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La mattina è un ritaglio di cielo azzurro

mattina

 

Il momento della giornata che preferisco è la mattina. Non lo era, fino a qualche settimana fa, quando la passavo a dormire per isolarmi dal caos esterno, dalle scadenze impellenti auto-inflittemi e dagli impegni incollati a una sedia.

Ora la mattina è un ritaglio di cielo, un ritaglio di tempo per assaporare il mondo fuori casa, incorniciato dai muri di casa. Dal balcone della camera dei mie genitori, la luce del sole dora le pareti gialle, l’aria fresca è brezza, entra il suono degli uccellini risvegliatisi dal torpore invernale. Mai come quest’anno, la primavera è un inno alla vita, quella vita che tanto è cambiata e per certi versi migliorata. Riesco a gustare l’istante lento di ogni secondo, come i raggi caldi che mi accarezzano profumati mentre sono sdraiata sulle piastrelle lignee della stanza.

Mi sento come la bionda Melisande di Debussy, fuggita da un paese lontano e dimentica del suo passato. L’unica delle vecchie abitudine rimaste è la musica. Non mancano i Tame Impala a farmi da colonna sonora nella testa, ora con un tocco di calore e colore in più, datogli dal giradischi regalatomi da J. per il compleanno.

L’odore del bucato pizzica l’aria. Ci sono pochi indumenti stesi al filo lungo la parete grezza del balcone. Senza accorgercene siamo passati dai maglioni a collo alto alla freschezza delle maglie a mezza manica. Ci siamo chiusi in casa da un po’ ma la natura ha continuato a fare il suo corso. È tempo di scoprire le braccia e il collo, di mostrare il pallore e la fragilità della pelle.

C’è profumo di fiori nell’aria. Ricordo che in questi giorni in Giappone le persone si dedicano alla contemplazione dei ciliegi, l’hanami: la bellezza che genera un rito collettivo, una gioia millenaria che innesca pace.

Penso alla quiete di una mattina di mezza estate, a data da destinarsi o da eliminarsi come ogni evento, progetto, incontro. Quel momento in cui io e J. saremo di nuovo insieme e mi stringerà forte forte, facendomi apprezzare la semplicità di un tocco e il brivido di un respiro che corre lieve. Non ho mai dato per scontato tutto ciò, sono sempre stata nostalgica ed edonista. Ho sempre sofferto di solitudine ma ora sento tutti più vicino che mai. Eccomi qui, a godere del profumo della quotidianità, stando dietro al segreto insito nella vita con curiosità.

Il cielo è così azzurro che tutto diventa azzurro. La mattina è il mio momento preferito. Oggi, perché del domani non si sa nulla.

Hope. Speranza.

Hope. Speranza.

Poi l’alba. Ancora.
I pianti. Ancora.
Trattenuti. Esplosi. Trattenuti.
La rabbia. Ovunque.
L’incertezza più di ogni altra cosa. La vedi.
Riesci a vederla?

Giorni che
Saranno come le finestre aperte chiuse aperte di fronte.
La musica. Anche. Di fronte. Come la vita che passa, di fronte.
Ma anche quei pianti purtroppo, che intendo.

Saranno come la notte a fumare da soli guardando le stelle che non si vedono in città le stelle. Ma qui dove sto io in questo angolo di città è pieno di stelle. Le puoi toccare le stelle se chiudi gli occhi, dappertutto certo. Puoi farlo.

E poi dopo
Saranno come fuochi d’artificio.
Belli come non se ne vedevano da tempo.
Ma Saranno anche questo singhiozzare che resta.
Questa tristezza, che resta.
E il silenzio. Che resta.
Lo senti? È ovunque.

Ma infine
saranno come la vita che torna. Diversa, ma torna. Torna sempre la vita.
Lo sai, no?

Si chiama Speranza.

(E no, non è il Ministro).

And then the dawn. Again.
The crying. Again.
Withheld. Exploded. Withheld.
Rage. Everywhere.
Uncertainly, more than anything else.

You see it.

Can you see it?

Days
that will be as the windows, open and closed windows. In front of your house.
There will be even music, in front of.
Such life go by. In front of.
But also the crying. Alas, I mean.

That will be like night wherein smoking, alone. Looking the stars. You can’t see no stars in the city.
But from my garden i can see them, mercifully.
You can touch the stars, if you close your eyes. You can touch those all over the place. Because the night is full of stars. Always. Everywhere.

And then
that will be like fireworks, unlike anything we’ve seen.
But they will also be this sobbing, that remains.
This sadness, that remains.
The silence. Remains.
But at the end
that will be as life that returns. Different, but it returns.
It always comes back.
You know. Do you?

It is called Hope.

(And no, it’s not the Italian Minister of Health. This last line is just an Italian pun. His name is precisely Speranza).

