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Alta|lena

Ovvero: in preda alle vertigini, mangiarsi le farfalle nello stomaco e volare ancora più in alto.

La guardi e pensi che forse dovresti ignorarla. Fai finta di niente, passa oltre, non pensarci. Vattene altrove, fatti un giro, chiama qualcuno. Invece no, te ne stai lì a fissarla. Tanto lo sai come andrà a finire, vero? Che l’altalena è una di quelle cose che guardi e sembra divertente. Nel bel mezzo di un parco, giochi. Sali, oscilli e forte. più forte che sali in alto alto alto più su. Fammi toccare il cielo con un dito, ché la scarpetta l’ho smarrita alla festa e ora ho il piede nudo e sento l’aria fredda tra le dita. Oh, il cielo. Chissà cosa si prova a toccare veramente il cielo con dito. Io che cammino con i piedi sempre per terra ogni tanto mi perdo e non me lo ricordo. 

L’altalena è una di quelle cose che dovrebbe farmi divertire. Quella sensazione di euforica leggerezza, le farfalle nello stomaco e i capelli che volano nell’aria e tu ridi, ridi, ridi senza mai fermarti, il corpo che si fa leggero. Sfugge. Perdi il controllo. 

Giuro. Non è che mi sono sbagliata. L’altalena è una di quelle cose che fa divertire sì, gli altri. C’è che a me fa una paura boia. E forse una volta te lo dissi, ma poi mi rimangiai le parole, una a una. Le mangiai in fretta ed erano così dure e crude che poi mi rimasero sullo stomaco. sottosopra. con tutte quelle farfalle che sbattono le ali e tentano di risalire su, su a forza dall’esofago. e tu tossisci e poi ti tappi la bocca per non farle scappare, con le figurine delle belle intenzioni, quelle della festa. Scintillano ancora, vedi? 

E sì, l’ho attraversato il parco di sera e avvisa-quando-arrivi-a-casa e sì sì, sono sana e salva. Dannatamente sana e salva. Di nuovo. Ci ho girato intorno, mi sono avvicinata senza farmi notare, per prendere qualcosa che mi ricordasse quel momento per sempre. L’ho catturato e l’ho infilato tra le palpebre, così da ritrovarlo ogni volta che mi perdo in un sogno a occhi aperti, che quelli di notte non li ricordo mai. 

Una sera, invece, sono tornata. Non guardare. Non muovere un muscolo che rovini tutto l’incanto. E io lo faccio. L’ho fatto per davvero, una sera. Sono salita in cima. Mi sono sporta sull’orlo di un precipizio, ho visto un elefante gigante risalire un palazzo abitato da tutti i miei fantasmi e ho attraversato un quadro. Immenso. Onirico. La mia apocalisse, personale. 

Provate voi a farvi risucchiare così e restare in bilico tra il vuoto e quella vertigine assurda, che sei lì ma sei anche altrove, e forse sei al sicuro ma tu no, senti solo la vertigine addosso e strizzi gli occhi e allunghi le braccia nel vuoto, arretri, fai l’ennesimo passo indietro. Quella cazzo di metafora della tua vita. Sul cornicione. A penzolare nel vuoto. A trattenere il respiro. Un passo avanti e uno indietro. Pillola rossa o pillola blu? Datemi un indizio, che qui, così, facciamo notte. 

Lasciami, lasciati andare. 

E così io vado, vago e nella mia testa prende vita un’orgia rituale che intravedo, la inseguo, ti prego. tremo. l’ebbrezza più profonda che mi fa smarrire il senso. penso. Sembra che questo momento debba durare per sempre. ma poi in alto, così in alto vado e subito torno. per farmi staccare questi piedi da terra e abbandonarmi a un compimento nuovo che chiama, protende. pretende. 
Me. 

Lasciami, lasciati andare.

ph. Alessia Basso

La signora Franca

La signora Franca

Affinché, quando tutto questo finirà, questa nostra terra sia un posto migliore. 


A partire da questo nostro condominio.

15 marzo

«Com’è là fuori?», mi chiede ogni giorno la signora Franca del quinto piano. Mi telefona la mattina. Per non disturbarmi chiama alle 9.

Vado a prenderle il giornale, Il Resto del Carlino. Arrivo davanti alla sua porta, lascio il giornale e scambiamo quattro parole, sempre le stesse, separati da un’inferriata che un tempo proteggeva la sua casa da ingressi non desiderati e che oggi sembra un divisore tra lei e il mondo.

