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About a dream – La fotografia di Fabrizio Quagliuso

“La mia love story con la fotografia inzia con la scoperta di Shinjuku Plus, il libro del fotografo giapponese Daido Moriyama, un incontro decisivo per il mio percorso artistico. 

Dopo un periodo dedicato alla Street Photography, mi accorgo che alla mia  fotografia mancava una connessione più profonda e significativa con me stesso e con il mio mondo. Da quel momento in poi inizio a concentrarmi su foto più intime: ritratti ad amici e familiari o a persone incontrate casualmente, immagini di interni e spazi esterni, frammenti di sogni e di vita quotidiana con lo scopo di creare storie introspettive, profonde, che possano essere fruite a vari livelli. Ma che soprattutto parlino di me, delle mie esperienze, delle mie paure, di realtà che forse avrei voluto, ma che non ho mai avuto la possibilità di vivere.

La vera essenza della fotografia, per me, si realizza quando questa diventa un oggetto  – qualcosa che possiamo toccare, con cui possiamo interagire – ecco perché, quando è possibile, amo presentare i miei lavori raccolti in fanzine [ Fosfoleina69 (2015), Parted (2018) ].

Nel Novembre del 2019, pubblico il mio primo libro fotografico: Aritmia.

Aritmia è la storia di un sogno e di un viaggio. La modella inglese Mia Liberum ne è la protagonista. Questo è il viaggio di Mia, ma anche il mio viaggio. Un viaggio nei sogni, nella natura e nel mio io primordiale, seguendo il battito del suo cuore. E del mio.”

Il libro Aritmia è stato curato dal photo editor Steve Bisson e puo’ essere acquistato qui.

Links:

Website: http://www.fabrizioq.com

Instagram: https://www.instagram.com/fabrizioqphoto

Facebook: https://www.facebook.com/fabrizio.quagliuso

Assembramenti

assembramenti

Cerco di ricordare gli assembramenti della mia vita, non tutti eh. Solo quelli belli densi dico.

Penso alle calette minuscole della Corsica quest’estate. Tutti ammassati su quei minuscoli lembi di spiaggia, tra le scogliere a picco sul mare. Penso alle strade della mia città, dove bestemmio per scansare e non investire la gente in bici. Gli assembramenti dopo il Comics alla stazione di Lucca per prendere il penultimo regionale per tornare a Firenze, che più pieno è impossibile pensarlo un treno.

Penso all’Italia che vince i mondiali tutti in piazza a Bologna in uno degli assembramenti più assurdi di gente sopra i tettucci delle auto o sotto i portici a far balotta, che ho perso tutti i miei amici nella ressa generale della festa ma ne ho incontrati mille altri di amici, quella sera. Penso al primo maggio a Roma una vita fa e il primo maggio a Mutonia l’anno scorso. Al concertone dei Fugazi, a fine millennio scorso, a quella folla di ragazzi schiacciata dentro il CPA di viale Giannotti. Penso alle Street Parade ai Pride ai Teknival. Al caldo appiccicoso, all’odore della pelle.

Penso a tutte le volte che mi sono persa e ritrovata. A tutte le persone che ho incontrato. Alle mattine con gli occhiali scuri a parlare di arte e filosofia accerchiata da persone mai viste mai, ma tutti condividevamo qualcosa oltre all’avere ballato insieme tutta la notte. Era come una magia.

Penso alle feste casalinghe in millemila pigiati assembrati in quelle case a limonare in terrazzo mezzi nudi o a tuffarsi vestiti nelle piscine, quando c’erano. All’estate a Murcia tutti tombati nel padiglione a dormire come dio solo sa chi. Penso a Parigi a quell’alba nella distesa di persone. Alla prima volta in metro che non respiravo perché così tanta gente in un luogo così stretto io non l’avevo vista mai.

Penso al funerale glorioso con tutto il paese in carovana in lutto e le strette di mano e i baci e penso all’amore in quella stanza minuscola dal soffitto verde dietro piazza Maggiore, che così avvinghiati e felici non so se io lo sarò mai più. Con la tizia delle pulizie che entra in un momento topico che non sapevo potesse succedere nella realtà e, invece, cazzo succede. E penso che mi manca un casino pogare sotto al palco come facevo da ragazzina, che mi manca persino la notte che mi sono rotta il naso con una gomitata di quel punk, Valerio, dritta in faccia.