Per me eri Silent Hill

silent hill

Stamattina come ogni giorno dopo colazione ho guardato fuori dalla finestra, era una bella giornata. Di fronte casa mia c’è un piccolo parco, di solito la mattina c’è sempre gente che porta il cane a spasso o i bambini a giocare.

Ci sono uno scivolo e un’altalena cigolante. A volte durante il pomeriggio mi viene voglia di scendere di casa brandendo lo Svitol come se fosse la spada di un cavaliere, mettendo tutti in salvo dal rumore molesto. Sono giorni però che sia lo scivolo che l’altalena sono avvolti, abbracciati oserei dire, da un nastro bianco e rosso.

Durante le serate sono stata sempre affacciata a questa finestra, davanti a questo parco, come se fosse il mio schermo sul mondo. A volte di notte, quando cala la nebbia, penso sempre che somigli a Silent Hill. E dopo racconto di quella volta che, dopo aver guardato la prima mezz’ora di quel film, avevo chiuso la finestra di Windows Media Player e mi ero chiesta perché stessi continuando a guardare questa tizia che correva nella nebbia per così troppo tempo.

Negli ultimi sette mesi ho imparato a riconoscere i personaggi che popolano il parco. Il ragazzo sui trent’anni col beagle, i tre gatti dei vicini, il musulmano che prega a mezzogiorno esatto, gli sbandieratori che si allenano per il Palio del Niballo, i ragazzetti sotto l’arco che di sabato pomeriggio ascoltano la trap, gli scout della domenica mattina. E poi tanti altri che al momento proprio non riesco a ricordare. Chissà quando riusciranno a tornare qui, di fronte a me.

Vorrei dirgli che mi mancano, ma poi mi sentirei veramente stupida. C’è silenzio nelle ultime settimane, non fosse per gli uccellini che cantano senza sosta. Come se volessero riempire un vuoto, come se volessero dirmi che in realtà più che di silenzio, si tratta solo di un rumore diverso. L’unico che al momento è permesso.

Libertà

libertà

Libertà è la terza parte di “When in Sardinia”, progetto letterario e fotografico di Ilaria Sponda che riflette l’idea di libertà in immagini contrastanti come la fragilità dell’essere umano di fronte all’immensità del mare.

 

Libertà:

Una parola di cemento

Guscio dell’immensità del vivere.

Le barche 

Solcano acque di spuma e di carta, 

Le vele bianche 

Sono fragili contro il vento.

Qui vi è un cuore senza fili 

Fatto di nuvole e cielo,

Di granelli di sabbia.

 

Ilaria Sponda

Black Mirror: Bandersnatch. Quando giocare a fare Dio è un “trip” che non appaga

[una disguida non convenzionale sull’esperimento interattivo Netflix: dal teorema dell’insoddisfazione al fatalismo 3.0]

di Disguido Luciani

 

– Facciamo che io sono Dio e tu fai tutto quello che dico io?
– Ma tutto tutto?

– Sì, proprio tutto.

Black Mirror: Bandersnatch, l’ultimo esperimento della serie TV britannica targata Netflix, segue lo schema del gioco più vecchio del mondo: uno fa Dio (di solito chi, già da piccolo, palesava accenni di delirio d’onnipotenza o mania del controllo), l’altro la “sua creatura”. Uno il padrone, l’altro il servo; uno il burattinaio, il “puparo”, l’altro il burattino. Il pupo. O, più romanticamente, uno il narratore, l’altro il personaggio.

Semplice, no? Già allora, però, se ben ricordate, il gioco non finiva sempre poi così bene. Anzi, diciamo pure che non finiva mai bene. 

Il pupo, ad un certo punto (di solito alla prima richiesta “eccessiva”), stanco, si lamentava smettendo di eseguire i comandi. Peggio, si ribellava. E magari iniziava a protestare pretendendo di fare lui Dio.

Certe volte, poi, era Dio che si stancava. Ché fare Dio è una bella responsabilità, ‘na bella rottura. Bisogna essere portati, dicono. Non sai mai cosa può fare il pupo e cosa no. Ché il gioco è bello quando dura poco. Dicono anche questo. 

E, messo da parte quel gradevole, ludico, insito sadismo, finiva sempre che t’impietosivi. E così il gioco finiva. Soddisfazione ricevuta: poca; appagamento ottenuto: quasi zero. Punto e a capo: 

– E mo’ a cosa giochiamo?
– Prendiamo le macchinine?

– Sì, dai…

Ecco, Black Mirror: Bandersnatch segue lo stesso schema virtuoso, incappa nello stesso circolo vizioso e giunge allo stesso beffardo capolinea. Come, naturalmente, ben si confà ad una serie TV che ha abituato i suoi spettatori al fatto che raramente le cose sono in profondità ciò che appaiono. Ricorrendo, naturalmente, ad una buona dose di reale, realissima, indotta inquietudine.

