di William Dollace
Suburra parte con luci intermittenti che si schiantano sulle ville romane tirate a festa mentre gli M83 sbeffeggiano corpi che si atteggiano e si dimenano come nei migliori Sorrentino, la Roma di Suburra è una Grande Bellezza in cancrena.
In Suburra la politica piscia sulle strade dai balconi dorati, dopo una festa che finisce in lenzuola bianche che coprono corpi andati in disuso, pronti da smaltire a rifiuto, incatenati nell’oblio di una notte finita male e picchiata dall’acqua.
Sollima filma una strategia di corpi e contusioni, di voragini nelle braccia, di promesse di pallottole, di agguati pronti ad essere intrapresi anche soltanto per sbaglio o per orgoglio. Sotto la luce tossica di Ostia si preparano crani lucidi pronti a raccogliere milioni in leggi a misura e minacce.
Suburra è anche un film di super-eroi, di risvolti da occhi di gatto sotto eroina, di corpi forati sui selciati e cani rabbiosi ingabbiati nei loro precisi ruoli, di cattopolicisti impossibili da asportare chirurgicamente, in un’epidermide urbanistica rifatta da un lifting cittadino che si atteggia come una bellissima puttana sfigurata, che aspetta le altrui esecuzioni, di corpi uccisi dietro le vetrine come manichini, di assalti al supermercato fra fiotti di sangue pioggia e surgelati.
E in tutto questo la regia sferoidale di Sollima realizza mondi nelle pause, crea immagini come epitaffi, storie fra i neon a guastarsi in silenzio, prima dell’ultima resa dei conti.
È un giro ai ferri corti, prima del prossimo vicolo a sinistra da santificare, antropologia di un territorio che secolarizzato sta a guardare, una città che resta comunque sola e marmorea, per i secoli dei secoli, mentre le marionette s’agitano e s’ammazzano in un susseguirsi di faide da sfarzo e nuovi samurai in leggings.
E tuttavia, restiamo a guardare con Lei, con gli occhi in gola di una notte che aspetta lo sfacelo dell’impero, nell’età della decadenza.
Colonna sonora del pezzo:
The xx — Intro
M83 — Midnight City