Mi manca la furiosa ebbrezza di questa libertà negata in questa strana dittatura senziente globale in questo lockdown da secondo millennio. Lock e Down sembrano i nomi dei due lupi che rincorrono il Sole nel Ragnarok, nel finale dell’apocalisse nordica. Skoll e Hati.

E niente, non credevo che l’avrei detto, io che soffro di ansia sociale dacché ho memoria di esistere ecco che invece lo sto dicendo, lo sto dicendo e che cazzo

mi mancano le persone.

L’ho detto.

Mi mancano le persone

con il viso scoperto

che mi sorridono e che mi abbracciano. E che non hanno paura.

Notturnalia

di Laura Oopart

La sera è il momento più duro. Le luci si piegano in un solenne inchino ogni santo giorno, e le ombre al crepuscolo tendono le braccia per cullarle. È il rito della morte che, al calar del sole, rinnova i suoi voti da affidare al mattino. I suoni si ovattano, e al contempo si amplificano, rarefatti, tra le strade deserte e gli angoli delle vie. Qualche voce. Lo sbattere del portone. L’ascensore che scende per poi risalire. Il ticchettio del mio orologio. Il mio respiro. I miei sospiri. I battiti del mio cuore. Le mani che sudano. Sono sola. Ma dentro, la testa è affollata. Ci sono io bambina che gioco a fare altari e portare madonne in processione; ci sono i grandi eucalipti dietro la nostra campagna; una sorgente stanca dall’acqua terrosa; due piccole colline appena verdi.
E poi c’è quel mare che non vedo più da anni, e il dirupo lungo che a guardarlo non se ne vede la fine. E quel dirupo ce l’ho nel petto, profondo e duro, di roccia solida e arcaica e a toccarlo a palmi aperti, sembra impenetrabile. L’aria contiene nel suo involucro un peso specifico opprimente e importante e mi sembra di soffocare, e nella sua pienezza, non bastare. Così accarezzo il viso e rassicuro i pensieri, cerco di allinearli, in file distinte, divisi per argomenti e colori ma niente, indisciplinati corrono e si sparpagliano, muti. 

Che disagio la vita, i suoi macigni e la mia inerme paura! È tutto orrendo, disgustoso, soffocante: questa solitudine, questo silenzioso frastuono, la mia pochezza del non riuscire a controllare la pancia che si agita, la nausea che sale, la deflagrazione imminente. Sto per morire. Ancora no. Che senso ha tutto questo? Calmati. È tutto finto. Vero, ma irreale. Reale ma innocuo. Non è innocuo ma non si muore. Non succede nulla, vivi il presente. Ascolta il ticchettio, è sempre lì, non cambia.

Guardo il cellulare sopra il comodino, inizio a tremare. Striature, brividi scostanti, attacchi epilettici della mia anima che si ribella, che vuole parlare, parlarmi, che non trova ascolto.
Adesso no, non voglio nessuno. Mi mancano tutti. Ed io? Mi manco anch’io. Sprofondo tra le onde del piumino, la sua morbidezza avvolge i pezzi di me che raccolgo stretti rannicchiata a riccio. Mi abbraccio. Ecco, adesso finisce. E affogo. Mi lascio cadere nell’abisso, inquietudine segreta; nel mio disagio antico, paura di vivere, inadeguatezza umana, eccessivo sentire. Mi giro a faccia in sù e fisso il soffitto per poi chiudere gli occhi e vedere il tuo viso.

Mi tocco la pancia, mio fragile vaso dei sensi e mi siedo in riva, a respirare. C’è un punto preciso, un piccolo incavo nel Monte di Venere, che apre orizzonti, e io di orizzonti ho bisogno. Di sentirmi libera, leggera, infinita e impalpabile. La salita è una dolce fatica, è respiri smorzati, affanno accennato, è cerchi concentrici, movimento leggero. Ma poi arriva il vento, e travolge e rapisce la carne, e si mangia la pancia. Arrivi tu a portarmi via, mi prendi con forza: è una danza costante, un ritmo sostenuto, una corsa vissuta. E arrivo alla cima, finalmente, ed esplode il piacere. Ma mi tira la pancia e tu non ci sei.
È un pianto copioso, il ritorno al mio mare.