 

Il titolo, Bandersnatch appunto, nasconde una doppia citazione: quella dell’omonima creatura immaginata da Lewis Carroll in Attraverso lo Specchio e quella del videogame dallo stesso titolo, progetto incredibilmente ambizioso che – nella realtà – nel 1984 portò al fallimento la Imagine Software.

Piccole ma decisive varianti al gioco più vecchio del mondo non solo rendono l’esperimento azzeccatissimo, ma anche rivoluzionario. Checché ne dicano i delusi che hanno guardato a Bandersnatch con sufficienza liquidandolo semplicisticamente ad “una delusione”.
(Rolling Stone su tutti: https://www.rollingstone.it/recensioni/come-black-mirror-bandersnatch-una-delusione/).

Le regole di Bandersnatch sono apparentemente chiare: lo spettatore è chiamato ad intervenire scegliendo entro 10 secondi una delle alternative proposte. Se non fa in tempo, poco male, c’è una risposta predefinita. La scelta, naturalmente, cambia il corso degli eventi.

Siamo avvisati: abbiamo il potere e “possiamo” esercitarlo (più che altro dobbiamo, ché il potere sennò si esercita da solo). Da esso derivano conseguenze (chiamiamole pure responsabilità virtuali) che non conosciamo né ci vengono anticipate. 

Ecco che siamo di nuovo bambini, quelli con gli accenni di delirio d’onnipotenza e di manie del controllo.

– Facciamo che io sono Dio e tu fai tutto quello che dico io?
– Ma tutto tutto?
– Sì, proprio tutto.

Siamo i padroni/pupari/narratori. E abbiamo guadagnato una cosa che raramente è destinata allo spettatore TV: il “libero” arbitrio, un click che vale più dello skip in avanti, del tasto chiudi, del binge watching, dello zapping e, per i più vintage di noi, del cambio canale. E, per la gioia della nostra parte sadica, da buoni pupari, abbiamo il nostro pupo da manovrare. 

Ma è qui che casca l’asino. E casca anche la parte sadica. E pure Dio, o chi per lui, casca.

Ci accorgiamo presto di avere le mani legate, confinati tra due alternative (alcune volte anche solo una, che ti viene di urlare alla presa in giro), a scegliere tra due tipi di cereali e poi tra due cassette da mettere nel walkman. 

Forse forse, avranno capito i più svegli, non siamo proprio tutto sto gran Dio. In fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. 

E, diciamocelo, manco col pupo c’è andata poi così bene: il ragazzetto è un nerd visionario, un adolescente non troppo convenzionale, a tratti stramboide: i soliti drammoni alle spalle, colpe che non riesce a perdonarsi, piccole manie, qualche tic e chi più ne ha più ne metta. 

Un po’ troppa roba, forse, per un post-adolescente, ma, in fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. 

Insomma, lo stramboide qualcosa che non va ce l’ha e, oltre al danno la beffa, non sempre esegue gli ordini. Quando ritiene che le tue scelte siano “eccessive”, lesive, il servo si ribella al padrone, il pupo taglia i fili che lo manovrano, il personaggio prende percorsi narrativi inattesi: non sempre è dato a Dio di scegliersi la creatura perfetta. E sai che noia, poi. In fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. 

Drammone dei drammoni: il ragazzetto c’ha sta cosa che gli serpeggia dentro, il fils rouge della trama di Bandersnatch, che molti hanno definito poco avvincente. Sì, c’ha sta cosa, tipo una specie di volontà autolesionista, tipo rabbia repressa, tipo pulsione di morte. Un’incessante quanto fatalistica attrazione verso il fallimento, ecco. 

I più svegli, già dopo i primi minuti di Black Mirror: Bandersnatch, lo hanno capito: se questo è un gioco non si vince. Se noi siamo Dio, oltre a non essere onniscienti (ma questo era prevedibile), forse forse non siamo poi neanche così onnipotenti. E certe cose, seppur inserite in un sistema virtuoso, incappano in un circolo vizioso. Vanno dritte verso un beffardo capolinea. Sì, come una fatalistica attrazione verso il fallimento. Ecco.

Da qui in poi è tutto un dipanarsi d’alternative: i percorsi sono tantissimi, i finali principali 5 (secondo la produzione 12). E naturalmente di scelte (in cui il più delle volte si cede al male minore): ti fanno andare avanti, poi indietro alla scelta precedente, poi ancora avanti. Insomma, una genialata estenuante, volutamente inappagate, disastrosamente fatalistica. Ma, in fondo, lo sappiamo, siamo dentro Black Mirror.