«Com’è là fuori?», mi chiede di nuovo, «è triste?».Ricaccio dentro le lacrime. «È bellissimo, signora, è sempre bellissimo». Lo sappiamo entrambi che quella che le dico ogni giorno è solo la metà di una verità. Ma ci basta.

Mi guarda, sorride, poi lancia un bacio, ogni giorno con la stessa gioia, la mano protesa verso di me. In mezzo la stessa inferriata che, per precauzione o pigrizia, resta chiusa.

«Ti chiamo domani» dice prima che io vada. 
So già le domande che mi farà. Lei conosce già le mie risposte. Ma ci basta.

23 marzo

«Buongiorno signora!» sciolgo la voce e mi accorgo che oggi non ho ancora aperto bocca per parlare «Le serve qualcosa?». Chiamo la signora Franca quasi ogni mattina. Quando non riesco mi telefona lei. Scusandosi puntualmente per il disturbo. «Signora, lei non mi disturba mai», le rispondo lezioso «Oggi lavoro da casa». «Fai smart working?» mi chiede con la fierezza di un’accanita lettrice di quotidiani che ha già preso familiarità con un linguaggio ‘nuovo’.

Inizia a prendere forma il suo ritratto nella mia testa. Capelli biondi, mossi, sempre perfettamente acconciati. Sul maglione beige mai una macchia. Orecchini dorati a conchiglia, un classico anni ‘80. «Vado a prenderle il giornale» le dico prima che lei possa chiedermelo «il solito?».

In cuor mio continuo a sperare che prima o poi mi chieda un quotidiano migliore del Resto del Carlino. «Sì, il solito. Ma senti una cosa… ti è piaciuta la frittata?». Ebbene sì, ieri la signora Franca ha fatto per me e i miei coinquilini una frittata. Be’… impiattamento migliorabile, un po’ salata eppure poco gustosa, in pratica un’omelette. Vuota. Ingurgito rapidamente il pensiero, la frittata ‘sciapa’ che ho mangiato come spuntino appena rientrato ieri da lavoro. E tutte le puntate di Masterchef che ho visto negli ultimi anni.

«Buonissima, signora, grazie davvero. Non doveva». Abitualmente non mento. Ma lei non può sapere che in Sicilia definiamo frittata una pietanza che sembra una torta, alta dai 10 cm in su, stracarica di uova, patate e cipolla. E unta. Talmente unta da aver bisogno di essere racchiusa tra fogli e fogli di carta assorbente prima di essere mangiata. Che quando la tagli la casa si inonda di vapore, profumi. Pure di Dio si inonda. Non fosse così poco sana gliene starei già cucinando una.

Oggi fa un freddo inatteso. Violente sferzate di vento mi fanno pensare alla neve. Sarebbe terribile non poter uscire a giocarci.Mi scrollo di dosso la sensazione di gelo e le porto il giornale. Mi accoglie al di là della grata di metallo con il solito sorriso. «Tu mi dici: ‘quando ha bisogno mi chiami, signora’» mi fa quasi il verso quando calca la voce su ‘signora’. Punta il dito verso di me, il sorriso lascia il posto a un’espressione determinata: «Io ti dico: quando tu hai bisogno chiamami. Quello che voi fate con me, io voglio farlo con voi. A modo mio». Trova sempre il modo di farmi commuovere la signora Franca. E quell’omelette che ho ingurgitato svogliatamente ieri è la frittata più buona che io abbia mai mangiato. A modo suo.

29 marzo

La signora Franca dell’ultimo piano ultimamente non sta molto bene. «Mi fa male la cervicale» dice quando mi telefona «non mi alzo perché ho paura di cadere». «Non si alzi, signora» non so cosa dire. E quando è così ripeto l’appellativo signora come ogni siciliano cresciuto a pane e riverenza per le persone più grandi.

«Sei già uscito con il cagnolino? Puoi prendermi il giornale quando vai?» lo chiede sempre nello stesso modo gentile. Eccerto che sono già uscito. «No, signora, non sono ancora uscito oggi. Glielo porto subito». «Vai adagio» dice. Mi ricorda mia nonna quando mi mandava a prendere i biscotti al burro, i suoi preferiti, in una pasticceria al piano terra del suo palazzo. L’edicola è praticamente sotto casa mia. Ma da lì vedo una domenica cupa. La città è deserta. Ne sono felice. E, dopo un attimo, tremendamente triste. La signora Franca ha smesso di chiedermi com’è fuori. Io ho smesso di dirle che è bellissimo. Temo di aver smesso anche di pensarlo. Come in tutte le amicizie si arriva sempre a quel punto in cui non ci si mente più.

