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Il libro dell’inquietudine di Pessoa

Pessoa

“Quando un pensiero ti domina lo ritrovi espresso dappertutto, lo annusi perfino nel vento”

Avevo scritto questa frase sulla mia Smemoranda, ai tempi del liceo, come si usava fare con le belle citazioni. Adolescenti presi dagli amori non corrisposti, dalle baruffe con gli amici, dai rapporti in fieri con i genitori. Ognuno convinto di avere il futuro in ginocchio davanti a infinite possibilità, egotismo ingenuo allo stato puro. Tutto ruotava intorno a noi, o così credevamo. Chiusi nelle nostre camerette e tutto il mondo fuori. E quei pensieri fissi che non davano pace.

Così, anche se leggo, mi sembra di ritrovare tracce virulente tra le righe. Ma non solo, ché l’adolescenza è finita da un pezzo e ho accumulato altro, vivendo.

Non posso scrivere una recensione: Il Libro dell’Inquietudine di Fernando Pessoa diventa un diario, diventa il mio specchio e mi scava dentro.

Sarà per questo che mi è tornata in mente la citazione di Thomas Mann, chiusa come sono nel mio appartamento e tutto il mondo – devastato –  fuori. E pochi pensieri che fiuto ovunque, perfino nel vento triste che fa fatica ad entrare dalle finestre.

Ecco perché dirò soltanto la mia, dal mio punto di vista, limitato da queste quattro mura e lo farò con sentimento.

Altrove, senza dubbio, esistono i tramonti. Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’Infinito.

È un caso che mi sia trovata tra le mani il romanzo-non romanzo di Pessoa proprio in questo momento indescrivibile di vita reclusa. Per la verità, avevo intrapreso la lettura in tempi non sospetti, o poco sospetti, per poi concedermi una pausa, perché non è un testo semplice, anzi è veramente impegnativo (valga come invito, però, perché se ce l’ho fatta io…)

Ecco, nel caso decideste di attraversare adesso le pagine frammentate di Pessoa non verreste assolutamente catturati da questo Infinito guardato/pensato da una finestra? Io abito perfino al quarto piano…

E così subentra l’Identificazione. Apriamo questo capitolo, che è poi la ragione per cui mi trovo qui, davanti alla quinta parete di casa mia, lo schermo del computer.

Vi sarà capitato di leggere qualcosa e di pensare “Cavolo – ognuno scelga l’esclamazione che gli è più congeniale – ma avrei potuto scriverlo io!”; certo, se tutti fossimo capaci di dare forma al caos vorticoso delle nostre teste. E va bene, ammesso che io fossi stata in grado di scrivere una grande opera, avrei scelto proprio questo modo e queste stesse parole: frammenti.

Frammenti, i suoi, da ripercorrere più e più volte per assicurarmi di aver compreso o, perlomeno, di essermi avvicinata al senso.

E si ha l’impressione che quell’Infinito Pessoa, o il suo eteronimo Bernardo Soaeres, ce lo abbia dentro.

Che cosa c’è da confessare che valga la pena o che sia utile? Quello che è successo a noi, o è successo a tutti o esclusivamente a noi; nel primo caso non è una novità e nel secondo caso non è una cosa che si possa capire. Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre del sentire. Quello che confesso non ha importanza perché niente ha importanza. 

Con ciò che sento costruisco dei paesaggi. Fabbrico delle vacanze con le sensazioni. Mi è facile capire le ricamatrici che ricamano per pena e coloro che fanno la calza perché esiste la vita. La mia vecchia zia faceva dei solitari durante l’infinito delle sere di veglia. Queste confessioni del sentire sono i miei solitari. Non li interpreto come chi interroga le carte per conoscere il destino. Non le scruto perché nei solitari le carte non hanno un valore preciso. Mi srotolo come una matassa multicolore oppure invento con me stesso delle figure di spago come quelle che fra bambini si tessono con le dita aperte e si passano da un bambino all’altro. L’unica cosa che mi sta a cuore è che il pollice non sbagli il laccio che gli spetta. Poi giro la mano, l’immagine cambia ed io ricomincio.

È tutto un sentire in solitaria.

Non ci si aspetti che in questo romanzo accada qualcosa, perché, a parte il sapere che il protagonista sia un contabile, di concreto c’è ben poco.

Sì, certo, c’è Lisbona e c’è Rua dos Douradores, dove ha sede l’ufficio in cui il protagonista lavora:

Penso a volte che non uscirò mai da questa Rua dos Douradores. E se lo scrivo, mi sembra l’eternità

Ma potrebbero essere una città qualsiasi e una strada qualsiasi, ovunque, perché il paesaggio intorno diventa paesaggio interiore, e viceversa.

Così, la Baixa diventa il mio quartiere, nella mia città. Dentro di me.

Ed io esco. Uscivo, prima di ogni decreto, prima che il mondo fosse avvelenato – già mi sembra un’eternità.

Ho passeggiato tante volte lungo le strade gremite di gente, solo per camminare, solo per osservare gli altri. Come se essere circondata dal resto dell’umanità mi offrisse l’occasione per  allontanarmene. Come se facendo indigestione della vita altrui potessi ritornare alla mia. Cercare il mio posto nel fluire del mondo, tirandomene fuori.

Però Soares è un nichilista e, qualsiasi cosa voglia dire, io non lo sono.

