[Una dis-guida non convenzionale sul dolore e sulla necessità di una dimensione collettiva, anche da soli]
di Disguido Luciani (foto di Rosa Lacavalla)
È un luogo speciale quello del Labàs di Bologna. Chi ha vissuto a Bologna lo sa. Un luogo speciale quando lotta per avere una casa per sé. È speciale quando la sua casa la offre. Ancora più speciale quando si fa cinema. E proietta, in barba a chiunque dica no (leggasi “case” di produzione e distribuzione, leggasi Netflix e Lucky Red), Sulla mia pelle, film di Alessio Cremonini sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, atteso, qui più che altrove, con aspettative incontrollate e grandi speranze.
È un luogo speciale, il Labàs, una casa e una dimensione collettiva. Che tu lo voglia o no, accanto a te c’è una persona, che sia un tuo amico o uno sconosciuto, uno come te. E sicuramente da te diverso. Impegnato, proprio come te, a ritagliarsi il proprio spazio privato senza prescindere dall’altro. Senza prescindere da te.
È un luogo speciale. Dove ti senti parte di un tutto, anzi, lo sei. Dove ti senti parte di una comunità. Anzi, lo sei. Una comunità che si zittisce non appena compare la scritta “Sulla mia pelle”, che sussulta nelle scene più forti, che si paralizza nell’attesa che la vita di Cucchi vada verso il suo straziante epilogo.
È un luogo speciale quando si fa “una stanza tutta per sé”. È speciale quel quadrilatero severo con ampie arcate tutte uguali e finestre squadrate in alto. E un cielo stellato poco più sopra. Che si fa spazio infinito, dove si proietta un altro film, un rifugio per chi non ce la fa più a guardare fisso la faccia tumefatta di Stefano Cucchi, ad ascoltare le sue parole sempre più biascicate.
È un luogo speciale anche quando si fa cella. Il quadrilatero cinge il cielo immenso, lo asfissia. Tanto che si fa piccolo piccolo. E d’improvviso non è più rifugio, è una prigione collettiva. Che dentro ci sei tu. Ma c’è anche l’altro. Quello accanto a te, quello che era diverso da te. E che adesso è davvero come te. Come Stefano Cucchi.
Il film non è bello. Perché non serve che lo sia. Non è enfatico. Perché non serve che lo sia. Ma, soprattutto, non è “un film necessario” come si legge ovunque. Facile dirlo una volta fatto, impacchettato e già visto. Ma chi lo ha realizzato? Chi ci ha messo la faccia?
Al contrario, film difficilissimo da realizzare, Sulla mia pelle è frutto di una precisa volontà. Una volontà coraggiosa, spericolata. Nel senso più bello del termine. Una volontà che si assume un’altrettanto precisa responsabilità, al tempo della deresponsabilizzazione a ogni livello. E il rischio (e che rischio!), di parlare di una dolente pagina della Storia d’Italia, una pagina che ancora non è stata voltata.
Sì, Sulla mia pelle non è bello, enfatico. E no, non è necessario. È ben oltre tutto questo. È un film onesto. Non cede alla tentazione di denunciare ciò di cui ancora ancora non si può parlare con le spalle ben coperte da verità giuridiche e sentenze definitive. Racconta solo ciò che è provato, comprovato, vero, al di là di ogni (non) ragionevole dubbio.
Non indugia sulla faccia martoriata di Stefano Cucchi, né sulle ferite del suo corpo che lentamente muore accartocciandosi, sempre più piccolo, su sé stesso. Non si sofferma sulle lacrime di Ilaria, sulle grida di dolore della madre di Stefano. Non mostra la violenza. E nemmeno i suoi segni.
Racconta qualcosa di talmente tanto impalpabile da essere quasi invisibile. Racconta il dolore di un uomo negli ultimi giorni della sua esistenza. Qualcosa che non possiamo solo vedere. Dobbiamo guardare. E così si fa, senza violenza, senza rumore, sentenza silenziosa, condanna definitiva.
E allora quel quadrilatero è l’ampia e spoglia aula di un tribunale dove un giudice, che di casi come quello di Cucchi ne vede ogni giorno, si trova davanti al volto di Stefano, che in quel momento è solo Stefano, un ragazzo come ce ne sono tanti. Stefano non è ancora quella pagina di Storia d’Italia. Non è la determinazione della sorella Ilaria, né le lacrime dei suoi genitori. Non è l’indignazione di una nazione, né il caso mediatico che ne scaturirà. Non è l’interpretazione intensa di Alessandro Borghi, né gli applausi a Venezia. Non è ancora il suo dolore, quello manifesto, non è neanche il nostro. Non ancora.
È solo Stefano Cucchi. E Stefano Cucchi è solo. Colpevolmente solo dentro una macchina giuridica talmente ben oliata (sarebbe meglio dire mal oliata) da diventare disumana. È un fermato, come ce ne sono tanti, per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, che all’interno di quella macchina è un nome, un cognome, una data e un luogo di nascita, un indirizzo di residenza.
Non è il volto riempito di lividi e ferite di quel ragazzo che fatica a parlare. Che per paura tace sull’origine di quei lividi. Stefano quei lividi li ha. E si vedono davvero. Tutti li vedono, nessuno li guarda. Nessuno, in quell’aula, ne parla.
Si carica d’impotenza quel quadrilatero condiviso. Di sensi di colpa, d’ostinazione, anche. Di rifiuto d’accettazione di una realtà che si è già consumata mentre nessuno guardava.
E ora guarda. Guardiamo tutti. Guarda anche chi prima riusciva solo a vedere. E ora parla, ché tutti ne parliamo.
E che tutti ne parlino. Al di là di polemiche, di giurisdizione in materia di diritti, al di là di visioni private e dimensioni collettive, al di là di bandiere, schieramenti, d’ideali, persino. Al di là di categorie, di bello, brutto, enfatico, necessario, al di là di cieli immensi, stanze tutte per sé, celle e aule di tribunale. Al di là di nome, cognome, luogo e data di nascita, indirizzo di residenza. Al di là di una pagina di Storia d’Italia non ancora voltata.
“Stefano, tu sei un atto d’accusa vivente, sì, vivente contro quel modo di pensare ignorante e violento. Tu che di violenza sei morto”. Un atto d’accusa vivente, sì, vivente che ci ricorda che non possiamo solo vedere. Dobbiamo guardare, ne dobbiamo parlare.
Purché si guardi, purché se ne parli. Senza prescindere dall’altro, senza prescindere da te.