«Quando tutto questo finirà» sorride mentre mi allunga 5 euro, troppi per un giornale «venite a cena da me?» «Certo, signora, con immenso piacere» sorrido anche io mentre le ricordo che mi ha già dato 10 euro qualche giorno prima. «E brindiamo?» chiede. Trattengo a stento le lacrime. «Certo che brindiamo, signora» la mia voce cede. Ci salutiamo, mi allunga un bacio, le braccia protese verso di me. Vale più di 5 euro. Più di mille giornali. Percorro i cinque piani che mi separano da casa. Sento la sua porta che si chiude. Adesso posso cedere. In lontananza il mio cane gratta la porta. Sente che sto arrivando.

«Tranquillo, bello, sono a casa».

Orsetti

Orsetti

Ho alzato gli occhi verso i terrazzini impilati sulla facciata del palazzo che ingloba il supermercato. Al primo piano, dove il sole batteva senza pietà, c’era questa ragazza abbarbicata su una sedia di legno.

Aveva le ginocchia, più che incrociate, articolatamente incastrate tra loro, la testa piegata sullo schienale e un braccio che penzolava, trasmettendo un imbattibile senso di organica desolazione, come se, dopo aver portato fuori i quaderni e i libri, animata da un sincero spirito combattivo, avesse smesso di chiedersi il perché delle cose, a partire dalla sua stessa posizione innaturale.

Indossava una felpa con stampe di orsetti che le lasciava scoperta la pancia e, a un tratto, qualcosa deve averla convinta a rientrare in casa, perché ha risolutamente afferrato tutto, libri e quaderni, ed è scomparsa dietro la tapparella alzata a metà.

A quel punto, dopo un’ora di fila – una fila da me inizialmente interpretata in maniera ingannevole come affrontabile – avevo finalmente conquistato la prima posizione, di fronte alle porte scorrevoli del supermercato.

Un magazziniere è uscito e mi ha fatto un cenno di saluto con la testa, poi si è acceso una sigaretta. La sua espressione è cambiata all’improvviso.

“Non ci credo”, ha detto guardandomi. “Si è accesa di lato”.
“Questo è un brutto segno”, gli ho risposto.

Filippo Dionisi

I giorni

giorni

In questi giorni in camera mia fluttuano canzoni che stimolano la mente a rimanere tra le nuvole. Immagino questo spazio mentale ritagliato come un lembo della carta da parati della mia stanza che ho sollevato, dietro il quale si scopre una finestra che appaga il mio desiderio di escapismo. 

Qualche giorno fa dalla stessa finestra è trapelata una consapevolezza spaventosa. L’ho guardata al contrario mentre ero distesa sul letto. Dopo che le reti televisive erano tornate unificate per trasmettere il messaggio del Presidente del Consiglio che chiamava questa cosa “pandemia”. L’ho guardata ed era un disegno fatto a matita coi chiaroscuri molto calcati.

Ho avuto paura, ma non paura di essere contagiata, paura delle scatole dentro le quali mi trovo rinchiusa, del fatto che il mio microcosmo emozionale in tempesta è ora contenuto dentro un macrocosmo in tempesta e più collettivo.

Non so quanto siano sagge le priorità delle mie paure, ma da questi due occhi che sono il confine tra me ed il mondo non posso che vedere a modo mio e potrei anche sbagliare.

Dopo che la gente esce sui propri balconi per cantare e ballare insieme sulla città cala un silenzio surreale. Come se adesso ai giorni mancassero delle ore e dopo le diciotto si precipitasse direttamente nella mezzanotte. In quel preciso momento ieri mi è sembrato che la mia ombra proiettata sul marciapiede si sdoppiasse e qualcuno mi seguisse.