Pessoa, autore schizofrenico che cede la penna a diversi eteronimi, dice del protagonista del Libro che in realtà è “una mutilazione della mia personalità: sono io senza il raziocinio e l’affettività”. Prendiamo le distanze dal nichilista assoluto.

Il contabile inquieto non ha amici, non ha amanti, non ha famiglia e non ne sente il bisogno. È completamente e inevitabilmente solo con se stesso e i suoi sogni. Con se stesso e le sue riflessioni, con se stesso e le sue visioni, con se stesso e una stanchezza di tutto. Il mondo di Bernardo è tutto interiore eppure terribilmente esteriore. Guarda di continuo fuori dalla finestra del suo ufficio o da quella della sua camera d’albergo, ove trascorre notti insonni. Cercando il sogno, in cui tutto è possibile.  O aspettando l’alba che lo liberi dall’abisso di se stesso.

Io non ho il buio nell’anima ed ho amici, amori, una famiglia (ok, ora siamo tutti un po’ più soli e guardiamo parecchio dalla finestra).

Eppure se guardo bene dentro di me scorgo zone d’ombra. E chi, del resto, non ha angoli nascosti nel profondo, in cui la luce stenta ad arrivare? Se quindi la sovrapposizione del mio Io non può essere totale a quella del Narratore che si confessa, tra le sue parole sparse ne raccolgo molte e quelle trovano corrispondenza perfetta con i miei segreti inviolabili e imperscrutabili.

I suoi occhi diventano i miei, nello sguardo asettico e partecipe – gli ossimori sono naturali nel caos lucido dell’Inquietudine.

Il silenzio che scaturisce dal rumore della pioggia si diffonde in un crescendo di grigia monotonia lungo la strada stretta che io fisso. […] E non so quello che sento, non so quello che voglio sentire, non so quello che penso né quello che sono.

Chi può dire se leggere Pessoa in altri momenti della mia vita mi avrebbe fatto un effetto diverso. Oggi di sicuro non sono quella di ieri e non sono quella di domani – ovviamente, anche questo si troverà scritto per mano di Soares. I libri ci vengono incontro quando ne abbiamo bisogno. Non per salvarci, ché io non ci ho mai creduto alla storia che “la Bellezza salverà il mondo”: provateci a barattare le Lacrime con la Bellezza, è proprio tutta un’altra faccenda.

Di sicuro c’è un momento giusto per gli incontri e questo per me era il momento di Pessoa. Ho lasciato scivolare l’inquietudine di un altro sui miei paesaggi interiori. Come nebbia, come pioggia, come vento. C’è così tanto, forse tutto – di sicuro troppo – in questi frammenti, che non sono riuscita ad averne una visione di insieme. Le lunghe ore interminabili di questo che, ormai, tutti chiamiamo Tempo Sospeso hanno fatto a pezzi la nostra anima, che credevamo immensa e indistruttibile, come fossimo ancora adolescenti non cresciuti abbastanza.

Se ne esce un po’ spossati da questo viaggio, lo ammetto, ma cavolo – di nuovo a ognuno la sua esclamazione – se ne vale la pena!

In questo momento ho così tanti pensieri fondamentali, tante cose veramente metafisiche da dire, che mi stanco all’improvviso e decido di non scrivere più, di non pensare più, e di lasciare che la febbre di dire mi dia sonno, e io accarezzi, come si accarezza un gatto, tutto quanto potrei aver detto.

di Simona Visciglia

Paesaggi (dal finestrino) dal mattino del mondo

Paesaggi (dal finestrino) dal mattino del mondo

La mia quarantena è iniziata durante un viaggio in macchina dal Colorado al Texas, attraverso i paesaggi deserti del New Mexico, dove tutto scompare. Da quel momento, mentre la radio era un richiamo alla civiltà e al social distancing e ogni piano sarebbe cambiato, non sapevo che il vero viaggio doveva ancora iniziare, e più di duemila chilometri dopo sarebbe finito all’aeroporto JFK di New York.

“L’ologramma è simile al fantasma, è un sogno tridimensionale,

e si può entrarvi come in un sogno. Tutto dipende dall’esistenza del

raggio luminoso che porta le cose; se viene interrotto, tutti gli effetti

si disperdono, e anche la realtà. Ora, si ha proprio l’impressione

che l’America sia fatta di una commutazione fantastica di elementi

simili, e che tutto dipenda unicamente da quel raggio di luce, quel

fascio laser che fruga sotto i nostri occhi la realtà americana. 

Lo spettrale, qui, non è il fantomatico o la danza degli spettri, è lo

spettro di dispersione della luce.”

― Jean Baudrillard, America

Paesaggi (dal finestrino) dal mattino del mondo, di Giulia Zazzi

Dark Tears – Claudia Jares e l’erotismo segreto

“When I lend my eyes, they see the hidden dimension behind our perched lives. I draw the curtains and I can see the corners of human vulnerability, I lose myself in the alleys without people, I show how the most tender beauty becomes prey to the predators of the unconscious. I steal the sheets from lovers in love who at night desperately walk the cold double beds, I give back to the passion lady his command and throne, I capture the immoral characters who inhabit our person … little red riding hood with the wolf and the hunchback born in winter.” 

