Skate or Die. E qualcosa di personale su Léon.
E così, improvvisamente, sono seduta sulla panca dell’Happy Days. Sono gli anni ’90. Estate. Ho qualcosa come tredici o quattordici anni. Ho le Converse nere poggiate sul grip di una tavola verde fluo con teschio nero e minuscoli fiorellini bianchi, della Vision. Skateboard sul quale ho investito tutti i miei risparmi in anni di comunioni cresime e compleanni. Léon, Chix e Fabio stanno facendo le loro acrobazie, saltando sulle gradinate della piazzetta.
Io me ne sto lì ferma, a guardarli andare su e giù. Quello che vorrei, più di ogni altra cosa vorrei, è andare da loro e dirgli quanto mi piacerebbe fare qualche trick insieme. Ma invece, invece, sono inchiodata dalla timidezza, mentre fingo di divertirmi a guardare.
Guardare e basta.
Poi ecco.
Léon che scivola rovinando accanto a me. Un sorriso da parte mia. Una risata di rimando da parte sua. Lui che mi allunga la mano, vuole che l’aiuti a rialzarsi. E così faccio. Il cuore a mille.
Lui che si guarda il ginocchio sbucciato e i palmi delle mani rigati con briciole di asfalto. Che ci soffia sopra. Lui che mi guarda, «Sei la Lù tu giusto? Mi hanno detto che sei brava con i kickflip». Io biascico qualcosa come un niente, sì sono la Lulù.
Lui mi sorride, si accorge che sono arrossita. «Andiamo dietro ai Campetti ché se ti vergogni… là siamo solo te ed io».
Quel te ed io mi infiamma il cuore.
Stamattina mi sono imbattuta, per caso, nelle fotografie di Alexander Gonzales Delgado. E, mioddio, sono state una coltellata queste foto. Come se, in un attimo, tutto un periodo della mia adolescenza mi tornasse di botto alla memoria. Quel bacio. Quell’angolo di mondo. Quei toni sovraesposti e impietosi dei ricordi. La grana di quegli anni.
Sembra di immergersi in quel mondo di un disincantato pastello scivolando sugli skates, parlando sottovoce sulle panchine del parchetto, bevendo birrini e ascoltando vecchi pezzi anni ’90, quasi uno sbirciare le vite dei ragazzi e delle ragazze guardando i loro baci, che non sono i primi né gli ultimi. I loro baci.
Nei suoi scatti ho rivisto la Giovinezza in tutta la sua roboante vanità e la sua crudele spensieratezza. Mi è sembrato di sfogliare uno dei miei vecchi album di fotografie, se qualcuno ne avesse scattate di foto quei giorni ai Campetti.
Léon, quell’estate, aveva i capelli rosa e diciassette anni.
I capelli rosa. Curiosa l’affinità.
Le fotografie di Alexander hanno sì la pasta di un certo gusto anni ’90, vuoi per la pellicola utilizzata, le immagini sporche e poco convenzionali, vuoi per le inquadrature volutamente sbollate, ma poi le guardi meglio e sai che non è così. I ragazzi delle sue foto hanno tatuaggi e piercing e abiti che noi non avevamo. Indossano contro T-shirt provocatorie, hanno pose provocatorie.
Se noi ricordavamo i “Kids” di Larry Clark, i suoi hanno qualcosa dei ragazzi di Xavier Dolan. Impregnati, per forza di cose, della memoria dei loro fratelli più grandi. (Larry Clark diceva che l’idea di Kids gli era venuta guardando i ragazzini in skate che giravano vicino casa sua davanti al negozio Supreme).
I ragazzi di Alexander hanno questo tipo di sguardo. Sognante e allo stesso tempo disilluso. L’innocenza che scompare, con maliziosa consapevolezza. Sono delicatamente sfrontati nei modi e nelle espressioni.
Hanno la bellezza. Hanno la crudeltà. La crudeltà della gioventù. Una crudeltà fatta, appunto, di bellezza.
Bellezza catturata con maestria da Alexander in pochi, semplici, scatti.
Non è un editoriale di moda. Non è un commercial. È un atto di amore.
Photo: Alexander Gonzales Delgado
Kids: @numa.inkmodel – @fuck_dlg_gosblit
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