Venti metri pt3: Punti interrogativi

Punti interrogativi

Miguel. Com’è che si dice in spagnolo? Hola, como estas? Non dovrebbero andarci degli strani punti interrogativi all’inizio della frase? Forse a testa in giù? Proprio come mi sento io in questo momento¿

Perché la gente fa così? Lanciare la pietra e poi tirare indietro la mano? Lanciare un aeroplanino e poi sparire senza spiegazioni? No, perché uno comincia a farsi due domande. Be’, più di una a quanto pare. Pensate che mosaico di punti interrogativi sarebbero state queste quattro righe se le avessi scritte in spagnolo.

O se le avesse scritte Miguel, con quella sua calligrafia a zampa di gallina. Ho fatto un paio di ricerche, sapete? Una calligrafia piccola indica una personalità timida, introversa e le lettere, tutte vicine vicine, abbracciate, la difficoltà a restare da soli. Il che è abbastanza contraddittorio.

Però questa è la giornata delle domande. Quindi procediamo.

Può una persona timida e solitaria soffrire la timidezza e la solitudine? Non è forse proprio in momenti come questo che ci si ritrova a pensare: “Cazzo, come sono stato idiota quella volta! Avrei dovuto mettere da parte i dubbi e partire?”. O meglio: “Quando tutto questo sarà finito, andrò da lui/lei e rotolerò fuori i miei sentimenti. Dirò ti-amo e che Dio me la mandi buona”. O potrebbe essere anche qualcosa di più pratico, del tipo: “Smetterò di sedermi da solo/a in mensa, affondando la faccia nella sciarpa e sperando di essere invisibile a tutti”.

Non lo so, è questa la mia domanda. Cosa si può trarre di buono da questa situazione? Il fatto è che le mie notti insonni non mi hanno regalato alcuna perfetta risposta. Quindi mi tocca chiedere a voi. Che lezione avete imparato da tutta questa merda? (Forse sarebbe più carino se ci mettessi un punto interrogativo a testa in giù¿).

Miguel. Chissà che replica avrebbe da darmi.

Sto aspettando, in realtà. Perché gliel’ho chiesto, sì. Prima ho buttato le pantofole con i pompon. L’avevo promesso. Poi, ho sfruttato la mia bellissima e calda notte insonne per pensare. Pensare a un modo per fargli recapitare un messaggio. Non sono un’esperta di aeroplanini e la sua finestra è troppo in alto rispetto alla mia. Origami bocciato.

Non ci ho messo molto a slacciare questo punto interrogativo. Almeno questo. Ho preso un foglietto di carta, ho buttato giù due frasi, cercando di non esagerare con le domande, ho infilato le scarpe da ginnastica sotto al pigiama e sono scesa.

Non lo facevo da un po’. Una settimana almeno. Quando ho messo piede sull’asfalto della strada mi sono sentita come Neil Armstrong alle 02:56 UTC del 21 luglio 1969 (cito testualmente). Lui mise il piede sulla luna, io su una parvenza di normalità. Due cose estremamente diverse ma, se ci pensate bene, così terribilmente simili ora.

Ho attraversato quei venti metri che mi separavano dall’edificio di Miguel con un’emozione infantile, il foglietto strettissimo tra le mani. Mi sono fermata davanti alla casella dei citofoni, cercando il suo nome. No, non sono pazza, non volevo suonare il campanello a quell’ora della notte. Ero solo curiosa di scoprire il suo cognome. Il fatto è che ho trovato due possibili vincitori: M. Luna (coincidenze? Ma poi Luna non è un cognome italiano? Su Google compariva tra i cento cognomi più diffusi nei paesi latino-americani e ho pens…sì, ok basta) oppure M. Godoy – T. Barale.

Ora. O il mio misterioso Miguel è sposato o ha un strano cognome che mi parla tanto di destino. O nessuno dei due? Troppi punti interrogativi. Che però mi sono serviti per, in ordine: girare i tacchi, inciampare sulle scale (sapete, non si è più abituati a deambulare), correggere il destinatario da “per Miguel” a “per Miguel-il pianista dell’ultimo piano”, ritornare di sotto, posare di nuovo i piedi sulla luna e, finalmente, infilare il foglio sotto il portone blindato del suo palazzo.