Claudia Jares è una fotografa e performer argentina. Cresciuta circondata dall’arte, scopre la magia della camera (oscura) e la complessa bellezza del mondo, che vive con uno sguardo nuovo. Consapevole e pieno di emozione. 

Nella sua ricerca, la fotografia non è solo magia ma anche strumento di guarigione, di catarsi, di scoperta.

Scoperta che porta al fulcro pulsante di tematiche quali l’amore, il sesso, la diversità, l’omosessualità, il movimento lgbt, che caratterizzano fortemente il suo stile e confluiscono nel libro Dark Tears con una particolare sensibilità.

Leggera, soffusa, mai urlata.
Il suo sguardo scosta il velo della superficie, lambisce  fragili vulnerabilità e scova negli angoli nascosti l’essenza dei suoi soggetti. 

 Stavo cercando di tirare fuori (dai miei soggetti) la parte artistica di ognuno di loro, ed è stato un successo totale perché l’arte è la medicina per un sacco di traumi. 

L’intento di Claudia è quello di fare arte non per se stessa ma per unire empaticamente ogni persona, ogni voce, in modo che, specchiandosi nel suo modo di vedere il mondo e la gente, ognuno di noi possa capire di non essere solo

Un approccio intimo, un viaggio in divenire che dà e prende. Uno scambio tra chi fotografa e chi viene fotografato, per mostrare la bellezza nascosta di ogni dettaglio. 

(adattamento testo di Andrea Bastian e Deborah D’Addetta)

Claudia Jares su Instagram
Dark Tears Book

Tiger King e la fiera della vanità

La parola “ferino”, secondo il dizionario della lingua italiana, si riferisce a ciò che esprime “un’indole e dei comportamenti difficili o impossibili da addomesticare, talvolta incontrollabili e un aspetto selvatico e animalesco, non privo in taluni casi di una bellezza e fierezza spontanee, inconsapevoli, tali da incutere un rispetto frammisto a timore o a terrore vero e proprio”. E queste sono anche le caratteristiche perturbanti dei personaggi della recente serie Tiger King, in onda su Netflix e diretta da Eric Goode e Rebecca Chaiklin, vista da oltre 34 milioni di spettatori nei primi dieci giorni di programmazione. 

Alimentando la passione per gli animali esotici, il protagonista Joseph Schreibvogel ridisegna la proprio immagine diventando Joe Exotic, pittoresco quanto dispotico sovrano del Greater Wynnewood Exotic Animal Park Zoo in Oklahoma che, oltre a coccodrilli e scimpanzé, vanta la presenza di ben 227 tigri, regine incontrastate del parco. 

Lo zoo sembra essere un circuito di gabbie e prigionia più che un’oasi di benessere per gli animali. Joe gira costantemente con la pistola nella fondina legata ai pantaloni, sfoggiando sbarluccicanti giacche leopardate di svariati colori, un’improbabile mullet biondo tinto sotto il cappellino e baffetti da star. Poligamo e sposato con due mariti di trent’anni più giovani, recluta ex galeotti o improbabili soggetti borderline per tenerli alle sue dipendenze nel giardino zoologico, dove i visitatori spendono dai trecento ai seicento dollari per poter accarezzare le belve feroci e posare per una foto accanto a un tigrotto di poche settimane. 

Ogni giorno, da uno studio di registrazione della JoeExoticTv, il “Tiger King” trasmette le puntate del suo one-man show, bizzarro spettacolo in cui è impegnato nelle situazioni più eccentriche e di cattivo gusto, che molto spesso sfociano in vere e proprie invettive contro le associazioni animaliste. E proprio perché ogni trovata commerciale che possa accrescere il mito del personaggio è degna di essere intrapresa, Joe si lancia anche nella pseudo carriera di cantante country, pubblicando due album in cui qualcuno canta al suo posto, mentre lui presta ai videoclip la propria sagoma con la chitarra in mano. Il ritornello di una delle sue hit recita “i saw a tiger and the tiger saw a man”, viene da chiedersi chi tra i due abbia avuto più paura in quel momento.

Sono stati necessari cinque anni di riprese per dare forma a quello che a tratti sembra essere un documentario quasi recitato, talmente sono inverosimili gli accadimenti e le situazioni. Il diffuso utilizzo dello slow motion in diverse inquadrature studiate accentua il senso di finzione e messa in scena, come quando Joe viene ripreso mentre cammina verso la telecamera nei vialetti del parco,  o nei frames in cui cuccioli di tigre vengono chiusi dentro a trolley da viaggio per poter essere introdotti di nascosto in alcuni alberghi di Las Vegas.

A riportarci a un senso di “realtà” mutuato dalla cronaca, ci pensano gli inserimenti di servizi giornalistici riguardanti gli altri protagonisti della serie (ad esempio quando Saff perde un braccio, aggredito da un felino) e le registrazioni delle telefonate dal carcere di Joe, coinvolto nell’organizzazione dell’omicidio di Carole Baskin, sua acerrima nemica. Si tratta di un continuo contrappunto tra lo stile documentaristico del racconto dei fatti e una retorica che tende ad accentuare la dimensione mitologica dei protagonisti, nel tentativo di dare risalto quell’aura che li possa elevare al rango di “personaggi”. E ognuno dei contendenti principali, nessuno escluso, è un soggetto ferino, “selvaggio ma anche feroce, perfino crudele”, per tornare alla definizione del dizionario.

