Lui di sicuro, che propone persino un mega tour di Gioca-Jouer perché, come dice saggiamente rivolgendosi a Claudio Cecchetto, la gente vuole sentirsi dire cosa fare. 

Una ristretta, illuminata selezione di destinatari noti scelti forse per le loro memorabili gesta. Passate o future. O magari no, solo per simpatia. Solo per caso. Il suo. 

Se non l’avete già fatto, andate a vederle sul suo Instagram. E seguitelo.

Edward Hopper e Gustav Deutsch – Una finestra sulla solitudine

solitudine

Una donna, seduta sul suo letto. Mentre il sole sembra volerla abbracciare, inondare, lei si stringe un po’ di più alle sue ginocchia, e con lo sguardo scavalca il davanzale di una finestra che dà sulla solitudine. Strade vuote e nient’altro che silenzio. Stiamo parlando di “Morning sun” (1952), uno dei capolavori del pittore statunitense Edward Hopper.

Nato nel 1882, durante la Grande Depressione, l’artista ha attraversato le due Guerre Mondiali, fino ad arrivare ai conflitti razziali, l’assassinio di John F. Kennedy e l’inizio della guerra in Vietnam; ma anche l’era della musica jazz, la nascita della radio, del cinema e di Bob Dylan. Un periodo di tutto rispetto, che ha visto la nascita di nuove e rivoluzionarie tendenze artistiche.

Tutto questo frastuono di eventi, bombe e tavolozze si spegne per qualche istante, e lascia spazio al silenzio.

Hotel room , Edward Hopper (1931)

Ho sentito dire più volte che la vera protagonista dei quadri di Hopper è la luce; a me, invece, piace chiamarla energia.

Guardando le sue opere si percepisce una tensione simile a quella della corda di un violino, e ciò è reso possibile da un’energia che permette a luci ed ombre di scolpire anime solitarie e corpi abbandonati in stanze troppo colorate. I suoi dipinti sfondano le tele ancor più dei tagli di Fontana, e in modo apparentemente più composto. Mentre le inquadrature bloccano i momenti rappresentati in blocchi di ghiaccio, si apre agli occhi dell’osservatore un contenuto spirituale e contemplativo; ci si immerge nella propria solitudine.

I soggetti dei quadri di Hopper sono spesso figure singole – o sarebbe più corretto dire figure sole – e, quando capita che si incontrino, resta comunque un forte distacco tra di loro. Sia che guardino in direzioni diverse, sia che ognuno sia concentrato sul suo lavoro, sia che si trovino semplicemente in compagnia, sembrano non ascoltarsi tra di loro, sembrano non sentirsi nemmeno. Eppure ciò che l’artista crea è proprio una dimensione di ascolto.

Sì, proprio così. Perché siamo noi spettatori ad ascoltare. Le figure nella scena sembrano ascoltare se stesse, e il rapporto con gli altri sembra essere permesso esclusivamente da questo ascolto solitario. Noi ascoltiamo loro, e facendolo diventiamo come loro. E quindi ascoltiamo noi stessi. 

Room in New York, Edward Hopper (1932)

C’è qualcun altro che ascolta, che origlia. Il suo nome è Gustav Deutsch ed è un regista indipendente austriaco. Quanto aveva ragione Picasso – sempre che fosse lui – quando ha detto che i mediocri imitano e i geni rubano!

Nel 2013, alcuni dipinti di Hopper hanno traslocato dalla terza alla settima arte e, per quanto le anime dei personaggi illustrati sembrassero già vive, dentro a quelli che ho precedentemente chiamato dei “corpi morti” è iniziato a scorrere del sangue.

“Shirley: Visions of Reality” è la versione cinematografica di tredici opere hopperiane. Un film sperimentale, da vivere e da contemplare. A parlare sono soltanto l’anima di una donna in continua evoluzione e il silenzio. E un radiogiornale, ogni tanto.

I molteplici spostamenti di Shirley sono soltanto un contesto in cui viene posto il viaggio più importante di tutti: quello dentro di sé. Vivendo in isolamento dalla realtà e dai suoi stessi rapporti, la donna trova la sua realtà, la solitudine. Una solitudine che sembra non finire mai, che la segue sempre e che chiede d’essere ascoltata. Una solitudine che insegna l’arte dell’eterno attendere, per poi ricominciare da capo, ma con più autocoscienza.

Shirley: Visions of Reality, Gustav Deutsch (2013)

Quest’opera contemporanea e immersiva è accompagnata dalla fotografia di Jerzy Palacz, che scongela in maniera nostalgicamente fedele l’universo emotivo e visivo di Hopper. Un’atmosfera scarna e malinconica si infiltra negli spazi architettonici e nei corpi degli attori, che sembrano sospesi in degli istanti infiniti, tra una pennellata e l’altra. I movimenti lenti ed esasperati fanno sì che la resa finale non si allontani più di tanto dalla sua origine pittorica. È un cane che si morde la coda, un paradosso: dei dipinti ispirati alla fotografia e al cinema che finiscono per ispirare a loro volta un lungometraggio. 

L’arte che ispira l’arte. L’arte che ispira l’uomo, o l’uomo che ispira l’arte. Hopper stesso disse: «L’opera è l’uomo, una cosa non spunta dal nulla».

Ma l’uomo e il suo Io spuntano dalla solitudine, dalle parole non dette, dai momenti sospesi, dall’ascolto e dall’attesa. 

Shirley: Visions of reality, film completo