Ero in auto e tornavo dal centro commerciale. Per la strada non c’era chissà quale grossa presenza di automobilisti. In pieno sabato post pranzo non mi aspettavo di certo la strada deserta, eppure mi sbagliavo. Sarà che nel primo pomeriggio del fine settimana la maggior parte della gente preferisce fare altro invece di passare in rassegna gli scaffali di un ipermercato qualsiasi.
Come sottofondo musicale c’era Father John Misty. Forse era proprio la sua When You’re Smiling and Astride Me a farci riflettere nel silenzio successivo alla confusione da luogo saturo d’aria ovattata. In un modo o nell’altro si deve pur uscire dal quel senso di nausea puntualmente provocato dal clima finto della mega struttura.
Non so a cosa pensava la mia compagna di viaggio, ma io avevo i miei pensieri impegnati sulle montagne che ci affiancavano lungo il percorso — sono davvero pochi i chilometri che percorro ogni volta che vado al centro commerciale della mia zona. Il sole ci colpiva in pieno e noi non potevamo fare altro che approfittare della situazione per scaldarci un po’ attraverso il vetro del parabrezza. L’intensità dei raggi era pari a quella che ti consente di ammirare in controluce i segni delle gocce di pioggia ormai asciugate dallo scorrere del tempo.
Le stesse montagne le ammiravo già da bambino. Le case piene di comignoli fumanti e cataste di legna da ardere ammassate sul retro, sotto il tetto spiovente. Una realtà che da sempre mi affascina, se non fosse per il mal d’auto che mi scatta all’imbocco della prima curva. Amo le montagne ma odio i tornanti. Per tenere a bada il mio stomaco dovrei essere sempre io alla guida, eppure non prometto nulla di sicuro. Per il momento mi limito ad ammirarle, altro non posso fare.
Nonostante siano pochi i chilometri che dividono casa mia dal centro commerciale, per la strada incontro ben tre cavalcavia. Il sole va e viene per la durata di secondo. La velocità dell’auto è sostenuta e attraversare quegli ostacoli è cosa da niente. Quegli ammassi di cemento e catrame sono lì perché fanno parte di una strada costruita per collegare un petrolchimico con il capoluogo di provincia. Nella sfortuna dobbiamo accontentarci di avere una super strada tranquillamente percorribile. Credo rientri sempre nella lista degli effetti collaterali, di fianco alle voci distruzione del paesaggio e tumori.
Sotto quei cavalcavia non erano solo i raggi del sole a sparire per un nano secondo. Con loro sparivano anche le montagne — e il mare dall’altro lato. Accatastare tutta quella legna sul retro non è mica facile. Bisogna armarsi di ascia e motosega e spaccare a suon di imprecazioni i tronchi che si hanno davanti. Inermi sì, ma con tanto di quella forza nel resistere alle nostre intenzioni. All’inizio potranno apparire come dettagli di un frutto acerbo, ma con l’aumentare dello sforzo si becca il ritmo giusto e arrivederci freddo gelido della notte. I camini vanno sfamati.
Nel frattempo eravamo arrivati all’uscita centro del nostro paese. Rallentai e scalai le marce ascoltando attentamente il suono del motore che diminuiva i suoi giri. Dalla quinta alla quarta, dalla quarta alla terza e così via, fino a fermarmi. Sotto al segnale di stop, con il sole prepotente alla mia destra e l’ansia da incidente alla mia sinistra, dietro una vecchia auto compare un grosso tir dalla cabina di comando immensa. Aveva una serie di led che formavano una parola — credo il nome dell’autista — e una serie di disegni/codici manco fosse un biker californiano. Tra l’abbaglio sulla destra e l’imminente avanzata del mostro da trasporto merci, portai i miei occhi dritti sull’immagine che hanno — la maggior parte dei camionisti la sventola con estremo orgoglio seguendo un’accurata deontologia — nella parte inferiore del loro parabrezza. Il particolare che più risaltò era la barba di un uomo ritratto in bianco e nero. Ci attraversò di corsa.
Cazzo, ma quello era Hemingway?
Macché, era Padre Pio.
Proseguimmo dritti per la nostra strada. A quel punto le montagne dei miei pensieri vennero spazzate via dall’immagine distorta di un uomo barbuto.