La già citata Baskin, che si oppone con lucida pacatezza ai metodi di allevamento di Joe, è al contempo sospettata di omicidio e occultamento di cadavere del suo primo marito, forse scomparso tra le fauci dei leoni. Incontriamo poi Doc Antle, fondatore di una associazione per specie in via di estinzione che arricchisce il suo parco con la presenza di belle ragazze, vestite da tigri e utilizzate all’occorrenza come amanti o lavoratrici volontarie, e Jeff Lowe, sedicente milionario playboy che aiuterà a rimettere in pista Joe dopo un crack finanziario, per poi incastrarlo nel caso del tentato omicidio ai danni della Baskin, in una scalata al possesso dello zoo-giardino.

Si tratta di eroi che animano la saga grazie alla loro eccentricità, in un contesto in cui la vicenda in sé assomiglia tanto a un litigio da condominio che ben presto assume le caratteristiche di una faida, corroborata da un crescendo di paranoia e follia nell’eroe centrale.

Il limite di “Tiger King” forse sta proprio nella parabola narrativa in sé, che a un certo punto si trasforma in una spietata querelle giudiziaria tra le parti, nella quale Joe viene prevedibilmente annichilito, ridimensionato alle fattezze di una belva sgangherata, poco lucida e infine sconfitta da avversari ben più solidi e strutturati di lui. Dopo i sette episodi che dispiegano la storia, è stato messo in onda da Netflix un ulteriore after-show in cui l’attore Joel McHale, nel pieno dell’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus, raccoglie interviste via webcam ad alcuni protagonisti del format dopo la sua uscita televisiva. Se questo contributo risulta interessante per la sua forma obbligatoriamente asciutta e scevra da linguaggi cinematografici, l’esperimento si traduce presto nel vilipendio collettivo, salvo poche eccezioni, del protagonista assente, ormai vinto e scomparso dalla scena, espropriato ed incarcerato.

In un contesto in cui il senso di sopraffazione dell’altro sembra essere il motore del racconto, a tratti ci sembra di essere immersi in una maratona di puntate di “Forum”, dove l’ipotetico scontro frontale all’ultimo sangue, anziché avere luogo in un’arena circense, è sublimato negli spazi spettacolari delle aule di un tribunale mediatico. 

L’enorme successo di pubblico sottolinea quanto sia affascinante ed efficace il tema dell’“uomo-fiera”, già presente in numerose produzioni cinematografiche e televisive di diverse epoche. Vengono alla mente, per citare alcuni esempi, Manimal, telefilm americano dei primi anni ’80, Grizzly Man, documentario di successo del regista tedesco Werner Herzog, o addirittura L’Uomo Tigre, popolarissimo anime giapponese di ormai mezzo secolo fa, in cui il campione di lotta libera nascondeva la propria identità sotto la maschera dell’animale selvaggio. 

Molte star americane, sull’onda della popolarità di “Tiger King”, hanno cominciato a postare nei propri canali social scatti in cui appaiono travestiti da protagonisti della serie. L’ha fatto Sylvester Stallone con tutta la famiglia, seguito da Jared Leto e Paris Hilton, tra gli altri. Che avesse ragione il refrain (non) cantato da Joe Exotic? “Ho visto una tigre, e la tigre ha visto un uomo”. 

Ghosting

Ghosting

Avevo un’amica. Che mi ha lasciato a piedi. Così da un giorno all’altro, sparita. E no, non è morta. È viva e sta bene. Avere a che fare con il Ghosting nell’età del proprio tramonto fa quasi sorridere. Non essendo quelli della mia generazione nati nell’era digitale.

Fa ridere, giuro. Vedere gli adulti alle prese con una pantomima (dei poveri) circa i loro figli.

Ah, per chi non lo sapesse, il ghosting è l’equivalente del nostro sparire silenziosamente all’alba senza lasciare il numero di telefono al tizio/a con cui eravamo finiti a letto. Scherzo. Non è così, cioè non solo così. 

Ha un senso più ampio, ghosting è diventare un fantasma nella vita degli altri. Sparire. Non rispondere più. Diventare invisibile. Morire tipo agli altri. 

Certo, a parole è come una passeggiata. A parole, quasi tutto lo è. 

Ma provateci voi a restare improvvisamente monchi di un amico di un’amica così, senza che vi venga portato via dalla morte. Non sto scherzando. Perché restare senza qualcuno a cui hai voluto bene fa schifissimo, no? Cioè ti viene a mancare un pezzo di te. 

E però sai mi è successo con un amico che è morto, una decina di anni fa. Avevamo avuto una storia eravamo stati colleghi eravamo stati amici, soprattutto. Poi, insomma sai come vanno queste cose, la vita il lavoro i figli. Ci sentivamo, quello sì, sempre. Gli amici anche a 500 km di distanza, dopo tutto quello che c’è stato, continuano a sentirsi. Gli amici.

Un bel giorno non mi risponde a un sms di auguri di compleanno, lui del segno della vergine. Non mi risponde al telefono. Non mi risponde alle mail. Sparisce. Per mesi, sparisce.

Chiamo un amico comune. E niente, una coltellata. «È morto», mi dice. «Scusami avrei voluto dirtelo prima, ma non ci sono riuscito». 

