Latest Posts

I piedi a terra

piedi per terra

Le parole, tutte, mi sembrano irrispettose.

Il Dolore non si descrive, non si canta, non si analizza. Il Dolore non ci appartiene, se non di riflesso. E il riflesso non è il Dolore, che è intimo, solitario, di chi ci affoga dentro.

Ed è per questo che chiedo scusa se ancora scrivo, al sicuro, sotto il mio caldo plaid, lontano da tutto.

Ma le parole, le parole scritte sono quello che ancora mi tiene inchiodata alla terra.

Dalle mie parti si dice che chi sta per andarsene, dal letto di morte, cerca disperatamente di poggiare di nuovo i piedi a terra, letteralmente intendo. Cerca, con quel gesto, di salutare per sempre la vita. Un ultimo contatto. L’addio.

Le parole scritte mi tengono ben salda, non oso sollevarli i piedi. Resto in piedi non per un addio, ma per non pensare nemmeno di poterlo dare. Se scrivo non è per cantare o per fare poesia, non è per la noia dei pomeriggi troppo lunghi o per cinica empatia. 

Scrivo per me, per restare ancora qui. Se alzo i piedi sono perduta.

I piedi a terra – Simona Visciglia

Tra altri danzatori

danzatori

Puoi riconoscere un danzatore dal modo in cui si muove, dal modo in cui i suoi muscoli si contraggono e le sue mani canalizzano l’energia e la esternano. I danzatori hanno un’espressione che volteggia tra gli occhi e la bocca, mai stanca, mai cristallizzata in una muta maschera di terracotta.

Tu, forse non mi vedrai mai sotto le luci teatrali. Non mi assaporerai nel mettere in scena la verità su di me sotto la maschera da interprete. Non mi riconoscerai tra altri danzatori.

Potrai solo continuare a riconoscermi tra la folla, per il mio sguardo, il mio sorriso, il modo in cui i miei capelli vengono travolti dal vento della metropolitana o dal vento freddo di Dublino. Certo, potremo ballare insieme in mezzo a un prato, su una spiaggia, sotto la pioggia, il sole, l’arcobaleno.

Certo, ora non mi resta che ballare nei pochi metri quadri della mia stanza, ad occhi chiusi, tra cornici sparse per terra senza chiodi a cui appenderle, senza persone che trovino in esse un proprio passato, un futuro non vissuto o ipotetico. Danzo nel mio presente, eppure ancora penso che non mi vedrai danzare né mi riconoscerai tra altri danzatori.

I danzatori, ovunque essi si trovino, continuano a danzare e non smettono nemmeno in questi giorni fuori tempo, perché la necessità di esprimersi e vibrare nell’aria non muore neanche quando lo spazio attorno si fa sempre più stretto. Così anche io inizio la mia danza a ritmo del tempo che passa, lento e veloce senza mai fermarsi. Respiro e mi ascolto, sospiro e ti parlo:

“Glimpses

Floating.

Hands

Reaching out

Hopes and

Love

Suggested by

The rhythm of a heart,

The roots

Of a complementary

Soul.

You can know

The dancer

From the dance.”

La diga di Selene

diga

“Usa questa quarantena per trovare il tuo blocco.”

Ma grazie dottoressa! 

Come se bastasse una clausura per abbattere la diga.

Ciao sono Selene e ho una diga emotiva.

Immaginate un enorme bacino che raccoglie tutte le emozioni esagerate che altrimenti vi trascinerebbero come una cascata; il mio cervello convoglia tutto lì e io posso vivere una vita equilibrata e serena.

Troppo doloroso: fa nulla, ho la diga.

Questo è troppo intenso: mi spiace ho la diga.

Morte di un padre: è filtrata con la diga.

Incidente in statale: non lo ricordo più, ho la diga.

Madre bipolare: c’è la diga, ora no, ora sì, ora no, ora sì.

Sembra un superpotere sapersi proteggere dagli eccessi emozionali.

Soprattutto quando sei protetto da shock tremendi come questi.

La diga mi protegge, mi tiene al sicuro.

Il cinque marzo mi sono laureata; 103/110 è un ottimo voto per chi credeva tutto perduto.

