di Valentina Rinaldi
Roba buona come il pane, all’ultima edizione di ArtVerona. Curiosa, mi addentro in questa nebulosa di pellegrini silenziosi in cerca di un santo a cui votarsi, in cui si cammina lenti e ci si ferma, si inclina il capo. Ordinati e disciplinati per questa fiera d’arte moderna e contemporanea, dedalo di allestimenti minimal e ricercati sussurri, come si conviene, poi ecco, d’improvviso: fermi tutti! Che forse ci s’inciampa senza accorgersene, forse te ne accorgi pure — mind the gap! — e deliberatamente ti ci butti dentro. A caduta libera(toria).
E’ così che mi ritrovo di fronte allo stand di Boccanera, galleria che espone gli scatti di Dido Fontana. Ci ho girato attorno, ho preso tempo, ho riempito i polmoni di ossigeno.
Decidi ora: o vai o resti.
Non serve neppure lanciare la monetina, piuttosto avanzo ancora un poco. E, ad ogni passo, la forza di gravità spinge verso quell’affollamento di fotografie e cornici e stampe e fotocopie e poster. Più che sovraffollata quella parete, trabocca e riempie la vista e il cervello. Non è solo una questione di spazi. Ti investe, letteralmente. Ti giri, puoi anche fingere di ignorarla, ma da qualunque parte si arrivi, si cammini, si sbirci, che sia attrazione, fascinazione, potenza magnetica, o per pura curiosità, non si può fare a meno di avvicinarsi. E Dido Fontana, fiero re cannibale, è lì che attende al varco, F**king & Perfect, braccia conserte e sorprendente sorriso aperto che invita ad avvicinarsi, e timidamente sorridi e già senti l’eco sinuoso delle sirene che abitano quella parete cantare e chiamare: Vieni da me, vieni da me. Dolce, agognato abbandono: allunghi la mano e ti lasci beatamente condurre. Scivola lo sguardo e scivola il pensiero su questo gigantesco foglio vischioso, che appiccica e ti imprigiona. And no, no way out.
Tutte quelle immagini che non danno tregua e ti fermi e poi ti avvicini ancora e alzi il collo, di più, di più che lassù spuntano altre foto (mannaggia, servirebbe una scala). Chissà che effetto che fa, da lassù. Cedo, confesso: ora neppure mi interessa. Non è più tempo di rincorrere logiche razionali. E’ visione e scoperta insieme, questo premeditato sforzo nel cogliere le immagini, scovarle al margine di una cornice, flash che s’intrecciano tra pezzi di nastro adesivo fluo, saltano ovunque e rimbalzano addosso come una luce strobo che stordisce e ipnotizza. S’annoda la vista e s’annoda il pensiero, naufraghi beati in quel senso sinuoso e sconosciuto che solo l’artista sa.
Chissà, forse pure le mie palpebre ora sono fissate con quel nastro fluo, e rimangono così, spalancate a forza a recepire e assorbire quante più immagini possibili. Oggetti sacri su corpi disegnati, oggetti a caso che si fanno ornamento e incontri e respiri e giocosi turbamenti e sorrisi e ringhi complici si sovrappongono e insieme danzano divertiti in questo (in)naturale habitat creato dallo sguardo e dall’inconfondibile stile illuminato di Dido Fontana. Audace, intenso, acuto, crudo, sexy, saturo.
La bellezza c’è, e tanta. Densa. E colore, e luce e ancora colore.
Io che amo tanto il bianco e nero (che quasi tutto fa sembrare bello e perfetto, e pure le rughe diventano poetiche) rimango stordita da quei corpi appiccicati così colorati e sfacciati. E col naso vicino a quel muro quasi sembra di sentire l’odore della polvere che entra nei polmoni e del cemento di certi magazzini dismessi, mischiato al cuoio dei divani e la pelle arrossata di braccia e gambe che ci striscia appena di lato, scomposte e lascive come in un quadro di Balthus. Guardo quella parete e mi manca il respiro. Si affollano e spingono, una sopra l’altra, una contro l’altra, come un pomeriggio caldo in un suk arabo: quelle immagini sono un’esperienza sensoriale pazzesca, un gioioso e personalissimo baccanale in cui Dido Fontana rimescola stile, arte, moda, divertimento, sesso, sacro, profano, ordinario e extra-ordinario, senza posticce pruriginose sollecitazioni volte deliberatamente a provocare o scandalizzare. I sensi, la carnalità, il sesso sono assolutamente presenti e sono ciò che semplicemente dovrebbero sempre essere. Gioia. Divertimento. Condivisione. Vita. Buon pane quotidiano.