Così, come un bias cognitivo, rielaboro quello che mi è successo con ciò che mi sta capitando adesso con questa mia amica, che mi ha lasciato a piedi dicevo.

Sono passati sette mesi dall’ultima telefonata con la Guia (nome di fantasia), una delle migliori amiche che abbia mai avuto. Alla quale ho permesso di passare al di qua del fossato dei coccodrilli che ho tirato su negli anni. Chi mi conosce lo sa. Cosa significa. Avere un lasciapassare, dico.

Eppure. Qualcosa deve essermi sfuggito. A me, cazzo, che ho la pretesa arrogante di capirle, le persone. Di intuire ben prima di capire. Non so, l’ho sempre fatto, e raramente ho commesso errori di valutazione. Lei però si aggiunge alla mia lista di errori. Mi abbassa la media.

Una cosa per me, imperdonabile. Da maestrina, quale mi dicono di essere.

Essere battuta sul mio terreno migliore. Il Roland Garros delle partite a scacchi. 

Hai presente, no? Quando sei ben trincerato e no, non permetti quasi a nessuno di oltrepassare la linea gialla, ripetono persino gli altoparlanti in stazione.

Ecco, io sono quel tipo di persona. Che ascolta. Che c’è. C’è, tipo, quasi sempre. Quel genere di persona. Che azzera il proprio grado di coinvolgimento personale eppure resta empaticamente presente. Questo sono, e lo so.

Il senso di controllo e di guardia è sempre altissimo per quelli come noi.

Sono sempre così presuntuosa nel pensare di capire ogni cosa che poi ogni cosa mi sfugge.

Insomma, dicevo, avevo un’amica. Che mi ha lasciato a piedi.

Che da giugno si è defilata. Non ha più risposto alle mie telefonate ai miei messaggi alle mie mail.

Quindi io, logicamente, rielaboro le mie informazioni personali e penso al peggio.

Cazzo è morta. Altrimenti perché non dovrebbe rispondermi più?

Lo so che pensate che tutti noi dobbiamo e possiamo essere liberi di separarci, di non farci trovare, di non essere onnipresenti. Lo so, si chiama libertà.

E ci mancherebbe, liberissimi tutti di essere liberi. Di mandarsi

a fanculo

e di sparire.

(E di leggere e non rispondere e di bloccare e di andare a cagare).

Nonostante, con un grande sforzo, io accetti che a volte le cose accadano e basta indipendentemente da me, provo lo stesso a tornare sui miei passi, indietro nel tempo. Per capire qualcosa.

Ma sai che c’è?

Che andando indietro ritrovo me, me soltanto. Forse ho disatteso senza volerlo le sue proiezioni. Forse sono venuta meno alle sue aspettative.

Tutti si aspettano sempre qualcosa da me, che io non posso dare.

Forse non ne aveva più voglia di essere mia amica, e basta. 

Insomma andando a ritroso ritrovo me stessa.

Della mia amica non c’è traccia.

Come se il suo sparire avesse cancellato tutto ciò che di bello avevo di lei. Succede anche questo. Quando ti incazzi succede. Mi sono incazzata anche quando sono morte le persone che ho amato. Ti incazzi, non puoi farne a meno. Ti incazzi lo stesso, anche se è irrazionale. 

Perché succede.

E succede e basta.

Che ci si perde. Di vista.

Negli anni ’90 succedeva tipo sempre. E no, non si chiamava ghosting. Era solo che i numeri di telefono non erano personali e le persone lasciavano le loro case. Traslocavano. E diventavano fantasmi.

Tutti noi siamo stati o siamo fantasmi nelle vite degli altri. In qualche modo.

Chi subisce ghosting non ha niente da recriminarsi. Anzi.

Non sentitevi in colpa per colpe che non avete commesso; non andate alla ricerca dei vostri comportamenti sbagliati, perché 99 su 100 non ce ne saranno; oppure non cercate spasmodicamente nei messaggi nelle mail delle parole che vi sono sfuggite, di cui avreste dovuto o voluto accorgervene e non l’avete fatto.  

Vi siete fidati. Siete stati voi stessi. 

Mi hanno detto, mentre ieri ne parlavo con amici più esperti di me, che il vento gira. Che le persone si stancano, cambiano e vanno via. 

Per me, muoiono. 

Ma non fatevene un cruccio. 

Chi sparisce senza dire addio, nonostante tutte le migliori intenzioni del mondo, è un codardo. Non esiste parola migliore. 

Per chi fa ghosting. Per loro, intendo per i fantasmi, mi restano invece solo parole che si dedicano ai morti. 

Guia, che la terra ti sia lieve. 

Ti ho voluto bene come un’amica speciale. E vederti morire senza poterti salutare mi ha ferito un casino.

Perché questo succede. Si muore.

E quando si muore non si torna indietro, sai no, tornare indietro non si può.