Beh, ho fatto del mio meglio, non c’è bisogno di criticare. Un mese fa non mi sarei mai sognata di compiere un atto così cinematografico. Lo ha fatto anche la mia vicina, sapete? Mi ha passato un piccolo vassoio di biscotti al burro, dal suo al mio balcone. Certo, stando attenta a non farsi toccare le dita. Però è da apprezzare. L’unica cosa che mi passava, un mese fa, erano le bollette del condominio.

Magari anche lei ha imparato qualcosa da questa situazione. La gentilezza? La solidarietà?

Ma ecco che ricomincio con i punti interrogativi. Va bene, la pianto.

Spero che il mio messaggio per Miguel non vada perduto, non so… schiacciato sotto una scarpa, mangiato da un cane, buttato via come una comunicazione petulante della banca o semplicemente perduto e basta.

Non vi sembra romanticamente all’antica questa cosa? Io ho un debole per le cose romanticamente antiche. Anche le domande lo sono. I punti interrogativi. Gli origami. Le scarpe da ginnastica sotto al pigiama. Le passeggiate sulla luna, a perdita di tempo. Il mio nome.

Anche il mio nome lo è. Agata. Starebbe bene con Miguel, no? Un po’ da telenovelas messicana.

Hola, como estas? Se anche tu sei solo, vuoi farmi compagnia in questo isolamento? (Ancora punti interrogativi).

Gliel’ho chiesto. Nel mio foglietto, intendo. Quindi se vogliamo sapere cosa risponderà, preghiamo che non vada perso.

L’ultima volta che.

montagna madre mamma

L’ultima volta che ho visto mia madre è stato sabato 7 marzo. Sono scesa dalla macchina e le ho detto che forse sarebbe stato meglio se mi fossi fatta di nuovo i 322km che ci separano. Avevo appena sentito alla radio la prima bozza del decreto che avrebbe cambiato tutto.
Mi ha convinta a ripartire il giorno dopo.
Ci siamo abbracciate di nascosto, come in un romanzo distopico, e non so quando la rivedrò.

Ho 37 anni ma avevo bisogno di mia madre, più che mai.
La mia relazione si è conclusa dopo dieci bellissimi anni, due mesi fa, e lei con un semplice: passa di qui era riuscita in una magia.
Ce l’ho fatta a prendermi il suo abbraccio che, a conti fatti, vale più di tutto il resto.

Il destino, poi, che ha un gran senso dell’umorismo, ha messo in quarantena me e lui, sotto lo stesso tetto. Sotto lo stesso cielo.

L’ultima volta che ho visto mio padre è stato il 21 ottobre del 2019. Sono scesa dalla macchina, abbracciato mia madre, cercato risposte in mio fratello e attraversato la strada che mi divideva dalla sua foto e dal suo manifesto funebre.


Mio padre è morto a 69 anni, quasi sei mesi fa e, per la prima volta, in questi giorni mi sono trovata a pensare, con una forza sempre più violenta, che ne sono felice, perché per lui sarebbe stato devastante vivere questa nuova vita. Un’ulteriore nuova vita. La sua vita originale, quella dell’uomo indipendente, del padre meraviglioso, del compagno di una vita è finita in una notte del gennaio 2015, quando un ictus ha deciso di farlo uscire dal suo letto e non farlo tornare più a casa. Un inceppamento del sistema l’ha lasciato in carrozzella e gli ha regalato una nuova realtà in casa di riposo, e una nuova vita con un deficit dell’attenzione che negli anni è diventato quasi comico.


Mi manca.

In questi mesi, ho pianto in macchina, la sera, tornando dal lavoro. Da sola, come se quello potesse essere un angolo solo per me e lui.
Ma sono felice che non sia qui, perché il suo isolamento sarebbe stato più devastante del mio. Perché la sua vita era scandita dalle visite quotidiane di mia madre, da piccoli riti solo loro la cui assenza gli avrebbe tolto tutto. Anche la dignità.
Sono felice che non sia qui, che se ne sia andato prima che il mondo cambiasse e ci confinasse, come in uno dei tanti romanzi di Stephen King che amavamo leggere.