Quel silenzio dobbiamo imparare ad ascoltarlo senza paura. E se ci sentiamo soli imparare ad immaginarci dentro il rumore più o meno sommesso delle altre persone che come noi nelle case accanto svolgono le loro attività. Riadattandole dentro un nuovo spazio. In questo momento siamo tutti più simili e vicini, anche se non ci possiamo toccare (ma lo faremo presto).

di Viviana Bonura

Ti do la mia parola – Eleonora Sabet e gli autoritratti scritti a mano

In un momento come questo, (s)travolti come siamo dall’emergenza Covid-19, più o meno tutti cerchiamo istintivamente un appiglio, un diversivo, una distrazione. Non possiamo guardare altrove. Fare finta di nulla. In un momento così assurdo e surreale, possiamo provare a distrarci per un po’, però ecco, torniamo necessariamente allo stesso punto. Dannatamente semplice e spietato. Quello che siamo. Presi come siamo solitamente dalla quotidianità, dagli affetti, dai valori, da tutte le cose di cui è fatta la nostra vita. Anche le più frivole. Le nostre. Che non sono sparite, sono solo sospese. Rimandate. A data da destinarsi. Ci ostiniamo a trovare una distrazione per non pensare a quanto sia innaturale questa cattività formale. Siamo costretti a fermarci, senza più vagare altrove. Lontano dal centro. Che siamo noi. Ed è quello che possiamo fare, guardare. 

Non ho più scuse. La leggo su una fotografia, questa frase. Scritta a mano, su un ritratto in bianco e nero. Tanto semplice quanto diretto, immediato. Onesto. Mi fa riflettere. Mi incuriosisce. Fa parte di “Quarantine Project”, l’ultimo progetto artistico di Eleonora Sabet,  fotografa freelance di Milano che attualmente vive ad Amman, in Giordania. 

“Qui ad Amman siamo alla terza settimana di lockdown – ci racconta – e, da quando tutto è iniziato, ho preso la decisione di scattare un autoritratto al giorno. Il progetto si è evoluto diventando collettivo, invitando a partecipare chiunque ne voglia far parte. Circa una settimana fa ho fatto una call su Instagram chiedendo un autoritratto scattato durante la quarantena e un pensiero scritto a mano su come ti senti in questo periodo. In tre giorni sono arrivate 100 email, attualmente sono state superate le 200 e la call è ancora aperta a chiunque. Dato che siamo tutti in quarantena, ho scelto di non fare una selezione delle fotografie, edito tutto il materiale che ricevo ed entra a far parte del mio progetto.

All’improvviso ci ritroviamo protagonisti di progetti artistici che ci riguardano tutti. Che, in qualche modo, danno una forma bella a una cosa che chiamiamo “quarantena” e che viene da un virus stronzissimo che ci ha fottuto, sì, ma solo per un po’

“Sì, ti fermi e poi tremi. Dietro alle persone chiuse c’è ancora il sole e qualcuno suona un pezzo dei Pink Floyd. Ti fermi. E tremi(leggo su un’altra foto ancora). Fragili e impauriti e stralunati e incazzati e pure agguerriti. È questo che siamo, è questo che scopriamo, quando ci guardiamo. Quando lo facciamo davvero. 

Con il suo progetto, Eleonora Sabet ci invita a catturare quello che siamo. Nel qui e ora. Diretti, anche quando ci sentiamo divelti. Ognuno col suo personalissimo status temporaneo. Un modo per possedere il presente – stronzo e surreale che sia – farlo proprio. Un singolo momento. Unico. E un pensiero, un’emozione che ci appartiene, cucita addosso a quell’immagine. E le persone lo fanno. Hanno accolto l’invito, partecipano. Da subito. Una piccola parola. Con una forza e un entusiasmo che forse nemmeno l’artista si aspettava. Che ancora continua, si espande e diventa un diario collettivo semplice e potente. L’urgenza di guardarsi. Di dirsi. Di ricordarsi. Con una frase. Una piccola parola. Ché il flusso delle nostre identità non si interrompa. Ma diventi altro, in questo spazio personale che – così – ci appare un po’ meno ristretto. 

Ci vedremo con altri occhi, domani? 

“Quarantine Project” è l’evoluzione di una serie di autoritratti a cui ho iniziato a lavorare dall’inizio della mia quarantena – dice Eleonora Sabet. L’autoritratto è la tecnica fotografica che mi ha sempre permesso di raccontarmi nella maniera più sincera, ed è stato il mio primo approccio alla fotografia. 