Fantasmi

Fantasmi

In fondo, siamo tutti un po’ fantasmi. Fantasmi spaventosi e spaventati, catapultati più o meno violentemente dentro un mondo estraneo, che a volte fa paura. Emarginati, soli, additati e incolpati delle azioni più abominevoli, di errori imperdonabili. Mostri. Diversi. Strani. In noi ataviche colpe, macchie indelebili. Questo è il nero che occupa una parte del cuore di ciascuno, lo spettro di essere un errore. Tuttavia senza il nero delle lacrime più buie il bianco di un sorriso non avrebbe colore, non avrebbe significato. Lo yin e lo yang, l’eternità della gioia e del dolore, del bene e del male che ognuno di noi custodisce. Come l’arco e la lira di Eraclìto, la morte e la musica, la morte e la vita.

di Ludovica Cianciosi

Glenn Gould o della compiuta assenza

pianoforte

Preludio

Ci siamo trovati sospesi, a causa di questo Covid-19, in un limbo che attraversiamo con la percezione di una subdola spada di Damocle abile a recidere il senso della vita activa a cui eravamo abituati. Nel rapporto con gli altri, scopriamo ora un senso diverso della presenza, dell’essere davvero qui e adesso.  Difficile non pensare ad un artista che dello sparire dalle scene, all’apice del mito, fece la propria missione, per inseguire il sogno di una musica che fosse, come nella mistica medievale, “ciò che riempie contenendo”: Glenn Gould.

Il genio è fratello dell’unicità, come questa la sua condanna. Chiunque abbia in sorte il dono del talento, si ritrova a doverlo alimentare nel nome dell’apparire. E abbiamo chi quell’immagine ha cercato  di distruggere, rimanendo nell’incertezza che Keats considera prerogativa degli artisti. Uno di questi, forse l’unico ad esserci riuscito, è Glenn Gould.

Nato nel 1932, canadese, bambino prodigio del pianoforte, dotato dell’orecchio assoluto. A 14 anni l’esordio con il Quinto concerto per pianoforte di Beethoven e l’incontro con il suo primo ed unico insegnante di pianoforte, Alberto Guerrero, che lo lascerà dopo cinque anni spiegando ai genitori: “Non ho più nulla da insegnargli”.

I concerti e le incisioni alimentano la sua fama fino al 1964, quando a 32 anni l’angelo muta in fantasma e lascia per sempre il palcoscenico. Fino alla morte nel 1982 , Gould terrà conferenze sulla musica, inciderà dischi, comporrà radiodrammi, avendo solo parole di astio verso i recitals.

“Laggiù, qualcuno mi ama?” sembra chiedere il solista mentre spinge le ottave in funambolici crescendo quasi a mendicare quell’amore, insieme a quella crudeltà che si cela in ogni forma di ammirazione. Uno schiaffo, quello di Glenn Gould, a tutti coloro che vedono l’arte come divertimento e non come percorso di salvezza della propria anima.

Un’assenza dalle scene, la sua, che sembrava coltivare un’altra immagine, unica nella storia della musica: l’artista che distrugge se stesso e per questo trova la propria salvezza. Suonava pochissimo il pianoforte, solo un paio di volte prima di ogni incisione. Lo strumento per Gould doveva essere trasfigurato, spogliato di ogni virilità per essere più idoneo alla polifonia, alla ricerca della lux, eterna e salvifica, opposta alla lumen, mondana e dolorosa.

Nello studio di registrazione, Glenn Gould dava nuova forma alla letteratura musicale. Provocava il suo pubblico dicendo che una Sonata di Beethoven era stata incisa montando due diverse esecuzioni. Professava un amore viscerale per la scuola dodecafonica e seriale (ma adorava i tardoromantici come Jan Sibelius e Richard Strauss) e nel programma dei suoi concerti inseriva brani francamente noiosi – come la Terza Sonata di Ernst Krenek) forse per smontare l’entusiasmo di chi veniva ad applaudirlo per dire “io c’ero”.

L’assenza, di nuovo. La stessa che nell’ultima Novelletta op. 21 di Robert Schumann si esprime attraverso l’indicazione Wie Aus Der Ferne (“Come giunto da lontano”). Quando il suono sembra provenire dalla parte più intima di noi e trasforma la musica da qualcosa che ascoltiamo in qualcosa che ci ascolta.

Nel distacco dalla vita pubblica – a cui oggi per altre ragioni siamo costretti – Glenn Gould ha voluto perfezionare il suo percorso, unico e geniale. Lui che voleva scomparire nell’anonimato – magari in una “idea di Nord” dal titolo di uno dei suoi radiodrammi – oggi è il solo ad essere riconoscibile dopo due sole battute.

Il primo uomo

Germana Stella

Mi domando come deve essersi sentito il primo uomo che, nell’entrare in contatto con un altro uomo, ha sentito l’energia che si scatena tra le anime. 

Non tutti ci riescono, ma chi sa di cosa parlo capirà. 

Anime che non necessariamente devono condividere esperienze importanti, o una intera vita. 

Semplicemente due persone che anche solo stando accanto, attraverso un contatto, si sentono bene, e grate. 

Col tempo avranno imparato a distinguere l’affetto, la passione, l’amore, l’istinto, 

Immagino. 

Hanno capito che probabilmente non c’è niente di più bello del riempire i vuoti, i silenzi, la solitudine, 

nonostante il fascino di tutto ciò che ho appena elencato. 

Ma non riesco ad immaginare come, e quando, esattamente, i cuori di queste persone sono diventati tanto aridi, 

Così da allontanare gli altri, preferendo mantenere le distanze, 

Isolandosi

Alienandosi 

Spegnendo quell’energia che, chissà, forse faceva girare il mondo dal verso giusto. 