Finché non si arriva al momento in cui tra le possibilità compare anche l’alternativa Netflix in un discorso meta-narrativo (naturalmente non è l’unico: ci sono riferimenti ad altri episodi di Black Mirror) che, di fatto, ti riporta alla realtà squarciando l’illusorio velo che ti aveva incoronato Dio.

Netflix, piattaforma erogatrice dell’episodio che credevi, fino all’attimo prima, di narrare, ma anche entità a te sovra-ordinata che, ad inizio episodio, ti aveva dato il potere (o meglio la sua ebbrezza), il “libero” arbitrio (e le sue conseguenze), è tornata. Solo per ricordarti che ancora una volta hai fatto il suo gioco. E mo’? Sì, sei proprio incastrato in un lungo esperimento in cui sei un Dio già provato da un viaggio di bivi, percorsi a ritroso, ripensamenti e scelte obbligate. Sì, come in una fatalistica attrazione verso il fallimento. 

Tant’è che anche Dio, consapevole ormai dello sgretolarsi del suo potere, si stanca, come ci si stancava da bambini. E si tornava alle macchinine. Ché fare Dio è una bella responsabilità, ‘na bella rottura. Ché il gioco è bello quando dura poco.  

Così l’esperimento, nel frattempo carico di quell’angoscia dispotica tipica di Black Mirror, finisce. Sei stato Dio, poi più nulla. Ma hai partecipato ad un’estenuante genialata in cui sei risultato, manco a dirlo, sconfitto.

E finisce anche il “gioco”. Soddisfazione ricevuta: poca; appagamento ottenuto: quasi zero. Ma, in fondo, lo sapevamo, siamo dentro Black Mirror. Punto e a capo:

– E mo’ a cosa giochiamo?
– Prendiamo le macchinine?
– Sì, dai…

VADO SEMPRE VERSO OVEST – di Michele Marziani

Cara Mimma,
ho letto la tua recensione in forma di lettera del libro Il suono della solitudine.
Non si risponde alle recensioni, ovviamente, ma alle lettere sì.

Così ho deciso di risponderti. Lo faccio da qui, da un’isola sospesa nell’Oceano, da un sobborgo di Dublino che si chiama Sutton. È uno dei miei rifugi, oggi avvolto dall’umidità che sale dal mare e porta con sé pochi voli di gabbiani e un clima che ricorda tante pagine di Joyce. In fondo vivo di questo, da sempre: di mitologie.

Penso al tuo scritto, alla strada in salita e ti svelo quella che per me è diventata una grande verità: nonostante la salita a volte la vetta da scalare non c’è, è solo una nostra idea, e la vita non è altro che un immenso Midwest. Ecco, credo che quando accade, quando si scopre che non c’è alcuna cima da raggiungere, tutto diventi più difficile.

Per questo, nel dubbio, vado sempre verso Ovest. Inseguendo fantasmi e Pellerossa, sognando California e le cupe Alpi piemontesi al posto di quelle del Triveneto, sicuramente più solari, con ogni probabilità anche più vocate all’accoglienza. A me piace che l’accoglienza uno se la debba conquistare, ascoltando, in silenzio, cercando di capire usi e abitudini degli abitanti di ogni Ovest. 

Per scrivere Il suono della solitudine, che ha mosso il tuo carteggiare trasformando una recensione in lettera, sono partito proprio da lì da quel piccolo librino profetico che è Camminare di Henry David Thoreau: «Andiamo verso est per capire la storia e studiare le opere d’arte e la letteratura, ripercorrendo i passi della nostra razza. Ci rivolgiamo ad ovest, invece, come verso il futuro, con spirito di iniziativa e di avventura».

Da poco è passato Natale, ogni volta che lo penso bambino, questo giorno, che lo penso con me infante, non posso non immaginare Napoli, i Presepi, le statuine, i pastori, la nonna paterna che veniva dai monti di Avellino. Discendo da una stirpe di montanari e di viaggiatori, so cosa sono le radici e l’andarsene.

So che nel dolore si trova spesso anche il piacere. E viceversa. Il segreto, credimi, sta solo nel partire, poi tutto viene da sé, lo scrittore, il viandante, il sognatore, non hanno nulla di gravoso da fare, ma qualcosa di grave sì: scegliere.

Ad ogni bivio bisogna andare, o di qua o di là. Io ho un segreto, un piccolo talismano, che mi fa scegliere in fretta, a rimpianti zero: so, perché me l’ha sussurrato in un orecchio la vita, che ad ogni bivio nasce un altro me che prenderà l’altra strada e troverà altri crocicchi. Nei mondi paralleli dell’immaginario, ognuno di noi può avere migliaia di sé che prendono le altre strade, quelle che non prendiamo noi, e così costruiscono nuovi mondi, si mescolano con l’altrove.