L’ultima volta che ho visto i miei genitori è stato qualche mese fa.
Uno so che non lo rivedrò. L’altro ha una camera degli ospiti pronta. Per lo meno nella mia testa.

Per fortuna al pensiero non hanno messo restrizioni.

Loris sta bene

Loris sta bene - Simone Bozzelli

…è Loris il protagonista del cortometraggio, un ragazzo che con semplicità – e sempre un poco di meraviglia – vede il mondo che lo circonda, senza rendersi conto di quanto sia artificiale, finto, idealizzato. E compie un gesto assurdo per riscattare un amore insoddisfatto, forse perché troppo pretende, o forse perché troppo poco riceve.

Simone Bozzelli
Loris sta bene - Simone Bozzelli

LORIS IS FINE (2017) di Simone Bozzelli

Una piccola famiglia, Loris e sua zia. Una piccola vita, sempre la stessa. Loris è un ventitreenne estremamente ingenuo, aspetta un uomo che non ha mai visto. L’uomo, conosciuto in chat, è un sieropositivo disposto a trasmettergli la propria malattia. Per Loris il virus è un alleato alla ricerca del desiderato rapporto simbiotico con Valerio, il suo fidanzato sieropositivo.

Loris sta bene sarà disponibile dal 1 al 3 maggio (fino alle 24:00) in streaming gratuito durante le giornate del Lovers Film Festival a Torino.

Rassegna cinematografica online sul sito e sui social. Il Lovers Film Festival lancia l’iniziativa Lovers on line #cimanteniamoinlinea che si svolgerà dal 30 aprile al 4 maggio, nei giorni originariamente destinati all’edizione 2020. Lovers on line #cimanteniamoinlinea è una rassegna cinematografica completamente gratuita pensata per continuare a restare in connessione con gli autori, il nostro pubblico e la comunità lgbtq+ in questo momento di emergenza sanitaria.

I link gratuiti e visionabili per l’intero periodo (dalle ore 11:00 di giovedì 30 aprile fino alla mezzanotte di lunedì 4 maggio) saranno comunicati sul sito del Lovers Film Festivale sulle pagine Facebook e Instagram.

L’iniziativa fa parte di www.torinocittadelcinema2020.it

In pochi minuti raccontare un mondo, che inizia e in qualche modo finisce, io la reputo un’arte.

Simone Bozzelli racconta una storia, dolcissima e amara insieme, con maestria. Come un artista a fine carriera e non agli esordi.

Il primo minuto e mezzo è un’inquadratura fissa sul primo piano del protagonista: Andrea Arcangeli. L’espressione è felice, da innamorato, una specie di beatitudine. Chi la conosce sa di cosa parlo.
Ma poi succede, è una frattura impercettibile. Un taglio interno nel montaggio. Che non ci si fa caso ma c’è. Il sorriso diventa un’espressione corrucciata. Tipica dell’amante che sa che la sua storia d’amore sta volgendo al termine.

Poi Bozzelli allarga il campo, il giovane protagonista è abbracciato a un altro ragazzo. (Scopriremo in seguito essere Valerio, il suo fidanzato). Di spalle, con una corona sul capo. L’oro che luccica in tutto quel blu. Come investire qualcuno di un ruolo regale, solo per noi stessi. Una specie di miracolo della mente, del cuore.

Insomma dopo questo minuto e mezzo di abbraccio dilatatissimo non posso non pensare a Edward II di Jarman. Quel blu, quell’oro. Quella magia.
Questo è cinema.

Loris sta bene - Simone Bozzelli

Il resto del piccolo film (non mi piace usare la parola cortometraggio per il cinema di Bozzelli, perché di cinema si tratta) vira su altri toni di vaga ispirazione francese. Tempi morti, intimità, e la assoluta bellezza e ingenuità del protagonista lasciata in bella vista, sempre in primo piano sempre presente. Una quotidianità così realistica da fare bruciare gli occhi. Un Raymond Carver visivo.