Osservando le fotografie realizzate, mi resi conto della mancanza di qualcosa: il progetto non aveva nulla di nuovo rispetto agli autoritratti che scattavo prima dell’arrivo del Covid-19. D’istinto mandai un messaggio ai membri della mia famiglia (che attualmente si trovano in Italia, io ad Amman, in Giordania) chiedendo di inviarmi un autoritratto e un pensiero scritto a mano su come si sentissero. Non avevo idea di cosa potessero scrivere ma rimasi piacevolmente sorpresa. Dopo averle editate, mi resi conto di quanto l’unione fra calligrafia, pensiero personale (che poi, nei testi ricevuti si è spesso trasformato in sfogo emotivo) e volto della persona potessero essere d’impatto.

Sempre la stessa giornata, decisi di proporlo su Instagram, invitando a partecipare chiunque ne volesse far parte. Pensai che potesse essere interessante sapere come si sentissero persone a me sconosciute, ma soprattutto poterlo condividere online per poterci ascoltare tutti insieme. Ad oggi, a distanza di una settimana dalla pubblicazione della call, le email sono più di 280 ed il progetto è ancora aperto. 

Ogni giorno, chi decide di partecipare, contribuisce alla creazione di una narrazione emotiva fra sconosciuti che stanno vivendo una situazione simile.

Questo progetto fotografico è diventato un lungo diario collettivo che parla di paura, solitudine ma soprattutto speranza per un futuro migliore.

Io, quando apro per la prima volta l’email di qualcuno, mi emoziono leggendo i pensieri che sono stati condivisi con me. In qualche modo mi fa sentire meno sola di fronte ad una situazione a cui, purtroppo, siamo tutti impotenti.

Spero che chiunque abbia la possibilità di vedere questo progetto possa provare la stessa sensazione.

“Quarantine Project”, Eleonora Sabet https://www.instagram.com/elesabet


Persone nelle fotografie allegate:

Eleonora Sabet (Amman)
Donatella Tallone -mia nonna- (Genova)
Marco Sabet -mio padre- (Milano)
Massimo Sabet -mio zio- (Milano)
Antonio Mangiacapre (Napoli)
Kimberly dela Cruz (Manila)
Sara Galletta (Chieti)
Alexis Lefevre (Ankara)
Anastasia Yuzvinska (Rimini)
Geremia Mangione (Milano)
Ilaria Milani (Milano)
Alice Ursini (Penne)
Abad Lahham (Amman)
Camilla Paris (Milano)
Valentina Invernizzi (Pavia)
Martina Parolo (Pavia)
Denise Basta (Prato)
Francesca Casalino (Padova)
Marta Renda (Aosta)
Silvana (Roma)
Riccardo Segre (Milano)
Susan E. Kavanagh (Londra)
Gloria Gorni (Brugherio)
Giuseppe Tortora (Milano)
Hillary Noleppi (Brescia)
Ksenija Taddei (Velletri)
Vittoria Rigutto (Milano)
Marika Alfieri (Trieste)

Venti metri pt2: Le cinque di mattina

cinque di mattina

Ok, svegliarsi alle cinque di mattina non è una grande idea. Specie se ti metti a rimuginare sulla treccia chilometrica che il tuo EX parrucchiere ti ha tranciato nel ‘98. Sì esatto, quando gli avevi detto “spunta due millimetri”. O su quella volta che, non sai ancora come, ti sei materializzata nei bagni dell’università a fare cose con Teodoro Cinquepalle per poi finire dallo psichiatra. E dal ginecologo. O ancora, su quando uscirai di casa per testare la funzionalità delle tue gambe, la capacità di stare al sole come testimonianza di non essere diventato un vampiro e di socializzare con cose che non siano bottiglie di cherry, saponi di Marsiglia e piante carnivore.

Il fatto è che non ho deciso volontariamente di svegliarmi alle cinque.

Prima di andare a dormire, ho lasciato le tende aperte. Volevo guardare il cielo mentre ero a letto. L’ho trovata un’accortezza rilassante, coi pensieri che rimbalzavano di qua e di là e la speranza che il mio uomo misterioso si affacciasse al suo balcone e mi cogliesse avvolta da un’aura azzurrina e luccicante in stile sleeping-beauty-end-of-the-world-edition.

Beh, in questo caso, Sleeping not Beauty.