Di nuovo: vivo di mitologie. Credo nell’epica dell’esistenza. Anche la mia solitudine non è altro che un tentativo di narrazione di una vita nella quale non sono mai riuscito a stare da solo, se non con me stesso.

E ovunque mi sia portato, o la vita mi abbia condotto, porto dentro di me i luoghi, le case. Diverse, forse le più belle, sono state a ringhiera, proprio come lo spazio che ci ospita: in corso Concordia a Milano, nei primi anni Ottanta, quando ancora c’erano i circoli operai, il vino da mescere sfuso, e il gabinetto sul ballatoio.

Poco dopo a Intra, sul lago Maggiore, sul ballatoio si vedevano le ragazze andare in bagno, perché lì, fuori, al gelo, avevamo proprio un bagno, con pure la vasca. Ricordo che guardai senza comprendere l’amministratrice del caseggiato di proprietà della curia, che non mi rinnovava il contratto d’affitto, per questo motivo: si vedevano le ragazze andare in bagno. Io non capivo. Significa che hanno passato la notte qui, mi ha spiegato stizzita. E non sta bene. Ecco, io non ho mai capito. Capito come si faccia. È la cifra della mia vita ancora oggi.

Venne allora a dispiacersi dello sfratto una signora anziana, una vicina che allungava ogni tanto a noi giovani dell’appartamento a fianco, una porzione di lasagne o qualche dolcetto. Mi disse: anch’io ho un uomo che mi viene a trovare, ma non mi sono mai fatta scoprire… Diventare depositario di quel segreto, di quella condivisione, mi ha fatto capire quanto sia importante essere disposti a stupirsi. Ho continuato a farlo, in anni molto più recenti, nella mia ultima casa di ringhiera, in via Panfilo Castaldi a Milano: lì ho visto il mondo cambiare, sbirciandolo da uno sgabuzzino che era per me il luogo delle storie, dei racconti, della vita. 

Scrivere, per me, è raccontare tutto quello che non so dire. Faith and luck are all you need. Occorrono solo fede e fortuna. Credo che per scrivere – come per vivere – non serva altro. Auguro entrambe, a te, prima di tutto, e a tutti i lettori di casadiringhiera.it  

Michele Marziani

(Foto di Michele Isman)

È QUASI NATALE

Tra pochi giorni avremo tutti, o quasi, qualcosa di nuovo da indossare, qualcosa da mostrare con fierezza ai nostri amici. Gioielli scintillanti cingeranno polsi felici, almeno per una sera, e su voluttuose scollature dondoleranno come trofei rinnovate promesse d’amore.

I desideri di grandi e piccini stanno per avverarsi, o quasi. Qualcuno acquisterà il best seller dell’anno perché fa molto intellettuale-radical-chic regalare un libro di questi tempi.

Daremo baci e riceveremo abbracci, telefoneremo ai parenti e agli amici lontani e, a fine giornata, il riverbero dei tanti auguri fatti e ricevuti ci donerà una inaspettata serenità.

Luci, stelle, dolci e bollicine abbonderanno sulle nostre tavole. Cibo sempre in quantità spropositata perché mangiare è un po’ ingrassare la fortuna e noi, di buona sorte, ne abbiamo un gran bisogno.

Brinderemo all’amore e all’amicizia, alla salute e alla gioia. Per tutti, o quasi, è un rito che si ripete noiosamente identico ed è come recitare lo stesso copione anno dopo anno.

E poi… poi saremo tutti più buoni e dietro i nostri sorrisi tutto risplenderà, il nostro cuore vibrerà e un vecchio film ci ricorderà che la vita è meravigliosa e i miracoli accadono perché Dio è buono con tutti, o quasi.

È quasi Natale e la gente lì fuori non vuole tristezza, bandita è la malinconia, banditi sono i brutti pensieri e il male nel resto del mondo non è cosa che ci appartiene.

È quasi ora di salutare il vecchio anno, dare le spalle a ciò che si è spento, dire addio alle preoccupazioni. Basta solo un buon vino, un piatto di lenticchie, un botto, un terrazzo vista mare, qualcosa di rosso et voilà le jeux sont fait, o quasi.

©MimmaRapicano_2018

A Christmas Carol

Ma voi ve lo ricordate A Christmas Carol? Il Canto di Natale?

L’ho ripreso in mano oggi che è solstizio di inverno.

No solo così, perché mi era venuto in mente. In realtà mi era venuto in mente Morloch. (E stavolta, lo so, solo i miei coetanei sopravvissuti a un’infanzia anni ’80 potranno capire il senso di questa parola)

Dicevo il Solstizio. L’ora più buia. Il giorno più breve dell’anno. La morte del Sole e sua, conseguente, Rinascita. 
Sono sempre stata legata a questo momento particolare. C’è nell’aria questa luce pazzesca, greve e splendente come una minaccia. Una luce da fine del mondo. 
Ma il tempo, lo sappiamo, è una roba ciclica. L’eterno ritorno delle stagioni. E trovo curioso che l’inizio dell’inverno coincida con la rinascita del sole. Quel sole vincitore che si festeggiava prima dell’istituzione, tutta cristiana, del natale.  

