(Clive Barnes)
Le si vede sempre passare baldanzose e lambire gli orditi su tavolini marmorei, serrare gli usci delle sala di posa solo per il piacere di ascoltarsi o godere delle dita delle truccatrici preordinate a stagnare sudore e lucidità. In quei boudoir di facciata, abita una varietà inesauribile di irreali realtà. Il salotto è un pannello, gli scaffali hanno volumi finti, l’acquazzone alle finestre ha origine da una macchina, eppure, a volte, i capelli sono veri, creati solo per loro, veri come le mani delle sartine. Quelle che si angosciano sul serio per le allacciature non funzionanti. Gli autografi sono autentici: inchiostro su ricevute della spesa, inchiostro su fogli di quaderni strappati, sul retro di libretti di risparmio, inchiostro sulle mani. Ed esistono cose, dentro quegli studi, che sono sode e concrete più delle mensole dei truccatori, più essenziali dell’acqua gasata di marca. Esiste una realtà, magari riscaldata, che corrisponde ad una distorta idea di bello. Quella musichetta che inquadra il viso dei personaggi principali in aureole colorate, una canzoncina che agisce da sveglia per i neuroni croccanti delle regine delle soap, doppiate da decine di voci con volti sconosciuti, tante Maria dai culi grossi e dalle pelli abbronzate, tante Anna doppiate da schiene ricurve, voci aspirate di donne dalle bocche piene di ragù. In quei posti ogni cosa è assolutamente pianificata. Le invidie e le perfidie hanno il loro posto esatto e perfino la creatività degli sceneggiatori, vestibolo per un fogliame di promemoria, visioni e eventualità di vendette da inalveare nella trama. Un insieme d’immoralità, dipartite impensate e ritorni in veste di fantasmi, liti familiari, e incesti senza remore. Tutto viene gestito senza senso della misura. Puntate da trentacinque minuti, reclame di pomate per capelli all’interno, musiche sensuali e intensi primi piani. Interni dai toni sfarzosi, famiglie cresciute negli anni, amori infedeli, unghie ricostruite, voluminose lacrime dietro le quinte, prolungati abbracci di fronte agli assistenti, musiche, detergenti ai fiori e rossetti alla ciliegia. Ma esistono donnine normali, con lavori normali, che sognano tutto questo. Che vorrebbero scambiare la loro realtà con cartonati e cerone. Donne che fanno turni di otto ore, che vedono ogni giorno macchinari muoversi in una farandola poco organizzata, dove tutto sembra sempre assolutamente ordinario. Dove l’unica colonna sonora è quella del fischio aguzzo dei treni in frenata e da segheria delle porte, il cigolio da fabbrica di sapone ottenuto dai polpacci di infanti, lo schiudersi regolare degli ombrelli. Dove gli unici effetti speciali sono quelli delle impronte bagnate degli stivali di gomma, le barbe incolte e le pelli tagliate, le sciarpe smarrite. Nessun panorama verde a fare da sfondo alle finestre trapassate dal sole finto, nemmeno una melolonta impigliata fra le frasche seghettate color menta, nessuna deiscenza floreale nella serra finta, neanche l’ombra del silicone simil rugiada a martellare gli steli. Ma la finta realtà affascina le menti con lobotomia congenita.