Iniziavano i primi segni di chiusura per il virus. Non c’erano amici o parenti in abbondanza ma c’era la mamma, l’amore, e uno zio.

Un traguardo meraviglioso per chiunque, eppure io non me ne sono accorta.

Da qui non passa nulla, neppure una misera goccia emotiva.

La muraglia che mi ha protetta per una vita non fa distinzioni tra auto ribaltate e corone d’alloro.

Allora corri dalla psicoterapeuta a lamentarti della diga che non ti piace più.

Quando il filtro rallenta le emozioni da ricordare e custodire, non ha più senso tenerlo.

Ma ormai il bacino è colmo e distruggerla provocherebbe una cascata di ricordi, di draghi nascosti sotto la tappezzeria, di padri mai lasciati andare, di amori creduti e mai vissuti, di scrigni seppelliti dove nessuno mai avrebbe cercato.

Selene, compra un martello e inizia a scolpire la prima crepa. 

Poi compra una pagaia e muoviti tra le rapide e scendi a valle insieme a tuo padre, a tua madre, alla Panda distrutta, alla tua corona d’alloro e a tutto ciò che ti sei persa guardando la tua vita da una quarantena immaginaria.

di Sabrina Tasso

Smart-working

smart-working

In pratica la farsa dello smart working è andata così, che se n’è parlato e se n’è parlato e se n’è parlato e quando il mood degli italiani è passato, in una notte, da #milanononsiferma alle leggi fascistissime, anche da noi si è detto e smart working sia. 

Tuttavia, per chi lavora in azienda, tutto il giorno al pc su internet, non è scontato avere pc e fibra anche a casa. Tra l’altro se sei disposto a farti carico dei costi della fibra in vista dell’emergenza, non è che te la installano alla velocità in cui il governo fa una query sul sentiment su Facebook.

Così, chi non è attrezzato per lavorare a casa si reca in ufficio. Compresa io.

A casa ho la connessione, un mac e pure la stampante. Ma sono la mamma single di due figli alle superiori, e ancora non realizzo che la presunta scuola digitale è in realtà molto analogica. Ancora immagino che a un certo punto qualcuno avvierà le millantate videolezioni (invece arriveranno circa un mese dopo seguite a ruota dalle dichiarazioni sindacali congiunte con le rivendicazioni dei docenti barbaramente costretti a farsi un account su Google).

Comunque, illusa e felice, per il bene della mia famiglia, rinuncio allo smart working e ai primi di marzo vado ancora in ufficio.

Dove tuttavia io e i colleghi veniamo di nuovo invitati a tornarcene a casa. Anche barcamenandoci con l’hotspot del cellulare, se necessario.

Ribadisco che ho un solo pc e due figli, e che l’unico modo per garantire la continuità lavorativa è restare lì. 

Intanto l’ufficio si svuota. Se ne vanno tutti, e anche di corsa. 

Penso ai miei figli da due settimane completamente soli a casa.

Rimango l’unica persona della stanza. Mi aspetto che qualcuno mi offra un computer aziendale, che un tecnico proponga una soluzione. Ma scappano anche i tecnici, non so se ricordate le scene dei colletti bianchi con gli scatoloni il giorno che la Lehman Brothers dichiarò fallimento. 

Alla fine l’ultimo rimasto entra nella stanza e ci sono solo io: lo fisso con il volto rigato di lacrime. Mi dice “l’ufficio resta aperto per te, ecco le chiavi”.

Per fortuna le video-lezioni sono veramente sporadiche e ora sto a casa anche io, almeno non rischio il linciaggio per strada.

Anonimo

Atto d’artista ai tempi del Covid-19

atto

Riportiamo le parole di Matteo Piacenti, il giovane fotografo romano autore di Atto d’artista ai tempi del Covid-19, un progetto che ha subito catturato la nostra attenzione per la grande sensibilità che mostra:

In questo periodo storico in cui il Covid-19 ha immobilizzato il nostro paese, è compito anche degli artisti di contribuire a rianimare la società. Nel nostro caso quello che è considerato fin da tempi passati il più strabiliante museo a cielo aperto, che è l’Italia tutta. Ed è quello che ho cercato di fare con Atto d’artista ai tempi del Covid-19.