Noi di Casa di Ringhiera ci concediamo qualche giorno di riposo, prima di tornare a nuova luce. Una specie di piccolo letargo, lungo appena la durata di queste feste natalizie. Sverniamo tra un panettone un pandoro qualche prosecco le lucine colorate le renne a led nei giardini insieme ai nani forse qualche fioccata di neve e le solite maratone di film e serie tv arretrate. I più fortunati di noi forse saranno al caldo dall’altra parte dell’equatore a festeggiare in infradito e birretta. 

In ogni modo torneremo nel 2019 dopo l’epifania (non posso dire la parola epifania senza aggiungerci mio malgrado: che tutte le feste si porta via). 

Vi auguriamo di trascorrere delle pigre e sostanziose e divertenti feste, di svegliarvi con qualche sano hangover e di trovare sotto l’albero quello che avevate chiesto a Babbo Natale. Insomma baloccatevi. (E questa parola giuro che non la sentivo da quando andavo a casa di mia nonna, ere fa).

Ve lo auguro di cuore nonostante io sia dall’altra parte della barricata… sono una di quelle persone a cui faranno visita lo spirito del natale passato del natale presente e del natale futuro di Dickens. 

I will live in the past, the 
present, and the future. 
The spirits of all three
shall strive within me.

Vivrò nel passato, nel 
presente e nel futuro.
Gli spiriti di tutti e tre
lotteranno dentro di me.

(A Christmas Carol – C.Dickens)

Oh oh oh

Ah ah ah

«What a mad delusion / Living in that confusion»

Canzoni di Charles Manson

casa di ringhiera - «What a mad delusion / Living in that confusion»

22.15, inizi agosto.

Si profilava, nel pomeriggio, un splendido temporale estivo, annunciato da lampi lontani e qualche tuono. Ma non è successo niente, alla fine. Le particelle di azoto sono rimaste sospese nell’aria, nel limbo tra l’essere e il non essere, nel margine instabile della perdizione. Evidentemente, il fenomeno, mi ha dato un po’ alla testa, come il cloruro di metile faceva andare su di giri i sommergibilisti nei battelli della prima e della seconda guerra mondiale, travolgendo l’equipaggio in smanie, depressioni, stati di euforia, follia omicida, allucinazioni. Non lo scrivo per giustificare quanto fatto in seguito, anzi, me ne assumo tutte le responsabilità, alzando le barriere soprattutto agli occhi dei più bigotti, di quelli che vengono presi generalmente da facile sconcerto.

Il fatto è che mi piace scavare a fondo nelle faccende, osservare i fenomeni da più punti di vista, esterni, interni, dall’alto, dal basso, di lato. Capire le ragioni delle vittime e dei carnefici, cercare di fare un po’ di luce e gettare qualche ponte per costruire vie sghembe tra più universi in grado di scambiarsi messaggi, seppur non comprendendosi.

Così, dopo aver letto un lungo articolo su uno dei più efferati criminali americani e ormai icona pop, ho scavato tra le macerie e ho scoperto che ha inciso anche qualche album musicale. E allora, perché non ascoltarli? Tanto per sapere fin dove potrebbero arrivare la sua immaginazione e il suo particolare talento. Perché se qualcuno gli avesse dato maggiore fiducia sostenendo il suo sogno di diventare una rock star, forse avrebbe evitato il peggio e magari oggi ci sarebbe qualche morto di meno e qualche cantante maledetto in più, mediocre forse, ma con tutta la musica scadente che ci sommerge, un Charles Manson non avrebbe di certo abbassato di tanto il livello.

casa di ringhiera - «What a mad delusion / Living in that confusion»

Ho trovato, comunque, il suo sound tutt’altro che banale, i suoi testi spassionati e in qualche modo, anche, nella loro semplicità, profondi. La prima canzone che ho ascoltato è stata Look At Your Game Girl in cui si parla del gioco triste e folle di una ragazza, un gioco che francamente non saprei qual è. People Say I’m No Good, titolo divertente ed onesto. È una canzone molto meno lineare della prima, più frastagliata, una chitarra strimpellata con evidente difficoltà, una voce che si ferma e ricomincia, un ritmo che si fa a tratti più lento, a tratti più veloce. La mano che ogni tanto batte dei colpi sulla chitarra, in fretta, in preda a una frenesia palpabile. La canzone però mi piace, anche parecchio. Forse sono stata manipolata come tanti altri, da un Manson ormai trapassato che è, con il suo folle sguardo, da qualche parte, tra i suoi peccati e la sua musica dimenticata.