All’inizio della quarantena ho pensato che finalmente la gente mi sarebbe stata lontana, non mi avrebbe toccata parlandomi, 

Niente baci e abbracci salutandomi, 

Niente, finalmente, pensavo. 

Ma poi, oggi riflettevo, 

Riflettevo che sento solo il profumo della mia pelle, e ho bisogno di mischiarlo nel mondo.

di Germana Stella

L’anteprima di una Milano che volevamo proprio vedere

boy

Chiara Battistini ha scritto e diretto “Milano come non l’avete mai vista”, il film a cura di Art + Vibes che racconta il primo anno di Perimetro che, più che un (community) magazine, è un movimento fotografico in continua evoluzione: si espande, cresce, coinvolgendo persone e contaminando mondi artistici e sociali differenti.

Alcune storie colpiscono, rimangono impresse più di altre. Tra le duecento pubblicate lo scorso anno, sono state scelte dodici storie. Dodici i racconti di questo film documentario immaginato, fortemente voluto, costruito giorno dopo giorno grazie all’interesse, all’ascolto, allo scambio. Dentro un Perimetro di collaborazioni virtuose. Il focus del film è proprio su queste storie, non sui fotografi. Quelle che, messe insieme, a livello cinematografico compongono un affresco di tutti i temi che Perimetro vuole raccontare.

“Milano è un città complessa, di quelle che ti risucchiano vorticosamente e ti tolgono il respiro. Una città in cui succedono anche molte cose. Belle. E ci sono persone. Che mettono in circolo energia e idee.” Una città piena di fermento, sotto quella patina grigia e argentata che può confondere, ingannare. Che se rimani lì, a quel primo strato magari ti perdi dei dettagli della scena. Ti può sfuggire il senso. Perimetro mette insieme i pezzi e te li mostra così – di carta e di carne, di immagini e di suoni – e tu pensi che, insomma dai, sei fortunato: è mica male, questa Milano. 

Ho seguito Perimetro dall’inizio, dalla prima presentazione ufficiale all’ElitaBar (che ormai è un po’ casa). Chiara, invece, l’ho incontrata in una giornata caldissima d’agosto, durante le riprese di Nuda Proprietà, la storia di Alan Maglio uscita sul numero 7 di Perimetro. È la prima volta che assisto alle riprese di un film e sono elettrizzata. Fa caldo, caldissimo ma tutti lavorano, sudano, studiano e costruiscono la scena con una forza e un entusiasmo incredibili. I ciak. Quel silenzio densissimo che riempie la scena.

Le immagini che scorrono sul display e sono lì, davanti ai tuoi occhi. Le vedi e già sono un altro mondo. Quella storia da raccontare per immagini. E parole. Che arrivano subito in rincorsa – come una spinta – vacillano un poco e poi rallentano. Il respiro si fa più regolare e pure le parole prendono il ritmo giusto. Senza fretta. Senza più quell’ansia di tutto quello che ora ci circonda. Uno scambio fluido, morbido che riesce a toccare i punti giusti. Ci scivola attorno e poi scava. Dentro. A fondo. Fino a ritrovare la luce, la visione. Quella giusta. Illuminata. 

Le musiche originali dei Casino Royale scandiscono il tempo della narrazione: rapida incalza, rimbalza nel petto e ti sbalza sui tetti. E lì ti godi il nuovo panorama, con gli occhi che sorridono e si spalancano più che possono per accogliere quello ora vedi. 

Dentro alle storie che si sviluppano per la città. Lungo le strade, nei quartieri periferici, dietro angoli nascosti e porte chiuse. Più forte, più in alto. dove non ti aspettavi di arrivare. Poi, ecco. Tutto sembra fermarsi. Ti toglie un attimo il respiro. Sospeso e dilatato come il tempo in cui fluttui. Non capisci però segui l’immagine. Lasci che ogni piccolo dettaglio vada a comporre la scena.

Il rumore dell’ascensore che sale. Le chiavi che girano nella serratura. Le tapparelle che si alzano. La luce che filtra piano. Riempie la stanza. E qualcuno si muove. Alan prende la camera e parla piano. quasi un sussurro. Delicato e Denso allo stesso tempo. Come lo sguardo di Chiara che, con la sua narrazione attenta e generosa, trova i tempi giusti, il ritmo di una poesia per immagini, leggera, coinvolgente e convincente. Tenuta insieme da un sottile filo di nostalgia

Un affresco da cui emerge la natura di questa Milano inedita che sì, è “come non l’avete mai vista”, ma è anche “sbrigatevi, entrateci dentro ora perchè tra poco non ci sarà più”. La Milano del futuro e quella di un passato che sopravvive. In perfetto equilibrio tra emozione diverse.
Il senso della vertigine e la vista mozzafiato dal rooftop dei palazzi più alti di Milano. Il cuore che batte all’impazzata durante gli inseguimenti della polizia nel reportage di Gabriele Micalizzi. La bellezza delle facce stra|ordinarie della gente di Quarto ritratte da Sha Ribeiro. Che te le aspetti e poi invece no, sono anche altro, ed è quello che attraversa lo sguardo del fotografo quando scatta e si lascia andare. Seguire il flusso, non scalette. Il religioso silenzio delle chiese scattate da Victor Schnur che, messe assieme, parlano la lingua di un futuro distopico. o quella di un passato utopico. La potenza delle immagini di una generazione di donne che lotta per i propri diritti e la dolcezza di una madre che ancora vive attraverso i negativi (ri)scoperti quasi per caso dalla figlia, Nicoletta Grillo. O la sensualità sfacciata e divertita delle ragazze di Lady Tarin, che festeggiano al bar Basso e trasformano un compleanno in un evento corale e magico. O quel sentirsi invisibili che poi ti fa sbattere addosso alla città. Alle cose e alle persone, che porti con te. Nell’iPhone. O pieni di sogni – concreti – come i ragazzi del liceo classico Manzoni scattati da Jacopo BenassiImmaginatevi domani e che uomini vorreste essere.