Ho scritto umilmente due pensieri: uno pre e l’altro post epidemia su semplici fogli di carta assemblati a modo di fascicolo.

L’arte può essere una risorsa fondamentale anche quando l’economia subisce un calo come quello a cui stiamo assistendo. Soprattutto quando l’arte va in secondo piano per ovvie emergenze come la pandemia che in questo periodo ha invaso la nostra penisola. 
Spero che questo mio intervento sia di gradimento, perché sapere di fare del bene è qualcosa di inscrivibile.

Matteo Piacenti

Casino

casino

Casino può essere una piccola casa di campagna, come la capanna dello zio Tom. Un archetipo interessante che simboleggia tutto quello che sta dentro alla parola inglese home. Gli affetti, la sensazione di tenerezza tra le coperte di casa tua, il divano di velluto che ti abbraccia nelle sere più fredde mentre leggi un libro avvincente e di tanto in tanto ti affacci da quella finestra sul versante est – la stessa dalla quale hai fotografato mille e mille albe – a guardare le stelle. D’inverno da lì risplende sempre la costellazione di Orione e col tempo ho imparato anche a riconoscerne le più intime componenti: Bellatrix, la donna guerriera, Rigel (β Orionis) la più luminosa, Betelgeuse che forse a breve esploderà, passando a vita nuova, diventando una bella supernova.

Tuttavia, quello che intendo per casino adesso, quello che davvero intendo con questo termine è semplicemente quello che tutti pensano quando lo leggono: un gran caos, un assordante rumore che infastidisce i nostri pensieri. Casino è una parola della quale ho deciso di abusare nella mia vita, tutto è nato nel lontano 1996/97 circa. Facevo le elementari, tempo pieno, era un pomeriggio di inizio anno, credo, e c’era matematica. Direste: odiavi la matematica. No, in realtà la amavo prima dello studio di funzione e degli integrali. Quel pomeriggio in classe c’era un gran chiasso, un ciarlare fastidioso e io non riuscivo a fare bene quello che dovevo fare. Allora dissi che c’era casino. La maestra convocò mia mamma a scuola il giorno dopo perché io avevo detto questa magica parolina. Cara maestra: CASINO345.

Cara maestra, tutto il mondo è un gran casino, l’universo è un adorabile casino con la sua entropia di fondo. E allora si, c’era casino anche quel giorno.

Oggi invece, maestra, le strade sono vuote e il casino non c’è più. Non ci sono code di macchine che suonano i clacson e inquinano l’ambiente, i semafori funzionano in silenzio e per quasi nessuno. Le campane suonano ancora, ma chi le sente? I bambini giocano a casa, gli adulti tra le lenzuola, i bevitori sorseggiano nella desolazione delle loro vite dolci whiskey americani. E tu, maestra, cosa fai? La didattica online? Forse, ora, c’è casino anche nella tua vita.

Io spero che torni il casino, benché preferisca il silenzio; se ci pensate, è la vita. Sono le feste, le canzoni con cantanti veri su palchi enormi, è il saltare al ritmo delle musiche che più ci piacciono, è guardare il mare dagli ampi vetri di Intercity più o meno veloci. Mi mancano il mare e la montagna, perché per un abruzzese sono fondamentali entrambi. Mi manca il composto casino delle file per il Duomo di Firenze, e anche di quelle turistiche ai check-in degli aeroporti. Il caos delle librerie, che non è mai inteso come rumore, ma confusione di pensieri, perché non sai mai in fondo quale libro prendere, che scegliendo uno escludi altri cento. Io credo che il casino tornerà, che non dobbiamo disperare per questo, dobbiamo solamente aspettare. Aspettare e resistere.

L’apocalisse zombie

apocalisse zombie

Ieri ho sbroccato, proprio io che avevo detto a tutti che senza impegni e senza scarpe stavo da dio.

Il fatto è che sono uscita, sono andata al supermercato a fare la spesa. Se mi capita di stare un po’ fuori dal mondo fatico sempre molto a riadattarmi, mi capitava anche quando facevo le ferie a casa a BucoDelCulo.

A sto giro però è peggio, perché fuori c’è l’apocalisse zombie.