In Cease To Exist il ritmo lento accelera piano, raggiunge l’apice in cui la voce di Manson ristabilisce l’ordine e poi torna a rallentare e accelerare instancabilmente per due minuti buoni. I love you, canta Manson ad una ragazza alla quale dichiara anche My life is yours and / You can have my world.

In Ego la voce sovrasta tutto. Allucinata e bellissima.

casa di ringhiera - «What a mad delusion / Living in that confusion»

Credo, arrivata ormai a questo punto, di apprezzare molto l’opera musicale di un guru con una svastica tatuata in fronte e con il peso di diverse morti, sulla coscienza.

Mi ricorda certe canzoni dei Beatles, i primi esperimenti dei Rolling Stones, le abbagliate e psichedeliche melodie dei Doors. L’universo hippie nel quale il suo personaggio si è formato, degenerandolo. Le danze di qualche primitiva tribù in preda ad abbagli estatici.

In Home Is Where You’re Happy si parla di libertà e felicità, con la leggerezza dei matti o di chi è sotto effetto di LSD. Mi domando se queste canzoni siano state prodotte da un secondo stato di coscienza, parallelo a quella del criminale cattivo. In Sick City si raccomanda di guardare la tv e bere una birra – And watch TV and drink your beer – che uomo ordinario, questo Manson.

casa di ringhiera - «What a mad delusion / Living in that confusion»

Le note che mi accompagnano nella scrittura sono quelle delle tracce dell’album di debutto di Charles Manson, Lie: The Love and Terror Cult. Pubblicato il 6 marzo 1970 da Phil Kaufman, attraverso l’etichetta discografica Awareness Records.

Ciò che più stupisce dalle canzoni presenti nell’opera di esordio di Manson, alla quale seguirono nel corso degli anni altri due dischi, l’ultimo nel 2005 – One Mind – è che, a prescindere da quel che dicono i testi, intrisi di una irrequietezza dimessa e di un’inquietudine potenzialmente pericolosa, non traspare nessuna rabbia. Tutto è immerso in un’atmosfera piuttosto serena, quasi pacifica.

Ci si chiede dove possa risiedere l’inganno, ma forse l’inganno non c’è. Probabilmente è tutto chiaro e limpido come appare, ogni cosa abbandonata al proprio destino. Dal sound, più che protesta e ribellione, vengono fuori solo i sentimenti o di uno che credeva fermamente in un sogno o di chi si è già arreso. Ma la verità, anche stavolta, è altrove.

– Just as long as you’ve got love in your heart

You’ll never be alone –

© Iole Cianciosi

Nothing but the night – John Williams

«E intorno ai suoi occhi, che erano profondi e scuri, luccicavano degli strani bagliori»

John E. Williams

Nulla, solo la notte.

Nient’altro che il calore tiepido delle luci dietro le imposte quando la sera scende.

Niente più di qualche onda sulla battigia di settembre. Un aquilone colorato che spicca il volo e precipita lento, maestosamente.

Ci stupiamo della fine, come stupidi. Dovremmo stupirci di quando, tutto, sia cominciato.

Nulla, solo la notte è il primo romanzo di John Edward Williams, che di certo tutti conoscono per Stoner, ma che pochi ricordano per quest’opera. È un peccato che nessuno se la sia filata più di tanto, ed è bene – anche prima di continuare con quello che ho da dire – che la inseriate nella vostra lista dei libri da leggere, se ne avete una, che vi appuntiate il titolo sopra un pezzo di carta, tra le pagine della vostra agenda, sul blocco note del vostro smartphone.

C’è la storia di questo ragazzo che ce l’ha un po’ con tutti, ma prima con se stesso, in un’America dipinta in bianco e nero come quella delle fotografie di Regina Schmeken, in particolare una: New York Skyline, del 1981.

Nothing but the night – John Williams

© Regina Schmeken, New York Skyline, 1981

C’è la mia voglia di scrivere, in questa domenica – sempre la domenica, lenta, interminabile – pomeriggio d’autunno, un autunno appena giunto, col suo passo silenzioso e morbido, esitante. Ci sono ferite, tragedie. La voglia di ritornare su qualcosa iniziata tempo fa e scriverne la fine che si merita. Aggiungere un pezzo, sistemare le parole qua e là, mettere una virgola, qualche parentesi, ampliare periodi e farli diventare varchi spaziali.

In sospeso è rimasta la vita di un giovane uomo impegnato a leccarsi le ferite e incazzato col mondo. La sua esistenza che potrebbe essere anche la nostra (e lo so che lo dico spesso, ma con le buone storie si finisce sempre così), noi umani che nella letteratura ci identifichiamo, mentre a sua volta, questa, per ricambiare il favore, ci salva.