Indugia la camera sui punti neri schiacciati dalla zia, il pelo fra i denti, i tatuaggi dell’edicola, i bigodini, il suo culo. Gli istanti che non si ricordano mai di una giornata. Gli interstizi del nostro tempo personale. Eccoli, qui, tutti insieme a raccontare l’umanità di un ragazzo innamorato, pazzamente innamorato di un’assenza. Il suo Valerio, di fatto, non compare mai nel film. Se non nelle sue parole, di lui del protagonista. Nelle parole della zia. Dell’uomo sieropositivo conosciuto in chat. Gli altri tutti menzionano un amore un personaggio, che non si vede. Se non di spalle, all’inizio. Ammantato di una luce come una grazia. Tipo quando metti su un’altarino qualcuno.
Io lo definirei un film sull’assenza, più che sulla ricerca della sieropositività.

Non ci sono virtuosismi di movimenti di macchina. Tutto è lasciato alla realtà.

Ed è questa realtà che continua anche dopo l’ultima inquadratura. Una realtà, che c’era prima dei titoli di testa, che esisterà dopo i titoli di coda.

Loris sta bene - Simone Bozzelli

Interpreti Andrea Arcangeli, Manuela del Beato e Milutin Dapcevic
Regia Simone Bozzelli
Produzione Mattia de Marco, Guido Bozzelli e Simone Bozzelli – Produzione Roseville Film
Produzione esecutiva Mattia de Marco
Sceneggiatura Simone Bozzelli e Luca de March
Fotografia Ariel Salati
Scenografia Simone Bozzelli, Ilaria Pascazio e Sara Scordo
Costumi Simone Bozzelli, Ilaria Pascazio e Giorgia Valentini
Montaggio Simone Bozzelli
Musica Marco Monti


Titolo internazionale Loris’ fine
Titolo originale Loris sta bene
Nazionalità Italia
Lingua Italiano con sott. inglese
Durata 20 minuti
Formato HD – 1.85 Colore
Genere: Drammatico, LGTB

Strawman and The Jackdaws: dov’è il mio folk adesso?

Sono passati più o meno cinque anni da quando vidi Londra per la prima volta. Ricordo il treno in sosta sul ponte collegato a Victoria Station, il Tamigi, come dipinto, in cui si specchiava il grigiore di una città che grigia non è. Ricordo il godimento di quell’attimo, amplificato dalla colonna sonora cristallizzatasi in esso e in quella porzione felice della mia gioventù: Mike Rosenberg, in arte Passenger, questo il nome di chi ha accompagnato lo spiraglio di luce nel buio medievale della mia adolescenza.

Ne è passato di tempo da quando ho smesso di premere play ed ho lasciato scorrere come un fiume in piena le note folk, quelle che mi hanno insegnato la leggerezza del vivere. Sono sempre stata aggrappata alle canzoni dei Lumineers, Of Monsters and Men, Foster the People e molti altri, che come loro rispondevano le mie vibrazioni energiche, positive, da combattente felice. Poi svanirono, si affievolirono per lasciare posto a sonorità più cupe e introverse, anche se pur sempre sognanti. Mi sono domandata: “Dov’è il mio folk adesso?”.

La risposta è arrivata solo l’estate passata, a non troppi chilometri di distanza da Londra, nemmeno troppo lontano da casa. La risposta è arrivata da Grafton Street, la strada più affollata di Dublino. Era una domenica soleggiata di luglio, la prima di molte altre a venire. Il mio folk era lì, nello spirito di due busker. Il mio folk era lì, ma era anche dentro di me. Non se n’era mai andato! Pareva un déjà vu, il primo di molti altri a venire lì in Irlanda.

Quei due ragazzi erano molto più che semplici busker. Uno si fa chiamare Strawman e con la sua chitarra, la sua armonica e le sue canzoni nel 2017 ha dato vita, proprio a Dublino, alla sua band: Strawman and The Jackdaws. Strawman, ossia Riccardo, dopo aver passato un paio d’anni in giro per l’Europa a rallegrare con la sua musica strada per strada, ha fatto di Dublino la sua terra d’approdo, dove ha incontrato Michael, il batterista e percussionista che lo affianca col suo cajon nelle strade della città, e Jacopo, il chitarrista, quello dalla vena più rock e punk del gruppo. Nel tempo si sono poi aggiunti gli irlandesi Niall, al basso, e Rory, al sassofono e ai synth.