Cioè, era da un po’ che non uscivo, non sapevo che avevano tutti la mascherina, ero rimasta al terzultimo decreto dell’altro ieri, quello che diceva di non mettere assolutamente la mascherina.

Una cosa che mi manda fuori di testa è essere irregimentata, ho provato a lavorarci ma senza successo; il fatto che molti ci riescano mi fa sentire inadatta e arrabbiata.

Ho sempre pensato che fosse per via del fatto che sin da bambina mi sono sempre badata da sola, nessuno mi ha mai detto fai questo o fai quello.

Se poi l’obbligo è un dress code o un accessorio, io impazzisco, anche se è carnevale. Non vi dico le scenate quando mia madre mi doveva comprare il grembiule di scuola.

Ci ho provato con buona volontà, mi sono messa in fila, ho messo le cuffiette e mi sono concentrata su un podcast dei Minimalists che spiegava che la felicità è un ben triste obiettivo quando puoi aspirare all’integrità, alla cooperazione.

A un certo punto mi sono imbambolata per qualche secondo e dieci metri indietro una tipa ha cominciato a sbraitare

“Ehi, ti muovi, eh eh eh?”, e lì non ce l’ho fatta e ho sbottato: “è già tutto abbastanza difficile senza che ti ci metti anche tu a rompermi il cazzo”.

Ero nel panico, mi sembrava di essere in un film storico ambientato in sud America ai tempi di un regime militare – so che il paragone è forzato, ma che vi devo dire, mi fanno paura le persone così bardate.

Cinque minuti dopo sarei entrata al super e una commessa piantonata all’ingresso con piglio militaresco mi avrebbe invitato a tirarmi su il cappuccio del giubbotto (?), a indossare i guanti dell’ortofrutta, e avrebbe urlato come un’ossessa “non assembratevi”.

Per dire.

Il punto è che la tipa era tipo a venti metri da me così ho dovuto urlare: “Non rompermi il cazzo”.

È successa una cosa strana. Credevo che mi avrebbe risposto urlando. Che qualcuno avrebbe detto qualcosa, magari di calmarmi.

E invece sono rimasti tutti muti sotto alle loro mascherine.

Credo che abbiano capito come mi sentivo.

Credo che sotto a quelle mascherine ci fossero degli esseri umani tristi, confusi e impauriti come me.

A sto giro però è peggio, perché fuori c’è l’apocalisse zombie.

Valentina Santandrea

Venti metri

venti metri

Mi sono guardata allo specchio stamattina. Mamma, avrei voluto non farlo. Ma vi pare normale che la reclusione mi tiri fuori le occhiaie? Non che debba andare chissà dove. Non che debba fare chissà quanti metri.

Beh, a dirla tutta, oggi avrei una specie di appuntamento. Quindi, correttore. Com’è che si metteva? Ah sì, con l’anulare. Incredibile, non mi trucco da due settimane e sono già diventata impacciata come un pinguino sui tacchi. Che dite, lo metto il rossetto? Non vorrei dare l’impressione di quella che sta cercando di accalappiare. D’altronde chi è che si mette il rossetto in casa se nessuno può levarglielo?

Tutto questo perché la prima volta che l’ho visto (e che mi ha vista) non ero proprio un angelo di Victoria’s Secret. Il fatto è che non pensi a levarti di dosso il grembiule sporco di farina e le ciabatte coi ponpon se all’improvviso senti un pianoforte suonare. Da queste parti, non si sente più nemmeno la risata di una persona, figurarsi il suono di un pianoforte. Capite?

Ed eccolo lassù. Il più bel pezzo d’uomo che i miei occhi avevano mai visto. E com’è possibile? Vivo in questo quartiere da anni e non l’ho mai incrociato. Mai visto. È proprio vero che, a volte, servono le disgrazie per farci aprire gli occhi. Fatto sta che quel pomeriggio di tre giorni fa mi sono resa conto della fortuna che avevo: sì, ero sola, la famiglia lontana, nessun fidanzato da sopportare, l’astinenza una brutta cosa e stavo pericolosamente lievitando di peso come i miei croissant in fase di crescita da esattamente tre giorni, ma! C’è un ma. Guardiamo il lato positivo: c’era il sole, avevo un piccolo balcone dal quale potevo respirare e poi c’era lui.