Mi sono addormentata. Poi mi sono girata. Ho sentito un rumore, un fruscio provenire dalla finestra. Poi mi sono addormentata di nuovo. Di nuovo quel rumore. Ed ecco le cinque di mattina. Ho spalancato gli occhi e mi sono messa a fissare il vuoto opprimente del mio soffitto stinto.

Una frase è nata in quel momento, una frase che continua a ronzarmi nella testa.

Tutto sta andando come dovrebbe.

Tutto sta andando come dovrebbe.

Ma cosa sta andando come dovrebbe, esattamente? I chili presi, la solitudine, la frustrazione, la costrizione di dover continuamente, senza scampo, fare i conti con se stessi? Guardarsi allo specchio, non riconoscersi fisicamente ma cominciare a capire la propria anima? O semplicemente svegliarsi alle cinque di mattina e ricordare Teodoro Cinquepalle? No perché se così fosse, tutto ciò non dovrebbe andare per niente in questo modo.

Quindi alla fine, tormentata dall’impossibilità di mettere tutto a tacere e tornare a dormire, ho infilato le mie ciabatte coi pompon (sì, lo so, lo so, prometto di buttarle alla fine) e ho preparato il caffè. Poi, con la tazzina bollente in mano, sono uscita a prendere un po’ d’aria sul mio balconcino.

Era ancora buio là fuori. E freddo. Però respiravo. E il caffè mi confortava.

I lampioni della notte erano ancora accesi. Chissà per chi.

Le cinque di mattina tingevano tutto di blu: la strada, i sampietrini, lapislazzuli quadrati diligentemente in fila, i portoni muti, le finestre cieche. Beh, tutte tranne una.

Il mio musicista aveva lasciato la sua aperta. Forse lo aveva fatto per guardare il cielo, come me.

Mi sono chiesta se anche lui avesse un Teodoro in versione femminile. Non so, una Giulietta Quattrotette. Con un gatto che si chiama Maionese. Ma ok, sto divagando.

Tra un sorso e l’altro, mi sono messa a fissare quella finestra e mi sono sentita misera. Avete presente il fondo di quel vaso di cui parlavo l’altra volta? Bene, in quel momento non sono riuscita a trovare neanche l’ombra dello spirito positivo che cercavo.

Tutto sta andando come dovrebbe.

Certo, fuck off.

È frustrante essere consapevoli di non poterci fare nulla. Non sapere cosa rispondere a un messaggio come “Ci manchi”. Aver esaurito tutte le idee su cosa fare, come, quando e perché. Ometto di dire “con chi” perché non avrebbe senso. Qui ci siamo solo io, io e io.

Forse è questo che spaventa di più di tutto il resto. La possibilità, prima remota, di poter all’improvviso restare soli.

Beh, mi sono sentita talmente misera che stavo per rientrare. Il caffè era finito e il blu delle cinque di mattina stava virando verso un azzurro più stinto del mio soffitto. Il mio piede però ha urtato qualcosa di appuntito ma morbido. Un pezzo di carta, un origami a forma di aeroplanino.

Le mie tempie hanno preso a tamburellare e la tazzina, sfuggendomi dalle mani, è cascata di sotto con un rumore che, a quell’ora, è sembrato un tuono spaventoso.

Mi sono guardata intorno circospetta, sperando di non aver svegliato nessuno. L’unica forma di vita ad aver risposto è stata Vito, il cagnolone del quartiere. Mi ha fissata, un po’ contrariato, e poi è tornato a dormire. Beato lui.

Subito dopo ho riportato la mia attenzione sull’aeroplanino. E sulla finestra aperta del musicista. Di nuovo, sull’aeroplanino. Sulla finestra. Aeroplanino. Finestra. A. F. A. F. A. F.

Oh, al diavolo. Ho aperto il foglio, sul quale c’era il disegno di un piano e un nome. Una scrittura piuttosto minuscola ma che sono riuscita a decifrare.

Miguel.

Eddai, ci mancava pure fosse straniero.

Tutto sta andando proprio come fucking dovrebbe, vero?

Solo Guido sa

Guido

Sono giorni che scrivo tanto. Pezzi, post social, mail, messaggi, liste della spesa. Ho addirittura creato un profilo Instagram di quel demone di Jack, il mio gatto. Stando tutto il santo giorno in casa ho tempo per riflettere, sclerare, ascoltare musica, isolarmi anche nell’isolamento generale e tante altre cose che non sto neanche a elencare. Stamattina scorrevo Instagram (dal mio profilo, eh) e mi sono imbattuta in una delle stories di Guido. “Ma Guido chi?”, mi dirai tu. “Guido”, ti rispondo io. Insomma, stai buono e ascolta lo sproloquio. La storia di Guido era una di quelle della serie “on a scale of *nome personaggio* how do you feel today?” Allora ti starai chiedendo chi fosse questo personaggio. 