Foto di Stefano Canavese

Non c’è un unico modo per descrivere la band italo-irlandese. Sono sperimentali eppure folk nella maniera più assoluta e semplicistica. Sono un po’ pop, un po’ indie per il loro modo di saper coinvolgere, soprattutto durante le loro gig. Passano da riff distorti e pesanti ma sognanti a pulsazioni elettriche gioiose e giocose. L’ecletticità delle ispirazioni che ognuno dei ragazzi apporta al gruppo è la costante in tutti i loro brani, insieme alle metafore e agli immaginari profondi nascosti dietro a brani narrativi e cantautorali.

“Butterflies have fluttered
Even if I tried to get their height
Floods and droughts they dry my mouth
Stuck in limbo give me a shout!”

Precious Star è il primo singolo pubblicato dalla band. È un brano che ha ricevuto un buon riscontro sia nel piccolo dell’Irlanda che nel grande della realtà internazionale. Se mi chiedessero di spiegarne la bellezza direi che è come il profumo dei gelsomini nell’aria serale primaverile: in un limbo tra sogno e realtà. Alla conciliazione degli opposti il caos ordinato strumentale dialoga con la quiete della voce e dei cori. Stare fermi al ritmo di un brano così è impossibile, e lo possono confermare tutti quelli che l’hanno sentito live, a Dublino, Milano, Limerick, Monaghan, Torino, Cork, Belfast, Belluno o Galway che sia.

Dov’è, dunque, il mio folk adesso? È nei punti caldi delle canzoni degli Strawman and The Jackdaws, è nel ritmo di Swallow, nell’evocazione dei ricordi di estati calde giunte al termine, nell’intersezione tra le sfumature vibranti delle foglie che cadono e il vento che inizia a levarsi freddo e pungente. Il mio folk è nelle parole di Strawman, nella semplicità di immagini e storie che sorreggono il peso di esperienze di vita. Il mondo è una rondine che inghiottisce la vita di ognuno di noi, dice Swallow. Ma se questa fosse una sfida, un gioco in un labirinto invece che una sconfitta in partenza? Il mio folk è, ed è sempre stato, un inno alla messa in gioco. È bello ritrovarsi e riscoprirsi.

il corpo sottovuoto

il corpo sottovuoto - Simona Salerno

Quando si raggiunge l’eccesso, le cose da fare potrebbero essere due: continuare a stare fino a scoppiare o fermarsi, pensare, respirare.

“Eh finalmente il mondo si è fermato”, ho pensato una cinquantina di giorni fa. 

Il tempo è sospeso, corre o diventa interminabile, lo spazio è una culla piena di limiti, inspirare ed espirare, sentirsi, ascoltarsi, stare nel qui e ora e ancora respirare.

Il corpo sembra essere tenuto sottovuoto.

In certi momenti immagino di infilarmi in un sacco di plastica, respirarci dentro in quello spazio senza tempo e in quel tempo senza spazio, tra emozioni e umori bombardanti, alternati, contrapposti: la paura, l’attesa, la fragilità, la noia, i ricordi, la speranza, l’incorporeità, la distanza, l’apatia, l’energia, l’isolamento, la tristezza, la sfiducia, l’euforia, l’assenza, l’insicurezza, il vuoto, la lontananza, la speranza, la speranza, la speranza…

parole e foto di Simona Salerno

Le finestre di fronte

le finestre di fronte - la sposa si carta

Ieri sono scesa in cortile. Non l’avevo mai considerato, quel quadrato di cemento dove sono parcheggiate biciclette e monopattini. Mi sono seduta a fumare al sole, ho guardato verso i balconi, verso le finestre di fronte. Sei piani.

In ognuno c’era qualcosa. Scene di vita domestica. Pezzi di giornate da far scorrere. Un’anziana con il grembiule a fiori mescolava una grossa ciotola, lo sguardo rivolto ai fiori.

Al terzo due ragazzi a petto nudo iniziavano i loro esercizi, lo sguardo concentrato ad uno specchio. Nella scala b una giungla di piante copre la visuale, ma si intravede un piccolo tavolo con due sedie pieghevoli, ho immaginato la cena servita lì, guardando verso un orizzonte di persone vive, pulsanti e impaurite quanto noi.