L’arte bisogna studiarla, signorina, studiarla bene per capirla.
Non so. Quell’uomo accanto a noi parla, con quella flemma implacabile, e parla e parla tanto e io annuisco e sorrido cortese così a lungo che la mandibola duole a forza di tenere in fermo immagine il mio sorriso di circostanza. Al gallerista tuttologo/rroico, con quella sua lentezza che azzanna diretto il collo e non molla più la preda finché non la sfinisce dissanguata, quello scatto incuriosisce e commenta e chiede. Io che non ho l’occhio allenato, non ho alcuna competenza, non ho studiato la lezione, resto silente con le mie palpebre fissate e continuo a meravigliarmi. Insiste:
Ah, ci fosse il viso della modella, qui, sarebbe uscita una vera e proprio opera d’arte. Mi dica, perché mai l’ha tagliata?
Alza le spalle, Dido Fontana: è uscita così, non c’è un motivo in particolare.
Tanta è l’arte, che qui l’arte non si vede — penso io.
E poi chissà se nello scatto davvero c’è l’intenzione di creare un’opera d’arte. Quello l’obiettivo?
Una foto è una foto, dice. Se la pubblichi su una rivista è pubblicità che vende, la metti in galleria diventa un’opera d’arte. E in effetti, mentre sono lì con la retina ormai deforme e il cervello che fibrilla come un cuore, mi dice che quel cristo sospeso, già presente nella collettiva The Art of Murder al Minneapolis Institute of Arts, è stato appena acquisito dal Museo stesso. Chapeau.
Di tanto in tanto, con una mano che rotea nell’aria, Dido punta una foto e poi un’altra. Ed è il fondo giallo di Stay Strong(Z), e poi Winona interrotta dalle gambe di una ballerina in calze a rete rossa e c’è il verde dell’erba e lo smalto colorato turchese, Emma di qua, Emma di là, e ci sono santi e ci sono madonne, e una vasca piena d’acqua e una di quelle (in)consapevoli sirene che chiamano, e mutande e calze, calzini abbassati, tatuaggi, corpi vivi, ironici e colorati che non ti mollano mai, nemmeno per un secondo (e chi si muove?), Dido che sorride, brillante, accogliente e terribilmente sexy: c’è tutto lì dentro, tante cose insieme che traboccano nella sua produzione.
I primi sguardi si perdono nello stupore, si divertono a scoprire, riconoscere, desiderare, finché poi perdono consistenza, fluiscono nell’immagine stessa e si fondono con quella inequivocabile personalissima visione creativa, densa di conturbante energia vitale, surreale e primitiva, e spiccato senso estetico.
E quel suo sguardo non inganna, ma rapisce. Ti prende e ti porta via, sì. Senza convenevoli. Ti sbatte la faccia contro il muro e ti mostra in modo sorprendente, crudo e geniale ciò che non siamo stati in grado di vedere, ancora. E porta alla luce anche quei lati oscuri, le limitazioni, gli impulsi e le pulsioni, illuminati a giorno, li mette in bella mostra, travestendoli magari, rompe lo schema interpretativo convenzionale esaltandone colori e natura, stimolando in modo acuto una nuova gioiosa e giocosa consapevolezza.
Come se un pezzo di carne potesse scuotere le assopite coscienze dello spettatore in coma. Non c’è nulla di inventato, studiato. E’ la vita che è così, a volte prevedibile, altre fuori controllo. Ed è lì che il suo sguardo fa la differenza. La fotografia è uno strumento per definire cose e persone; non imita la vita, siamo noi che solitamente fingiamo. Senza prendersi troppo sul serio, senza tutte quelle messe in scena pretenziose e noiose, allenati a fare ciò che non vogliamo, iniziamo a vedere ciò che è reale, a giocarci, con tutto quello che c’è. Né brutto, né bello. Vero. Vivo. A colori. Solo molto più colorato. Solo molto più vivo.
E Non c’è trucco e non c’è inganno! Senza filtri né ritocchi qui, che le tecniche post produzione non fanno che alterare il senso, limano e correggono a tal punto da snaturare la realtà e disperderne il senso originario.
