di Giovanna Taverni
Quando negli anni Novanta la retorica voleva che si sognasse la California, il surf in Italia non era ancora arrivato. Mi ricordo l’estate in cui vagai alla ricerca di una tavola da surf autentica senza successo: tutti mi rispondevano con la stessa solita storia — in Italia c’è solo il windsurf, noi non abbiamo le onde dell’Oceano, fattene una ragione. Deve essere così che ho cominciato a sentire i Sex Pistols. Scoprire di come oggi il surf sia arrivato anche sulle nostre coste è doloroso, ma meglio tardi che mai.
Laggiù, verso l’America, esistono addirittura riviste a tema che parlano esclusivamente di surf, con video dedicati alle più grosse imprese sull’arte di tenere il ritmo di un’onda, sono stati realizzati documentari sui più grandi surfisti, i primi pazzi che si sono scontrati contro le onde (si tratta di uno sport piuttosto giovane), sulle coste atlantiche dell’Europa — in Portogallo — ci sono tratti di costa interamente dedicati ai surfisti, e addirittura quest’estate Internazionale ha diffuso un articolo che racconta questo mondo ignoto al pubblico di lettori italiani. Lo avranno letto? Ci auguriamo di sì. In fondo è il più spettacolare tra gli sport. Mentre il giocatore di basket volteggia nell’aria per buttare la palla dentro un canestro nel giro di qualche secondo, e il giocatore di calcio fa una rovesciata che dura un istante, il surfista intrattiene i tuoi occhi sulla tavola per lunghi secondi, e tutto sembra durare di più. Sai che potrebbe cadere da un momento all’altro, sai che un’onda potrebbe buttarlo giù, soprattutto sai che l’onda lunga prima o poi finirà e non ci sarà più nulla da cavalcare. Prepariamoci dunque al 2020, quando il surf entrerà di diritto tra le discipline olimpioniche.
Pare che i primi surfisti siano stati avvistati dal capitano James Cook in Polinesia alla fine del Settecento. Non era ancora nemmeno uno sport, i polinesiani lo facevano per gioco — ma ogni sport professionista che si rispetti viene da un gioco. Al contrario del rum quella del surf non è comunque una storia di violenza occidentale sugli indigeni americani: in questo caso i nuovi venuti dall’Europa cominciarono semplicemente a imitare i polinesiani. [Per la violenta storia schiavista del rum rimanderemo alla prossima puntata] Il nuovo popolo americano, nato dalle ceneri degli indiani d’America, divenne nel giro di un secolo il popolo dei surfisti, anche se tutto era merito dei polinesiani. La macchina dei sogni di Hollywood celebrò le coste californiane nel Novecento, Un mercoledì da leoni sarebbe diventato un must del cinema. Presto il surfista Kelly Slater sarebbe diventato un divo.
Il surf ovviamente si accompagna alle coste, al mare, al misticismo, e alla ricerca di ottime spiagge dove surfare. Il surfista autentico è un viaggiatore. Le coste italiane saranno anche ventose in qualche tratto, fatte per il windsurf, che poco si prestano alle cavalcate alte che riservano le coste australiane, americane, portoghesi, africane (oceaniche in fondo). Eppure da qualche tempo si sono diffuse scuole di surf anche sulle coste italiane, nel Lazio per esempio, o in Toscana. I suoi insegnanti d’inverno partono ovviamente alla ricerca di onde più alte verso terre lontane, come novelli James Cook, poi tornano a dire a tutti quello che hanno imparato, provano a insegnare come fare, come reggersi sulle tavole, prendere bene le onde, diffondere questo sport — ancora minoritario.
Arriverà il grande giorno del successo del surf in Italia? Forse no. I nostri destini italiani sono legati a un mare piatto, che quando si anima d’inverno spaventa ancora. Un altro giornale nostrano che ha dedicato attenzione a questo sport quest’anno è Il Magazine, l’inserto de Il Sole 24 Ore diretto da Christian Rocca. Nell’articolo brillano le parole di William Finnegan, surfista e staff writer del New Yorker che ha pubblicato un memoir sulla sua passione (Giorni Selvaggi), “il surf non è uno sport: è una droga, una mania. Non lo raccomanderei mai a mia figlia”. Avete mai avuto una mania? Per esempio i Beach Boys che suonano Surfin’ Usa potrebbero diventare una di queste manie, se riascoltata troppe volte al giorno. Sedetevi, prendete una camomilla o un caffè (a ognuno la sua bevanda), e godetevi un tramonto armonioso stasera. Che sia alle Hawaii o in Australia. Basta che ci siano dentro parole come queste.
Da ragazzino ero interessato ai locali, ai gruppi e alla competizione nel mondo surfista. Alla fine degli anni Sessanta associavo il surf a un ideale di solitudine, di purezza delle onde perfette in un mondo incontaminato. Era un sentiero che ti conduceva lontano dalla civiltà, nel senso più antico della parola, verso una frontiera dimenticata da dio dove avremmo vissuto come moderni selvaggi. Non era la chimera del felice vagabondo, qualcosa di più profondo. Il rifiuto radicale dei valori del dovere e della realizzazione personale. Molti surfisti furono renitenti alla leva: era il rifiuto della guerra del Vietnam e il desiderio di ridefinire le nostre vite — William Finnegan
Siete convinti? Nel 2020 arriveremo preparati all’appuntamento delle Olimpiadi: per l’occasione disertiamo la guerra, e andiamo laggiù, a convertirci alle parole di Finnegan.
In copertina McGrigor Team, primi anni ’70 — foto di Bryan Hughes