Il germe dell’attesa.
L’attesa, quando arriva, non si può dirle niente. Non un insignificante rimprovero. Non un ammonimento biascicato, non un avvertimento trascinato fra palato e lingua. Il germe dell’attesa arriva con la noncuranza di una barba non fatta e i capelli in disordine. Arriva con quel particolare gusto nell’aspettare davanti alle porte, prima di spalancarle. È l’attesa raminga, della salvaguardia a ogni costo, delle unghie infilate nelle poltrone. Le attese sono bicchieri colmi di lombrichi su tavole disinfettate, sono un microscopio fatto con resti di macchine fotografiche in rovina e cannocchiali ricavati con vetrini introdotti in un ramo. L’attesa passeggia accanto alla stanchezza. E tira le maglie come un furetto molesto alla ricerca di un cielo stabile sotto nuvole schizzate dal sole, fronde scure e epidermide secca. È un viso costantemente in ricerca di mani aperte e visiere per pensieri. Marchingegni lucenti per denti e macchie di lampone sulla pelle. Ci misuriamo le ossa, e in attesa, respiriamo il suono degli usci.