Che non avevo la più pallida idea di come si chiamasse. Ed era una cosa terribilmente romantica.

Mi sento molto Fermina di “El amor en los tiempos del colera”. Anche se spero vivamente di non dover attendere cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni per poter conoscere il mio Fiorentino Ariza. Vedete, penso che nelle storie tormentate ci sia un motivo comune che spinge all’empatia e questo qualcosa è la determinazione. Determinazione dei sentimenti, delle azioni, della speranza a sopravvivere. Alcuni giorni mi sembra di non averne più nemmeno una goccia. Altri, provo a grattare il fondo del vaso, alla ricerca di un briciolo di spirito positivo. E vi dirò: se scavo bene, lo trovo sempre. Certo, mi basta per un giorno o poco più. Ma ognuno si arrangia alla sua maniera.

E comunque dicevo. Quel pomeriggio sono uscita sul mio balconcino e nella commovente luce ambrata del tramonto, l’ho visto. Era all’ultimo piano del palazzo di fronte al mio, perfetto come solo può essere un quadro in lontananza. E stava suonando una melodia sconosciuta, qualcosa di dolce, di vagamente familiare. Così, in un istante, la vita ha fatto ritorno in quel nostro angolo di città. Oh, se era perfetto! Muoveva la testa di lato, una specie di tic, a ritmo di musica, e i sui riccioli neri gli ballonzolavano in testa. Avrei potuto scommettere sui suoi occhi scuri ma ero troppo lontana da lui per cogliere quelle finezze.

Quando ha finito, si è voltato verso di me e mi ha catturata. In quel momento, mi sono convinta che lui avesse suonato solo per me. Io sono sicura di essere arrossita. Così, non so perché, per cavarmi dall’imbarazzo (ma quale imbarazzo, poi? A venti metri di distanza?) ho sollevato la mia mano sporca di farina e l’ho salutato. Che idiota. Non che a trent’anni mi senta un genio, per l’amor di Dio, ma lo sguardo di quello sconosciuto rivolto proprio verso di me, di me, ragazza solitaria e un po’ asociale, mi ha lasciata un po’…così. Che avrei dovuto fare? Girare i tacchi (scusate, le ciabatte coi ponpon) e ignorarlo? O non fare niente? Non faccio nulla da giorni, sapete, un po’ di calore umano può fare miracoli.

Così, da quel pomeriggio, ho deciso di rendermi presentabile. Dite che a venti metri di distanza non si nota la differenza? Vabbé, allora lo faccio per dare una scossa alla mia autostima.

Spero che oggi suoni di nuovo. Lo fa tutti i pomeriggi, verso le sei, però non si può mai sapere. Magari ha ospiti a casa. Ah, no. Scusate. Niente ospiti. Beh, però magari è sposato (fragore del mio cuore che si spacca in mille pezzi). O magari ha mal di pancia e ha bisogno, proprio alle sei di pomeriggio, di fare alcuni metri per stare un po’ di tempo sul water. Oh, dai! Non fate gli schizzinosi. Anche voi ci andate, specie dopo tutte le pizze, le torte, le carbonare e le parmigiane challenge a cui state partecipando.

E poi stavo pensando. Come faccio ad avvicinarmi a lui? Sì, a conoscerlo. Qualche settimana fa avrei suonato al suo campanello (ok, non è vero, non ho questo coraggio) o l’avrei incrociato per strada. Avrei potuto chiedere ai miei vicini di fare un po’ da spie. Ma adesso non possiamo uscire di casa. E il suo balcone a venti metri da me mi sembra così lontano che ho paura persino di gridargli qualcosa. Non voglio che pensi che l’isolamento abbia compromesso la mia sanità mentale.

Ho fatto qualche ricerca sul pc, per capire se riuscivo a capire chi fosse ma nulla. Sembra essere come le apparizioni della Madonna di Medjugorie. Ci credi solo se assisti. E guadate un po’, io ho assistito.

Ed eccoci che sono quasi le sei. Di nuovo .Spero che suoni qualcosa di allegro. Ce n’è bisogno da queste parti.