E quel suo sguardo curioso, audace e diretto, unico filtro concesso, ti si imprime dentro così forte e ostinato che fatichi poi a guardare le cose in modo convenzionale. Ti rimbalza dentro e attiva sinapsi e ribollir sanguigno inaspettato.
Sì, c’è la vita e c’è l’arte, nelle sue foto.
Ride, Dido Fontana, e dice alzando nuovamente le spalle che non fa niente di speciale (ride, grazie a-d-dio ride) Riprendo opere e il lavoro è fatto. Non invento nulla, facile (uh!). Il tono leggero e le mani giunte, e la posa degli oggetti talvolta disposti artificiosamente, funzionali a creare una data immagine mentale, o ri-crearla, come accade nel suo Polittico che giganteggia alle mie spalle.
Le scene vengono riprese o ritrovate, rivelate o ricoperte con una velatura barocca, ed è palese e tutto personale il richiamo all’iconografia religiosa, spesso riproposto o rinviato, che caratterizza fortemente la maliziosa spiritualità e-statica di questi scatti.
La percezione del bello, si sa, è un fatto culturale: registriamo continuamente impressioni attraverso modelli condivisi e codificati. Assuefatti dalla costante patinature delle immagini, abituati a fingere vite che non sono le nostre, insceniamo bugie belle da raccontare, e profumate come un fiore da appuntare all’occhiello e con cui andare orgogliosi a stringere mani per presentarci al mondo.
E’ tutto capovolto, qui: una nuova estetica del quotidiano, spregiudicata santa comunione tra oggetti, cose e persone, voluta casualità esaltata (e talvolta, travestita) che diventa scena dal tono narrativo surreale o divertito, crudo e audace, estremo e provocativo.
Tutto ciò che di bello e di brutto esce certo è parte di lui, del suo sguardo curioso e irriverente che, senza orpelli o effetti speciali, fissa in quell’istante. Rapido, senza girarci troppo intorno, esaltando luci e colori che diventano parte della narrazione, Dido Fontana racconta ciò che vede: è già tutto lì. Semplicemente (a suo modo). Non ci sono regole compositive ben precise da seguire. E’ il caso che diventa un’occasione e visione creativa sempre nuova.
Tutto il resto, tutta quella ricerca talvolta esasperata di un qualche senso particolare, di livelli interpretativi, Dido Fontana lo lascia a noi. Non è roba sua. Tanto che gli scatti non hanno neppure bisogno di titoli. Che solitamente raddoppiano il senso dell’immagine e del messaggio e ciò implica sempre alterazioni. Non vi è bisogno alcuno di enfatizzare, qui, o sovraccaricare con un significato altro e nuovo l’immagine.
Io, nel frattempo, non riesco a staccare gli occhi di dosso a quella parete e una parte di me si sforza di dire qualcosa di intelligente, di elaborare un’osservazione acuta ma continuo a rimanere lì, in piedi e immobile, con la mia giacca in mano e quel lieve stordimento che mi provoca la sosta prolungata davanti a quel muro così denso, colorato e vivo. Resto senza respiro ma le immagini rimandano ossigeno modificato, una sorta di fotosintesi per cui tutto quello che di (apparentemente) tossico e oscuro c’è dentro di noi, viene nobilitato e reso puro, luminoso, commestibile, divertente, diversamente fruibile. Dannatamente bello.
Questa è la sensazione che ti travolge: di respirare bellezza, sfacciata e prepotente, sentirla in ogni cosa, anche dove non te l’aspetti, anche come non te l’aspetti.
Vorace e meticoloso, così rapido e rapace a prendere ciò che vede, vuole, mangia e digerisce. E quella straordinaria bellezza Dido Fontana ce la offre generosamente in dono.
Abbandonarsi alla vista di questo spettacolare muro è come una cura dalla dipendenza della vita-non vita, di quella stucchevole perfezione plastica del mulinobianco che tutto appiattisce e annoia a morte. Ecco che avverti formicolii alle estremità e il sangue inizia a rifluire, rapido ribolle nelle vene.
E la vita esplode, booom!
Occorre abituarcisi, alla luce.
(io no, non m’intendo d’arte: ho solo ceduto al canto delle sirene, oggi. E per un attimo, qui, quella “notte immensa e il sole insieme” credo pure di averli sfiorati)
Sia fatta la volontà del Caso. E di Dido Fontana.
Amen.