Al primo una madre prende il sole, mentre la figlia impugna un colore e traccia segni su un pezzo di carta. Si sente profumo di cibo, rumori di tavole apparecchiate e scroscio di docce.

Al sesto una donna bionda guarda giù, verso gli altri palazzi nascosti dal verde. Sembra assorta. Il nonno al secondo mi saluta con la mano. “Niente di grave” mi urla scuotendo la testa. Io immagino altre calamità vissute da lui e mi tranquillizzo all’istante. In centro a Milano è così raro avere degli alberi davanti al balcone. Spengo la sigaretta sul muretto, mi metto il mozzicone in tasca. Non sono sola, su ogni ballatoio e davanti ad ogni portafinestra scorre una vita. Sento cantare. Sento litigare.

Se superiamo tutto questo, non saranno più estranei questi miei vicini di casa. Butto il mozzicone nel cestino e risalgo. 

Non ho domande. Ma solo l’assurda presunzione che possa finire presto. Però mi auguro che tutti facciano come me, vivano i balconi e i ballatoi. Ma stiano qui. In casa. 

Ti immagino spaventato e incredulo. Ma solo per un attimo. Poi sono certa che avrai i tuoi balconi da osservare. Le tue finestre da spiare. Le tue vite accanto da accarezzare.

La luce accesa anche di notte. Per le finestre di fronte. Per chi è solo e troverà conforto nella lampadina che pulsa nel buio. 

testo di La Sposa di Carta

Un istante

un istante Arturo Ferrante

Guardo attraverso il vetro della mia finestra, quella della camera che affaccia sulla strada. La quarantena è strana: non mi è mai piaciuto uscire, eppure adesso che sono costretto a non farlo, mi manca.
La mente umana è troppo contorta, per i miei gusti.

Ho letto da qualche parte che sembra essere sempre un’uggiosa domenica di fine inverno. Uno di quei giorni che speri passi in fretta, in cui cerchi di risparmiare le energie, perché questa giornata così insapore non merita nemmeno un accenno della mia vitalità. Non saprei trovare un paragone migliore.

Faccio un sospiro. Me ne sono accorto, perché da quando mia madre mi ha chiesto “come mai sospiri sempre?”, ho deciso di contarli.
Oggi ne ho fatti quattordici. Che giorno è? Sabato non di sicuro, altrimenti mamma starebbe impastando la pizza.

Sono piuttosto indeciso tra mercoledì e giovedì, per cui decido di andare ad accendere la radio: è uno di quei modelli nuovi, ultra attrezzato, ultramegatutto. L’avrò usata due volte, in vita mia. Me l’ha regalata Lei, perché diceva che in questa casa “c’è poca musica”. Mi sembra di sentire un motivo conosciuto, cerco il telecomando per alzare il volume.

How can you just walk away from me, when all I can do is watch you leave?

Oh no. Proprio questa.

Cause we’ve shared the laughter and the pain, and even shared the tears

Animato da una volontà sconosciuta, come se il mio corpo fosse un semplice burattino, mi dirigo verso il cassetto del comò. Tiro fuori un vecchio quaderno, accarezzando la copertina blu. Apro e so già a quale pagina andare. È più o meno in mezzo, e c’è una foto. Una foto di noi due. È stata scattata con una di quelle macchine istantanee, Lei impazziva letteralmente per questo tipo di cose.

Nella foto siamo abbracciati e ridiamo.

Siamo andati fino ad Erba per prenderla. Il proprietario era il proprietario di un tabacchino, e sembrava non capirci un accidente, perché iniziò a pigiare tutti i tasti in malomodo.

“Mi dia qua” gli disse lei, più che leggermente infastidita. Quando si arrabbiava potevi leggerglielo negli occhi. Diventavano di fuoco.

So take a look at me now, well there’s just an empty space

“Facciamoci una foto”. Era così contenta di avere il suo nuovo regalo tra le mani, lo teneva come una reliquia.

And there’s nothing left here to remind me, just the memory of your face…

… E questa foto. La ripongo nel quaderno e ritorno di fronte alla finestra. Un altro – lunghissimo – istante è passato.

di Arturo Ferrante