Zero formalismi, parecchia sostanza. 

Serve una sensibilità notevole per poter leggere oltre quella patina argentata,  e mettere in risalto le pieghe più intime e autentiche di una storia senza bisogno effetti speciali. Lasciandosi attraversare. Entrare in una stanza. O in una storia. In punta dei piedi, quasi senza fiatare. Che dentro non c’è nessuno eppure avverti la presenza di vite che hanno abitato tra quelle mura, quei quartieri. storie che puoi intuire attraverso gli oggetti. O le facce. I segni che restano. Che raccontano. Come in un sogno. Che sarà la nostra storia, domani. La nostra memoria. 

Una vibrazione positiva che ti resta appiccicata addosso e che poi porti via con te. Alla fine di tutto. Fino alla prossima storia. Da vivere. Da raccontare. Milano come non l’avete mai vista è un ritornello che batte e ribatte. Ogni volta uguale e ogni volta mai lo stesso. Questo cazzo di sguardo. Così. Pieno di stupore e meraviglia. 

Il film sarà visibile per 24 ore a partire da sabato 18 aprile alle ore 20.30 cliccando su questo link: https://vimeo.com/407163116

Milano come non l’avete mai vista. 

Un film scritto e diretto da Chiara Battistini.
Prodotto da Max Brun.
Produttore esecutivo: Roberta Gigi.
Original Soundtrack by Casino Royale

Storie di: Marco Aurelio MendiaGabriele MicalizziVictor Schnur, Andrè Lucat, Alan MaglioMario ZanariaNicoletta GrilloLady TarinSha RibeiroMattia ZoppelaroGuido BorsoJacopo Benassi.

www.artandvibes.com

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La Casa di Carta crolla

La Casa di Carta crolla

3 Aprile 2020, mi sveglio con un solo pensiero: la quarta stagione de La Casa di Carta è disponibile su Netflix. Durante la mattina lavoro distrattamente, scorro i social e la minima immagine relativa alla serie mi fa letteralmente sobbalzare. Insomma, faccio il salto dello spoiler, evito le sponsorizzate delle pagine che ne parlano, slalom tra gli amici che alle 10 del mattino hanno già guardato la metà dell’ultima stagione. Quest’attesa mi distrugge, devo pensare ad altro. Ma scaltramente Netflix mi ricorda con un video di promo il dubbio con cui ci siamo lasciati lo scorso luglio: Nairobi è viva? 

Devo aspettare l’ora di pranzo, se non altro ho il cibo a cui pensare. Arrivano le 13, col piatto davanti mi fiondo letteralmente su Netflix e la vedo lì, in tutto il suo splendore. Giuro che mi viene un brivido lungo la schiena e penso che il minimo errore potrebbe facilmente disattendere le mie aspettative. 

Guardo la prima puntata e come inizio non c’è male. Nairobi a cavallo tra la vita e la morte, Tokyo (appena diventata Meredith Grey) salva la sua amica, il Professore disperato e in fuga senza Lisbona (che era morta, poi era viva, ma lo sapevamo solo noi), Denver pazzo di gelosia per colpa di Arturito. C’è del pathos, ci sono dei palesi errori nella logica di alcune scene, c’è addirittura un flashback di Berlino che canta Ti amo di Umberto Tozzi. È tutto un grande boh. È tutto un grande bluff. 

Proseguo nella visione e guardando le prime quattro puntate continuo a chiedermi se era davvero necessario presentare la nuova stagione in quei termini. Sì? No? Ma soprattutto com’è possibile che Gandía, capo della sicurezza del Banco de España, riesca a sfuggire nonostante siano in dieci a sparargli contro? Un momento, dev’esserci un errore perché non era così che ricordavo la serie a cui mi ero appassionata un anno e mezzo fa. 

 A pochi minuti dalla fine della sesta puntata mi alzo dalla sedia comunicando ai presenti che non ho intenzione di continuare a guardare questo scempio. Qualcuno ha definito La Casa di Carta “una telenovela con aggiunta di mitra” e a malincuore non posso far altro che essere d’accordo. 

Seguo le due ultime puntate con un mood diverso da quello in cui mi ero fiondata all’uscita della stagione di questa serie, che ormai si trascina stancamente e resta ancorata a un aspetto che la dice lunga sulla sorte delle serie TV. La Casa di Carta crolla esattamente come tante altre serie sotto una spessa coltre di cliché, errori impensabili (come la confusione sul nome di un personaggio) e si conclude rischiando di perdere una buona fetta del suo pubblico. Senza contare che tratta le storyline dei personaggi, quelli a cui molti di noi erano affezionati, come carne da macello.