«Padre nostro che sei nei cieli, dacci qualcosa da fare stamattina. Una passeggiata nel parco.»

John E. Williams

 

Consideriamo l’anima di Arthur Maxley, «sporca e disordinata» che abita il corpo di un alcolizzato depresso che a sua volta vive in una San Francisco stracolma di luci, feste e nevrosi. L’angoscia lo attanaglia, non gli piace il mattino, ha qualcosa di osceno, dice. Non gli piacciono le passeggiate nel parco, benché si promette di farne una ogni giorno, e non gli piace la parola padre. La detesta, perché detesta suo padre.

Il tutto è raccontato con un linguaggio carico di afflati filosofici, elementi onirici, note stranianti e puro lirismo. Il romanzo – scritto da un Williams ventenne – si apre con il protagonista estraniato e confuso che si sveglia da un sogno e ricorda. Ricordare, però, non conviene, in quanto questo processo apre voragini pericolose, anfratti bui nei quali si nascondono animali feroci: i nostri incubi, le nostre paranoie, le più intime paure. Arthur convive con questo genere di cose, l’alienazione e la solitudine lo abbagliano e lui diventa quasi trasparente, quasi invisibile.

Nothing but the night – John Williams

«Per quelle persone egli era un rumore privo di significato, un’esplosione senza conseguenze».

Le tenebre lo avvolgono sin dall’inizio e l’oscurità lo avvilupperà nel suo manto morbido, anche alla fine. Questo rispecchia molto, in un certo senso, quello che eravamo prima di venire al mondo, il luogo in cui ci trovavamo, un posto senza luce, appunto. Per lo meno credo sia questa la sensazione di un feto nel ventre della madre, anche se non ne sono sicura e la scienza, per ora, non aiuta. La confusione e lo straniamento di chi frequenta l’universo mondano delle feste americane, dove la folla ti inghiotte e ti soffia addosso «le parole insieme al fumo del sigaro e all’aroma delicato di gin e vermouth». Dove tu non vali niente, o meglio, vali solo in quanto parte del complesso, l’individualismo muore tra voci e musiche, in misere e stranianti atmosfere.

All’inizio della storia, Arthur Maxley è semplicemente il sognatore che si aggira confuso e in preda al panico tra stanze affollate, dove ogni atomo è scosso da qualche agitazione interna, dove inquietudini e tormenti prendono forma e diventano corpi tra i corpi. «Vi fu una grande esplosione di luce accecante, cui seguì un vuoto impenetrabile di tenebre; poi dalle tenebre, fortemente amplificata, gli giunse la voce della folla».

Quando la festa finisce arriva il mattino, ma il mattino non è la soluzione, perché i demoni di Arthur non abitano unicamente la notte, ma la sua esistenza. Il rapporto col padre è burrascoso, i ricordi dell’infanzia troppo violenti da sopportare, le sue giornate vuote.

È in questo modo che viviamo, a volte le giornate ci attraversano, altre volte ne prendiamo il controllo e siamo noi ad attraversarle. Entrambe le cose si susseguono in questo grande e complesso sistema che chiamiamo vita, abitato da giorni, da effimeri presenti, da futuri che si presentano come abbagli e da ricordi. I ricordi, in Williams, sono elementi fondamentali, costituiscono una delle colonne portanti del romanzo, nella forma di languide nostalgie, di rimpianti per un tempo che non c’è più.

«“Ecco qual è il momento più bello della vita”, pensò, “il tempo perduto. Il tempo dell’estate, quando le foglie degli alberi s’intrecciano nella luce iridescente del sole”.»

 

È un romanzo intenso, metaforico; si dipana in un intervallo definito e breve, dove gli eventi si susseguono in fretta, ma dove si trovano anche ampi margini per l’autoriflessione, camere scure dove il flusso del mondo si ferma e dove prende vita, come un animale mitico, il tempo interiore.

Nothing but the night – John Williams

John Edward Williams

La vita è un abbaglio, dall’inizio alla fine. È un sentiero scosceso dove camminiamo come sognatori, sperduti, senza indicazioni precise, né chiari appigli.

E alla fine, come sognatori che si rispettino, ci riaddormentiamo, dopo aver aperto gli occhi per un po’, dopo aver sperimentato, camminato abbastanza, partecipato a feste, bevuto troppo. Solo in quel momento, le tenebre, che ci avevano accolti in precedenza, troveranno ancora un posto per noi, nel loro grande spazio vuoto e dolce.

__ «Perse consapevolezza del suo corpo. Divenne puro pensiero e pura riflessione, un’energia disincantata che galleggiava in uno spazio cieco.» __

Fine.

© Iole Cianciosi