Un ultimo sguardo allo specchio. Dopo settimane, mi sento di nuovo bella. Mi pare quasi di dover aprire un sipario e calcare un palco.

Per ringraziarlo della sua musica, potrei regalargli un croissant o due.

Certo, dovrò capire come fare.

Nel frattempo silenzio.

È il momento della poesia.

Il basco

Il basco

C’è un vecchio basco nero appeso a fianco della porta di casa mia.
Il mio vecchio basco nero.
È lì, fermo. Immobile.
Dimenticato.
E quasi mi dispiace.
Certo, è un oggetto. Senza sentimenti né vita. Ma forse indossandolo era come se gliene dessi una.

Prima del grande blocco questa casa, e tutto ciò che c’è dentro, era come una grande cornice. Ricca, varia, ma pur sempre una cornice. Perché la vita era fuori, la vita erano i mezzi pubblici stracolmi, i piccioni in piazza Duomo, la cioccolata da Pascucci.
E ora la vita non c’è più. L’hanno rapita, l’hanno portata via da me!

È davvero così?
In questi giorni ho imparato che no, non è davvero così.
La materia non si crea né si distrugge, ma la vita sì.
È primavera, e la natura fa il suo corso, come noi dovremmo fare il nostro.
È dando la vita che la si crea; attraverso la dedizione e l’amore la si può imprimere dappertutto, come l’impronta di una scarpa nel cemento fresco.
In questo modo una casa inanimata può diventare viva, fervida, dinamica.

E l’arte. Non serve forse a questo l’arte?
Che la si crei o la si contempli, la finestra dell’arte fa entrare più luce di alcuni infissi da fabbrica.
Ci sono dei fiori che riescono a farsi spazio anche attraverso strati di asfalto, pur di farsi baciare dalla luce.
Ed è una luce più pura e più calda, questa; di quelle che se ti accarezzano la guancia è come se ti donassero serenità. Una serenità profonda, una serenità vera, impregnata di gioia come di dolore.

Non danno, forse, le mani di mio padre, vigore alla terra che coltiva?
Nonostante si trovino in dei vasi stretti e a tratti soffocanti, respirando aria di periferia cittadina e non certo di campagna, nonostante siano limitati, quasi intrappolati, i semi germogliano.
E crescono. E danno frutto, e danno vita.

Il mio basco non è più appeso vicino alla porta.
L’ho indossato. E ho scattato una fotografia.
Forse l’ho fatto solo per simpatia, ma ora mi sembra più… vivo.

RATARATÀ!

RATARATA!

!Orsù dunque, è ora di cambiare!

Cambiare parole ed espressioni che, da diciannovegiornitonditondi, ci mettono angoscia, ci rubano il sonno, fanno tremare polsi e gambe, rivoltano l’intestino e da svegli procurano fastidiosissime e interminabili tachicardie.

Parole scivolate nelle nostre orecchie come stille velenose. Parole angoscianti che ascoltiamo dai telegiornali, le ripetono gli esperti, le pronunciano i cantanti e gli attori, e poi ballerini, scrittori, avvocati, parrucchieri, medici, operai… insomma, tutti a dire le stesse cose come se il nostro vocabolario fosse di colpo regredito.

Non suggerisco di abolirle del tutto, la lingua italiana è una grande signora e va rispettata, ma di cambiarle momentaneamente per chi, da diciannovegiornitonditondi, vive nella terra di mezzo.
Il prima è già storia, il dopo è tutto da reinventare.

Quello che vengo qui a suggerire è la creazione di un dizionario provvisorio.
Sostituire, per esempio, la parola quarantena con una che abbia un bel sorriso tra le vocali e le consonati, che ispiri fiducia e dia pure un poco di allegria. Luce e leggerezza.

Che ne so… dire rataratà per indicare quarantena.

Come va oggi la tua rataratà?
Bene, grazie, le solite cose. E tu?

Non siamo in guerra ma in un clapclap.
E domani?
Flapflap, farò una torta.

O cose del genere.

Il mondo che ci aspetta?
Sarà kaboom!

E giù a ridere, ridere, ridere per sbeffeggiare la paura e tutto il resto. Tutto il resto.

Rataratà! E parte una risata colossale.

RATARATÀ! – interpretato da Antonella Esposito