Giuseppe Conte? 

Mulan?

Jack Nicholson? 

Michelle Hunziker? 

Elena Ferrante?

No, nessuno tra questi. Vabbè, fai pena a indovinare. Era Elettra Lamborghini. Ora, non è un mistero che io adori la nipotina prodigio di Ferruccio. Non per le sue abilità canore, per carità. Più che altro per quella leggerezza che è alla base della sua vita. “E certo,” mi dirai, “è una Lamborghini. Figurati se fa la pesante.”

Invece io ti dico che quella di essere spontanei, leggeri, luminosi, è una dote naturale. O ce l’hai, o non ce l’hai. E quindi ho scelto la mia *Elettra of the day*, mi sono fatta una sonora risata e poi ho chiacchierato con Guido. Calcola che in questo periodo sto ricevendo messaggi da persone che mai avrei pensato di risentire e quindi fammi parlare con lui perché, anche se non abbiamo tantissima confidenza, mi piace l’energia che sprigiona. 

Le giornate non sono proprio leggerissime in questo periodo. Insomma, cosa vuoi che ti dica? Al fianco di Conte io ci metterei Elettra. Ma se proprio non ti va a genio la regina del twerking mandiamoci Guido e non se ne parli più. 

Il set ai tempi del distanziamento sociale

distanziamento sociale

Videochiamare le modelle per fotografare la schermata della videochiamata. Tipo scimmia in astinenza da set. Non mi viene in mente altro termine. Oppure genialata artistica in pieno distanziamento sociale. Poi mi chiedo, ma c’è differenza?

Il passo è breve dagli assorbenti della sconosciuta artista anni ’90 alla banana di Cattelan. Ça va.

Dicevo.

Scorro i feed di instagram della nostra pagina @casadiringhiera e mi imbatto in queste foto che, insomma come dire, non è che siano belle nel significato originario del termine; ma quello che mi cattura è qualcos’altro, qualcosa che in questi giorni è un po’ ovunque. Dalle stories alla tv alla vita vera. La gente blindata dentro/dietro agli schermi, con la pitonata che fa la camera quando cerca di grabbare un frame dal monitor. (Pitonata: il refresh dei field). Distanziamento sociale a 75 hz.

Allora dicevo, scusate mi perdo continuamente, scorro i feed e mi imbatto in queste: 

Fighe no?

Loro le modelle, dico. Loro sono sempre fighe. 

La foto è uno screenshot da computer oppure è una foto dello schermo fatta al momento; è comunque in ogni caso lo spazio che ci separa, in questo tempo. Il recinto che c’è in mezzo. Tu lì, io qui. C’è uno iato nel mezzo. 

A volte si instaura un rapporto tra l’oggetto fotografato e il soggetto fotografante (e viceversa soggetto fotografato e oggetto fotografante). Si dialoga. Si vive il momento dello shooting. È un’astrazione ma anche un fatto vero. È quel momento. 

Quindi quello che si vuole ricreare forse, più della foto finita, è il momento del set. Quando sai che tutti, su quel set, stanno lavorando alla riuscita di un’idea. Tutti. Forse si vuole ricreare un memoriale, si ricreano dei keyframes, per i tempi migliori. Forse è solo un tenersi in allenamento, come quelli che fanno pilates in soggiorno e poi postano le stories del loro workout (si dice così?). 

O forse è solo un’operazione di comunicazione. Il fotografo ai tempi del Covid-19. Instagram ai tempi del Covid-19. L’arte ai tempi del Covid-19. I rapporti ai tempi del Covid-19.

Forse non eravamo messi così male se i rapporti ci mancano così tanto. No?

Comunque a me sta cosa di fotografare lo schermo facendo finta che sia un set, be’, non mi dispiace affatto. Anzi. La trovo un’idea fighissima. (Qualcuno che vuole scattare?)

Certo è che non tutti sono Alessio Albi o Martina Matencio. E non tutti hanno così tante amiche modelle con cui cazzeggiare su Discord, Skype e Facetime.